di DANILO CARUSO
Il sistema religioso induista contiene tutte le grandi
possibilità della filosofia occidentale. Spiegherò simile affermazione in
dettaglio, superando la radicale forma dicotomica Occidente/Oriente. Per
evitare un fraintendimento a monte preciso che non si tratta di equiparare
bensì di collegare. Parto da una considerazione cui sono giunto a conclusione
rispetto all’impressione e alla riflessione di partenza. Essendo junghiano,
dopo aver visto che la filosofia greca antica altro non ha fatto che ripensare
l’Induismo in maniera razionalistica ottenendo varie differenti direzioni di
pensiero speculativo conseguenti, ho pensato di avvalermi dello schema di Jung
relativo alla struttura caratteriale umana che distingue: due facoltà razionali
(la ragione in senso stretto e il sentimento) e due irrazionali (la percezione
e l’intuizione). Nel consueto cerchio quadripartito derivante ho collocato l’Induismo
nella posizione dell’intuizione. Detta religiosità infatti ha sviluppato tale
dimensione. Non si è espressa in guisa razionalistica al pari dei Greci, ha
usato argomentazioni residenti sul piano del mito (alla stregua di Platone). E là
è rimasta pur formulando principi molto profondi e molto pregni di ricchezza
concettuale. L’Induismo ha colto intuizioni, e tali le ha lasciate nella
fissazione delle sue verità. Non ha argomentato alla maniera filosofica
occidentale, ha assunto un’apparenza dogmatica, la quale in virtù però della
propria profondità retrostante non offre un dogma vuoto. L’Induismo presenta
una forma di idealismo non costruito con canoni razionalistici. Qui ritornano
Jung e la facoltà intuitiva quale modalità non razionale. Gli induisti hanno
percorso simile direzione con notevolissimi risultati. E la riprova di ciò si
recupera nel fatto che la razionalità junghiana è contigua all’intuizione, e
nella veste di filosofia greca ha rielaborato contenuti di una pregressa e poi
contemporanea fase intuitiva induista. In parole povere abbiamo un pilastro
idealistico in comune visto, descritto, e concepito nelle speculazioni da due
punti di vista collegati, ma separati nel loro porsi alla mente umana. L’Induismo
coglie una verità, la intuisce, cioè la trova al di fuori di una procedura e di
un cammino razionalistici, e quindi la offre. La filosofia greca, in quanto
momento valorizzante la Ragione, il logos, coltiva la trattazione sul percorso
che porta a una verità proposta. Direi che ci sono due modi mediante i quali
una stessa cosa è stata detta. E mi riferisco al pilastro verso cui i filosofi
sono stati dialettici, vale a dire che vi si sono relazionati in termini
analogici vari o di contrasto sempre differenziati in rapporto all’autore. L’Induismo
parla di un Brahman universale e totalizzante da cui deriverebbe la molteplicità
di atman, gli Io che diventano empirici incarnandosi e paragonabili all’“Io
penso” kantiano. Nell’emanazione fenomenica del mondo compaiono i quattro
elementi greci e l’etere (il contenitore, la spazialità, la chora platonica).
Platone possiede un impianto molto induista. Oltre a una cosmologia
fenomenistica la quale squalifica la realtà sensibile, mirando a proiettarci
alla volta del metasensibile (Brahman), pensiamo alla proposta politica
principale del grande filosofo ateniese che tripartisce la società in tre
categorie le quali ritroviamo uguali nella società indiana induista. Il più
importante allievo di Socrate rivela altresì la presenza dei tre “guna” nel suo
pensiero, cioè i tre caratteri specifici di ognuna di quelle tre classi
sociali, i quali poi sono qualità individuali operanti in interiore homine: da
un lato sapienza/coraggio/continenza, dall’altro virtù/passione/ignoranza. Ogni
sistema ha colto sfumature di cose analoghe. Platone e l’Induismo sono
concettualmente imparentati. Rammentiamo anche il tema della metempsicosi.
Colgo lo spunto delle analogie platoniche allo scopo di aprire un nuovo
versante della mia analisi. Riguarda la teologia emersa dal pensiero cristiano:
il Dio unico e creatore di tutto. Questa non è la tesi originale biblica veterotestamentaria1.
In “Genesi” gli Dei vengono fuori dal Caos, e poi un demiurgico Dio platonico
ordina e monta il cosmo da una materia a lui parallela e non creata. L’idea che
Dio sia “uno” proviene dagli antichi Veda, l’idea che non esista una indipendente
materia separata dalla sostanza divina è di matrice induista. Mi pare che la
teologia cristiana delle origini abbia preso spunti dal pilastro orientale.
L’incarnazione divina stessa nel Messia ci riporta pure al concetto di avatàr.
Ritornando alla Grecità, l’intellettualismo etico di Socrate, per cui colui che
ha raggiunto la conoscenza non può più compiere il male inconsapevolmente (e
dunque non dovrebbe metterlo in atto), rappresenta nuova tangenza induista.
