di
DANILO CARUSO
Il
“Cantico dei cantici” è un libro biblico di particolare singolarità allo
sguardo di chi non sia documentato sull’antropologia ebraica nel Vecchio Testamento. Questo da parte di chi ha difficoltà di comprensione;
dall’altra la serie di interpretazioni allegoriche proposte da chi a sua volta
non ha capito o viceversa voluto velare il senso originale non ha contribuito a
rendere il testo accessibile ai più. È d’uopo per me evocare in sintesi alcuni
miei studi sui testi giudaici condotti in passato allo scopo di rendere
manifesti alcuni contenuti di pensiero religioso degli antichi Ebrei1,
al di fuori dei quali non si può comprendere cosa vuol dire il “Cantico dei
cantici”. Simile approccio ermeneutico è scientifico e necessario, la lettura
allegorica qui non rappresenta la procedura che possiede cittadinanza nella
Scienza. Procediamo con ordine nel dire che il Dio biblico, giudicato il più
potente tra una serie venuta fuori dal Caos (riprenderò qua anche questo
discorso puntualizzandolo ancora meglio rispetto al passato), dà vita a un
essere androgino che poi divide, da cui l’uomo e la donna comuni. In Gn 2,24,
quando la divinità dice che l’uomo
lascerà la propria famiglia nativa per legarsi a una donna, in ebraico c’è
scritto che i due saranno la “carne primigenia, primordiale (“numero uno”,
letteralmente: numerale cardinale con valore ordinale). Il senso del “Cantico”
sta lì, ed è evidente che traduzioni non corrette non portano sulla strada
giusta nel momento analitico concettuale letterario: partendo da premesse
sbagliate tutte le spiegazioni, specialmente quelle allegoriche, saranno
fuorvianti. Gn 2,25 parla della “nudità” della coppia originaria, però la
traduzione e il suo valore semantico nella lingua differente non rendono il
significato: i due esseri dopo la scissione androginica erano “danneggiati”,
tale il senso di quel termine nella lingua giudaica. La “carne primigenia”
sarebbe la riunificazione dell’androgino, ossia il recupero di uno stato ideale
a monte: essa avviene attraverso il congresso carnale nella sola modalità
procreativa, cioè vaginale tra soggetti di sesso opposto. A monte sta altresì
il comando divino di moltiplicarsi: ergo tutto ciò che non rientra in una modalità
procreativa viene condannato. Qui comincia ad esempio l’omofobia, tra l’altro. Per
inciso: la prolificità in Israele era fondamentale sotto il profilo
demografico, con tutti i risvolti del caso. Il “Cantico dei cantici” raffigura
una celebrazione ideologica della ricomposizione androginica, non c’è niente di
romantico al fondo: rappresenta soltanto il testo dell’ortodossia sessuale.
Questo libro, come vedremo, si riaggancia ai temi di “Genesi”. Compare un
passaggio nevralgico nel primo che merita attenta analisi, il 7,11: «Le dodi-y
ve-ala-y teshuqat-o». Sta parlando lei: «Io [sono] verso l’amato/amante [la
radice del sostantivo giudaico richiama il concetto di “bollire” e in maniera
figurata si trasforma nell’idea di “amore/amante”; il termine può assumere
precise specificazioni contestuali in primis “zio” (fratello di uno dei
genitori, marito; in accadico “dadu” è “bambino amato”] di me e sopra di [la
preposizione ebraica indica un complemento di luogo, molto poco figurato per la
verità] me [è] l’impulso di lui». Da Ct 7,11 emergono cose molto interessanti.
