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martedì 2 novembre 2021

GUERRA BIOLOGICA SINOFOBICA IN JACK LONDON E PANDEMIA SPAGNOLA NEL CORSO DELLA GRANDE GUERRA

di DANILO CARUSO
 
Nel 1910 fu pubblicato il racconto londoniano “The unparalleled invasion”1. Tale “incomparabile invasione” ha come bersaglio la Cina, si svolge in un immaginario 1976 e viene condotta dalle potenze occidentali con a capo gli USA mediante un attacco biologico. La narrazione di London prende l’avvio dalla situazione mondiale a inizio del ’900 e via via si sviluppa in modo immaginario in relazione alla crescita della Cina. L’autore californiano prospetta un Impero cinese che, dopo essersi emancipato dalla sudditanza politica nei confronti del Giappone e aver assimilato la tecnologia industriale dell’Occidente, nell’arco del secolo, grazie alla sua filosofia di vita e alla notevolissima espansione demografica, assurge in modo pacifico al grado di prima forza produttrice e commerciale del pianeta. Il racconto trae suggestione da aspetti di politica reale americana maturati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento quando iniziò l’emigrazione di massa cinese in direzione della sponda occidentale degli USA. Tra le preoccupazioni che emersero in breve tempo in seno all’opinione americana: la diffusione della prostituzione femminile e la suggestione del concubinato al cospetto del regime matrimoniale monogamico; la manodopera offerta a costi bassi; nonché la paura che i Cinesi portassero contagi dai quali fossero immuni. L’immigrazione cinese alla volta degli Stati Uniti sebbene avesse offerto manovalanza conveniente finì per allarmare i ceti dirigenti al punto di far emanare norme razziali con lo scopo di frenare l’ingresso nel Paese. Nel 1852 lo Stato della California emanò una legge che tassava mensilmente i lavoratori di provenienza estera. E il 26 aprile 1862 proseguì con un’altra legge che disincentivava l’afflusso migratorio verso lo Stato californiano. Per rendere meno competitiva la prestazione d’opera da parte dei Cinesi fu a loro imposta una tassa mensile attraverso una legge federale (lo “Anti-coolie act” del 19 febbraio 1862). Il federale “Naturalization act” del 1870 consentì ai provenienti dall’Africa di ricevere la cittadinanza statunitense ed escluse gli immigrati giunti dall’Asia, nonostante il Trattato di Burlingame di due anni prima avesse previsto liberi flussi emigratori verso gli USA. Tra parentesi: il precedente “Naturalization act” del 1790 aveva impedito che i non bianchi potessero essere naturalizzati. Nel 1873 la contea di San Francisco adottò un provvedimento che obbligava i carcerati al taglio dei capelli corti (“Pigtail ordinance”), il che colpiva volutamente in primis in funzione anti-immigratoria le treccine allora tradizionali dei Cinesi lunghe dietro la schiena. Era possibile derogare all’ordinanza sanitaria, comunque sospesa dal sindaco dell’epoca per via dei suoi contenuti xenofobici, in tre modi: rimanendo in carcere più a lungo del dovuto; assoggettandosi a una multa; prestando un servizio supplementare alla pena all’interno della prigione. Nei confronti di un Cinese di quei tempi il fatto di tornare in Patria, dopo aver accumulato risparmi all’estero, senza treccina rappresentava una cosa gravissima poiché quella coda di capelli costituiva il simbolo del rispetto nei riguardi della monarchia imperiale. L’ordinanza sanitaria di San Francisco fu presa a modello dallo Stato della California per emanare il 3 aprile 1876 una legge analoga, la quale fu a sua volta dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema degli Stati Uniti perché discriminava in materia di omogenea tutela da offrirsi a tutte le persone presenti sul territorio della federazione (XIV emendamento della Costituzione degli USA). Del 3 marzo 1875 era tuttavia una legge federale (“Page act”) varata su proposta di un deputato californiano a scapito dell’immigrazione di donne asiatiche entrate nel territorio statunitense contro la volontà delle suddette e grazie all’intervento di sfruttatori (questi sanzionabili con carcerazione e multa). Si guardava al circuito della prostituzione e si istituirono controlli sugli ingressi delle donne cinesi, i quali furono incisivamente limitati (nel 1882 a fronte di quasi 40.000 arrivi di Cinesi c’erano fra di loro poco più di un centinaio di donne). Intorno al 1880 c’erano circa 