Nell’Induismo la “virtù” sopra accennata costituisce “conoscenza”: conoscenza
che tutto si rivela transeunte e non merita attaccamento. Perciò, come in
Socrate, il sapiente saprebbe infallibilmente che cosa è bene e che cosa è
male. Del resto in Aristotele il sapere sommo rimane fine a se stesso, e il
medesimo Dio aristotelico si mostra “atto puro” e “causa finale”: simili
aspetti evocano il Brahman e il relazionarsi a esso. Nella filosofia greca tale
tendenza intellettualistica dell’etica è culminata negli stoici. Il
vivere-secondo-Ragione costituisce per loro il massimo, e tale posizione è
scaturita da conoscenza. Analoga si manifesta la mentalità induista la quale
ovviamente presenta la cosa nella forma del
vivere-secondo-le-intuizioni-illuminanti partite con i Veda. Le ellenistiche
atarassia e aponia possiedono equivalenti postulazioni nell’intuizionismo
induista. A proposito dello stoicismo e al suo concetto di “fato” pensiamo
altresì al parallelo concetto di Dharma, il quale a sua volta ci rammenta la
rincarnazione esposta nel “Fedro” di Platone. Stoici e induisti poi condividono
la visione ciclica di generazione/distruzione/rigenerazione dell’universo.
Volendo chiudere questa serie di cenni alle tangenze voglio richiamare
l’ontologia eleatica, Pirrone di Elide, Plotino. Quest’ultimo nella cosmogonia
parte da un Uno il quale emana una realtà discendente in direzione della
materialità similmente al Brahman. E pure Plotino sostiene che il compito da
perseguire sia il ritorno a una realtà immateriale. Successivamente la
filosofia occidentale ha ripreso la parentela ontologica induista con più
marcata evidenza attraverso Spinoza, Berkeley, Kant, l’idealismo tedesco, e in
modo particolare attraverso Schopenhauer. L’Induismo e la filosofia, così come
li ho descritti sopra lo sfondo junghiano, appaiono delle macrofasi concettuali
e cronologiche: all’Induismo orientale ha fatto seguito la filosofia greca e
occidentale. Se guardiamo lo schema caratteriale di Jung da me ricordato
all’inizio, vediamo che dopo la ragione (in senso rotatorio) troviamo la percezione.
Che cosa mettere in questa casella? Io metto il capitalismo, il quale è fondato
su un’ideologia ponente la sua produzione commerciale nel campo della
percezione. Lo spirito capitalistico gioca tutta la sua esistenza sfruttando i
lati della sensibilità e della sensualità. Da questa parte siamo sull’asse
delle facoltà junghiane irrazionali in antitesi rispetto all’Induismo, il quale
predica la rinuncia, il distacco riguardo al sensibile e a una materialità
giudicati impermanenti (panta rhei), non sede di felicità. Il capitalismo
realizza la felicità umana dentro la chora, l’Induismo fuori del fenomenico.
Per tale motivo simili due visioni del mondo, seppur accomunate dal concetto di
“predestinazione weberiana”, sono antitetiche, e la seconda mantiene una
vicinanza migliore col Cattolicesimo e il suo risanante e beatifico paradiso.
L’ultima casella junghiana sarebbe contemporaneamente rappresentante
dell’optimum di partenza e della meta ideale da raggiungere e recuperare. Siamo
nel “sentimentale” e nel “femminile”. Io ci metto il matriarcato originario.
Diotima che spiega a Socrate: ecco l’immagine emblematica e chiave per capire
la mia individuazione di simili quattro macrofasi. Come ci fa intendere Platone
nel “Simposio”, se la filosofia si declina perlopiù al maschile, la religione
dovrebbe declinarsi perlopiù al femminile. Altrove ho spiegato perché ritengo
che l’umanità sia giunta sulla Terra da altri pianeti2. A questo
punto credo che l’Induismo abbia mantenuto memoria di un sentimento anticapitalistico
in quanto l’industrializzazione sregolata (penso a Venere) possa aver
distrutto, sostenuta da brama di arricchimento, diverse civiltà planetarie nel
nostro sistema solare
(aggiungo Marte e Fetonte). Mi spiego così l’incisivo appello induista a non
legarsi alle cose. Poi la mentalità capitalistica ha ripreso via via a
diventare sulla Terra di nuovo dominante a partire dai Sumeri3.
L’Occidente ha comunque mantenuto nel suo DNA tratti induisti. A conclusione di
questo scritto si può comprendere meglio quell’affermazione di Simone Weil per
cui «chaque religion est seule vraie». Dall’Occidente all’Induismo esiste un
unico solco all’interno del quale sono fiorite diverse piantine alimentate da
un solo tipo di terra: ambienti differenti e distanze hanno creato specificazioni
varie. L’analisi che ho sviluppato ha fatto emergere elementi di filosofia
della storia cui debbo sommare la mia teoria degenerativa delineata nella mia
monografia “Letteratura e psicostoria” (2022). Anche in un altro mio saggio, “Critica
dell’irrazionalismo occidentale” (2016), avevo affrontato temi storiografici e
di filosofia della storia inerenti al passato e al futuro. Colloco l’ipotetica
linea distopica della prima pubblicazione fra i punti cardinali junghiani della
percezione (capitalismo) e del sentimento (matriarcato). Dunque, alla
degenerazione dovrebbe seguire una positiva rinascita per mezzo di quei
passaggi futuri che ho descritto nella seconda mia opera citata, nelle sezioni
intitolate “La lancia di Atena”4 e “La nuova Sparta”5. Appare pertanto possibile
nel contesto della mia filosofia della storia raggiungere forme di equilibrio e
di benessere universali.
LA CRONOGRAFIA DISTOPICA DELLA MIA TEORIA DEGENERATIVA STORICA RIPORTATA IN “LETTERATURA E PSICOSTORIA