1) L’uomo sta sopra e la donna sta sotto, in tutti i sensi: questo è l’ordine
gerarchico universale che subordina gli spazi femminili. 2) Si parla di
“impulso (sessuale)”: il termine ebraico indica: bisogno imperioso, vivo/forte
desiderio, spinta, attrazione. Sembra che abbiano scoperto la libido, non è precisamente
così: in camera di redazione stanno solo sfruttando un aspetto esteriore al
fine di teorizzare una eterosessualità procreativa ortodossa. Il discorso
omofobico dell’androgino nel contesto giudaico si mostra restrittivo rispetto a
quello di Platone del “Simposio”2. Nel procedere del mio esame si
rivela utilissimo ritrovare l’impulso sessuale menzionato in Gn 3,16: «…
ve-el-iyshe-k teshuqate-k ve-hu ymshal-ba-k»; «… e verso l’uomo di te [sarà] l’impulso
di te e lui ? ? te». Ho lasciato per il momento la mia traduzione parziale
giacché voglio far vedere come quelle comuni mi appaiano inadeguate in
relazione alla lettera. Osserviamo innanzitutto l’analisi grammaticale degli
ultimi tre elementi del versetto legati fra di loro in singola parola: a) verbo
qal imperfetto, 3a persona singolare; b) preposizione “be”: in,
sopra (complemento di luogo), con (complemento di unione-compagnia), per mezzo
di (complemento di mezzo-strumento); c) pronome suffisso, 2a persona
femminile singolare. Dove sta il problema? Il verbo usato non è unico, ha un
gemello di significato altro. I traduttori fra i due optano a vantaggio di
quello avente significato: governare, reggere; dominare; vincere. A mio avviso
non esistono i presupposti per appesantire il versetto in direzione
cristiano-patristica e tradurre con toni simili: «egli ti dominerà». Non ne
vedo la fondatezza grammaticale, né quella logica nel discorso in cui si
inserisce Gn 3,16. Valutiamo l’aspetto grammaticale: il pronome femminile
suffisso non è un complemento oggetto poiché retto dalla preposizione “be”,
quindi la donna non subisce l’azione espressa dal verbo. La preposizione
esprime l’idea di un “concorso nell’azione” cui non si addice il verbo di 1).
Il verbo clone significa 2) assomigliare, parlare in parabola. Sulla base dei
miei passati lavori, tenendo anche conto che in Gn 3,16 si tratta della
gestazione e del parto, ritengo che il verbo corretto da usare nella traduzione
sia “assomigliare”. L’idea di “somiglianza” in “Genesi” apparirà più chiara
leggendo il versetto 1,26: «Adam causava una nascita grazie alla similarità di
lui [ossia Eva], a somiglianza della sua immagine [la tselem androgina]». Ho
approfondito il discorso in un mio precedente studio, qua ricordo semplicemente
che «per mezzo della somiglianza» premette il procreare esseri umani
sessualmente specificati e non androgini. Pertanto allorché traduco alla
lettera «e lui assomiglierà grazie a te» il significato è: «lui avrà
figli/progenie [“somiglianti”: maschi e/o femmine] grazie al tuo concorso [nel
congresso carnale]». Non mi sembra il caso di mettere misoginia laddove i
concetti non la tirano in ballo in modo esplicito. La Bibbia è un libro
misogino, tuttavia Gn 3,16 non è strutturato come Ct 7,11, anzi là l’impulso
sessuale viene indicato quale uguale e speculare nell’attrazione a quello di
qui. Attraverso tutto il resto si evince quello spirito inducente probabilmente
alla scelta del verbo 1), il quale – ripeto – per me non calza proprio
grammaticalmente (richiederebbe un complemento oggetto). Il “Cantico dei
cantici” non è un libro erotico nonostante si evochi l’organo sessuale
femminile (7,3). L’opera esprime in forma letteraria l’ortodossia sessuale
giudaica. Tant’è distopica la Bibbia che in Ct 5,7 si può leggere di questa che
esce in giro a cercare il suo amato e viene malmenata e maltrattata dalle
guardie: un atto intollerabile, misogino, di cui il testo non accenna condanna.
In nessun Paese civile una cosa del genere dovrebbe passare inosservata3.
Il Dio biblico però della violenza subita da costei non dà censura. In effetti
nella Sacre Scritture non c’è spazio a beneficio del femminismo, e il punto di
vista maschilista la fa da padrone a partire dall’impostazione cosmogonica. Mi
sono soffermato con attenzione su questa, e ho rilevato che compare una
dicotomia “disordine – materia da ordinare – femminile / ordine – produzione
dell’Universo – maschile”. Come già spiegato altrove l’acqua è l’archè biblico
disordinato da cui fuoriesce mediante il caos (apertura) quanto la principale
divinità poi ordinerà a guisa del demiurgo platonico. Questa immagine può
essere simboleggiata ne “L’origine du monde” di Gustave Courbet, la quale meno
simbolica e più reale è quella di Ct 7,3. Nel seguito di questo scritto voglio
esporre ulteriori considerazioni riguardo a Gn 1,1 in aggiunta alle mie
trattazioni passate. Proseguendo quella scia in maniera coerente sono giunto a
personali approfondimenti. La particella introducente in ebraico il complemento
oggetto (comunque non obbligatoria) non sta qui davanti al termine Elohiym. La
spiegazione sta nel fatto che nei due casi immediatamente seguenti la
preposizione “et” introduce un complemento di unione: non è improbabile
scambiare, a causa di disattenzione, אֵת (particella posta davanti a oggetto logico)
con אֵת (preposizione per il complemento di compagnia-unione). Ma anche a
prescindere da sopra, lo “et” manca poiché l’oggetto è “indefinito”: il divino
= gli Dei in generale. «Elohiym» in Gn 1,1 è complemento oggetto: nella
sequenza dei complementi, «cieli e terra» potrebbero essere intesi d’altro
canto parallelamente come sostanze definite in modo puntuale; mentre con
“Elohiym” qui al plurale si indicano in ogni caso le divinità in maniera
generale senza puntualizzare il chi e il quanto. Infatti in Gn 1,1 sembra che
si voglia mettere in risalto «bereshit», comunemente inteso come avverbio. ho
corroborato un mio sospetto, che detto termine qui non sia avverbio bensì
svolga il ruolo grammaticale di sostantivo e quello logico di soggetto: in
parole povere indicherebbe l’archè, cioè l’acqua. Nel citato versetto al primo
posto non sta comunque il verbo in base alla tendenza della lingua ebraica, e
ciò dovrebbe indurre a riflettere verso il mio ragionamento. Pertanto la
traduzione che propongo di «Bereshit bara Elohiym et ha-shamayim veet-ha arets»
è: «Ciò-che-sta-in-principio generò gli Dei assieme ai cieli e alla terra».
Vale a dire: «L’arché generò gli Dei assieme ai cieli e alla terra». I Settanta
intuirono che per “bereshit” ci voleva ἀρχή, ma non ne resero il senso: «’Eν ἀρχῇ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν». Sostituendo la
preposizione con l’articolo e un nominativo con l’accusativo questo ritorna in
pieno: «ʽH ἀρχῇ ἐποίησεν τὸν θεὸν [il divino, le divinità], τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν». Sulla polisemia quantitativa
del termine “Elohiym” rinvio a un mio studio4. Altre considerazioni
che qui voglio spendere ineriscono alla possibile critica che il verbo «bara»
sia nella forma maschile. “Bereshit” nel suo sottintendere
“ciò-che-sta-in-principio” è complesso. Possiede un rimando
filosofico-concettuale (l’archè) che è “l’acqua”. L’ebraico “mayim” appartiene
a quel genere: è un termine in apparenza strano perché nella forma è un duale
(derivante da una parola originaria) e nell’uso invece si è invalso un
significato singolare; può assumere significati eufemistici (sperma, urina) o
figurati (succo). Questo discorso del duale apre due piste. Una ci conduce a
Platone. E noi sappiamo che il Giudaismo e il pensiero platonico hanno in
comune un’ascendenza egizia. Il filosofo ateniese, nelle dottrine non scritte,
nel momento in cui discuteva della sostanza universale indeterminata
(contrapponendola a un principio determinante) richiamava una “diade di grande
e di piccolo”. Notiamo che quest’idea di una dimensione di dualità
dell’indeterminato, del disordinato, è diffusa nella mentalità antica del
Mediterraneo orientale. Da un punto di vista strettamente semantico-etimologico
la seconda pista ci porta più lontano, all’immaginario cosmogonico indoeuropeo,
dove da primordiali “acque universali (na)” sono emersi divinità (fra cui un
ordinatore superiore), cieli e terra, come ribadito in Gn 1,1. La dualità alla
base di “mayin” è da ricollegarsi alla dicotomia giorno/notte nell’alternarsi
di acque non luminose (scure) e acque chiare al di sopra della sfera celeste
(questa una sorta di ermetica copertura). La parola ebraica “mayin” nella forma
pittografica originaria presenta questa sequenza: braccio disteso a sinistra posto
in mezzo a due corsi d’acqua (di tali due suono in singulum: m). Ciascuno di
suddetti due pittogrammi ricalca geroglifici egizi, ognuno dei quali richiama il
più remoto termine indoeuropeo “na/nu (acqua)”: il corso d’acqua geroglifico
egizio suona “n”, il braccio “a”. A mediare fra semantica sanscrito-indoeuropea
e semantica giudaica interviene inoltre quella accadica. Due parole giocano qui
il compito: 1) mau/mu (=acqua) e 2) narum (=fiume). Dalla radice di 1) proviene “mayin”, che
ingloba il concetto di 2) (sostantivo con la radice di “na/nu”), restituendo il
suo significato duale originario di Gn 1,7. Dalla radice di 2) proviene
l’ebraico “nahar” (fiume, più circoscritto). Il significato finale di “mayin”
si mostra di ampio raggio semantico: il termine compare in Gn 1,2 come
acque-ancora-da-determinare. Sebbene filosoficamente l’acqua sia l’archè
biblico, e sia in abstracto “mayin”, il riferimento sotto il profilo narrativo-semantico
di “bereshit” mi pare “tehom” di Gn 1,2, “l’oceano primordiale”, corrispondente
semanticamente in modo secco a “na” nell’accezione cosmologica del sanscrito
(concetto sussunto in “mayin”, termine generico). “Tehom”, sostantivo di genere
sia maschile che femminile, soddisfa tutte le esigenze del nostro caso: la prevalenza
di genere nella concordanza allusiva a distanza con “bara”, la presenza del
femminile disordinato che si evolverà nell’ordinato maschile. Simile dualità di
genere ricorda altresì l’immagine dell’androgino, e androgino sarà il primo
essere umano, somigliante agli dei venuti fuori dall’Oceano primordiale. Detta
proiezione accanto a una materia ontologica offre tale risvolto antropologico. “Tehom”
si rifà all’accadico: tamtu, tiamtu; Tiamat, di cui nella cosmogonia
babilonese. Nell’“Enuma Elish”, poema cosmogonico risalente al 1200-1100 a.C.
si narra l’epica impresa di Marduk (simbolo della divinità solare, principio
determinante) all’origine della produzione dell’Universo. Tiamat, entità
femminile acquatica simboleggiante il disordine (rappresentata da un “drago /
serpente marino”), si fuse con l’abisso (Apsu, in sumero “acque profonde”): 1)
ne venne fuori Mummu; in sumero “acque (poiché si dà solo plurale)” è “mu” o
“a” (il pittogramma esprime l’idea di un corso d’acqua, con la tendenza però a
essere orientato in verticale), quindi Mummu raffigura un “mare impetuoso”; 2)
ne vennero fuori due mostri a forma di serpente (Lakhmu e Lakhamu). Tali due serpenti
fecero comparire le prime due divinità (l’uranico Anshar e la ctonia Kishar),
da cui poi altre tra cui Marduk. Oltre a capire già subito che l’architettura
cosmogonica concettuale è analoga a quella della biblica genesi (la redazione
del testo veterotestamentario risale al VI-V sec. a.C.) comprendiamo pure da
dove venga fuori il serpente tentatore di Eva. Mummu, nell’“Enuma Elish”, causa
la perdita dell’equilibrio cosmico esistente prima di lui, con un conseguente
scontro, nato per vie traverse, fra Tiamat e le divinità. A sconfiggerla è
Marduk, il quale si avvale del soffio-vento (strumento di determinazione
dell’ordinatore solare Dio biblico). Uccisala ne scompone il corpo in due dando
origine ai confini del cielo e della terra: vale a dire quanto succede in
maniera letterariamente più semplice nella “Genesi”. Adesso afferriamo perché
il Dio veterotestamentario YHWH è il più importante di una pluralità
(enoteismo): è la trasposizione di Marduk, colui che prevale su “tehom” e
completa la produzione dell’Universo (non da lui partita). E capiamo anche
l’ostilità del serpente nei suoi riguardi in relazione all’episodio della
cosiddetta “tentazione”: il serpente rammenta Tiamat ed esprime l’immaginario
misogino del femminile. Il Diavolo maschile cristiano è un prodotto, nevrotico
direi, posteriore sovrapposto: il tentatore serpente biblico, sostantivo di
rango maschile (nachash), ha una variante personificata (nome proprio) di
genere grammaticale maschile e femminile. L’acqua laicizzata di Talete (si veda
la “Metafisica” aristotelica) è “hydor” (τό ὕδωρ; dall’indoeuropeo “udra”, “acqua” nel senso di
elemento-dall’alto-provenuto): il campo semantico contiene la “hydra”, il
serpente acquatico (Tiamat). La ricerca scientifica e l’ermeneutica obiettiva
mettono in luce come le ritenute Sacre Scritture contengano impoverita
mitologia di seconda mano. Il Dio biblico protagonista non è responsabile di
una creatio ex nihilo, è un personaggio letterario in quel contesto narrativo
entrato in scena in un secondo momento. La risposta alla domanda di Agostino
d’Ippona su cosa facesse Dio prima della creazione non è che il tempo non
esistesse prima, ma che non c’era quel Dio. Traduzioni e interpretazioni
fuorvianti hanno dato margine all’edificazione della distopica teologia
cristiana, la quale è stata un gigante dai piedi d’argilla con inclinazioni
misogine, omofobiche, illiberali come si evince dalla storia e dal pensiero dei
suoi sostenitori5.
“L’origine
du monde”, famosa e discussa opera del pittore Gustave Courbet, visibile al
pubblico nel parigino Museo d’Orsay.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Radici occidentali”
https://www.academia.edu/60804523/Radici_occidentali
https://www.academia.edu/60804523/Radici_occidentali