100.000 Cinesi negli Usa concentrati soprattutto in California. Questo Stato nel 1879 escluse dalla partecipazione lavorativa i Cinesi presso le s.p.a. e il pubblico impiego. Nel 1882 un primo progetto di legge federale avanzato da un senatore californiano volto a fermare l’immigrazione cinese per un ventennio negli Stati Uniti fu respinto grazie al veto presidenziale poiché in contrasto con un accordo USA-Cina del 1880 il quale non chiudeva radicalmente le porte all’emigrazione. Nonostante ciò riproposto con durata decennale divenne legge. Emanato il 6 maggio 1882 il “Chinese exclusion act” stabiliva l’impossibilità di naturalizzazione nei riguardi dei Cinesi residenti negli USA e la proibizione dell’immigrazione al di fuori di particolari casi. Questa legge che in origine comportava un’interdizione decennale fu rinnovata nel ’92 e venne fissata con durata indefinita nel 1902. Fecero eccezione alla norma generale i soggetti di nazionalità cinese appartenenti alle seguenti categorie: viaggiatori occasionali temporanei, docenti/studenti, commercianti, appartenenti a corpo diplomatico. Nel 1889 la Corte suprema degli Stati Uniti decretò la regolarità del “Chinese exclusion act”. La percezione negli ambienti sindacali all’epoca di Jack London era che i capitalisti si servissero della manodopera cinese al fine di mantenere bassi i livelli salariali. In seguito al “Chinese exclusion act” la presenza cinese negli USA calò in un quarantennio da poco più di 100.000 a circa 60.000. La politica sinofobica americana spinse i Cinesi residenti negli Stati uniti ad aggregarsi in comunità solidali chiuse (China town) a scopo autoprotettivo. Queste aggregazioni furono in alcuni casi oggetto di violente aggressioni razziste che provocarono vittime. Possiamo ricordare i casi di Rock Springs nel 1885 e di Hells Canyon nel 1887. Il “Chinese exclusion act” fu soppresso il 17 dicembre 1943 a causa di una convenienza pratica, giacché i Cinesi erano dalla parte americana nel corso del secondo conflitto mondiale contro i Nipponici (le cui mire imperialistiche sono evocate da London in “The unparalleled invasion”). Nel 1948 il divieto californiano di matrimoni misti interrazziali fu sanzionato dalla Corte suprema degli Stati Uniti. Simili proibizioni sulla falsariga californiana furono sanzionate in toto nell’ambito federale nel 1967. Il Congresso espresse il suo rincrescimento per il “Chinese exclusion act” nel 2011-12 con due distinti pronunziamenti di Senato e Camera. Lo Stato della California ha fatto qualcosa di analogo nel 2014. Chiusa la rivisitazione storica e ritornando al filo della narrazione londoniana di “The unparalleled invasion” è da dirsi che qui lo scrittore californiano dipinge i Cinesi nel loro slancio espansivo globale quali pacifici, non inclini di propria iniziativa all’opzione bellica, ma solo concentrati sui contenuti commerciali. È dagli USA che viene fuori l’arma biologica di fronte all’inefficacia di un tentativo francese di invasione con gli strumenti militari di allora. La Cina al limite badava soltanto a una guerra difensiva. Fu negli Stati Uniti che Jacobus Laningdale, «uno scienziato del tutto poco noto, un professore di servizio nei laboratori dello Health Office di New York» ideò in segreto di provocare uno sterminio biologico nella enorme popolazione avversaria: «iI 19 settembre 1975 arrivò in Washington […], […] procedette diritto alla Casa Bianca, poiché già aveva ottenuto un’udienza dal Presidente. Restò in privato con il Presidente Moyer per tre ore. Quello che intercorse tra di loro non fu appreso dal resto del mondo per lungo tempo». L’epicentro di diffusione scelto per attuare l’indotta epidemia fu Pechino e lo strumento un attacco biologico condotto dall’aviazione. Piccoli dispositivi veicolanti contagio nel racconto sono presso i Cinesi causa oltre che di morte e di decimazione irrimediabile anche di disordini autodistruttivi. Il provocato genocidio cinese non ostacolò più una facile occupazione territoriale e la ricolonizzazione della Cina con genti occidentali. Jack London chiude la sua fantastoria così fra i vincitori: «I rappresentanti delle nazioni del mondo […] s’impegnarono solennemente a mai usare inter se i metodi di guerra biologica che avevano adottato nell’invadere la Cina». Nella realtà concreta di non molti anni dopo dal racconto londoniano si verificarono nello stesso spazio e nello stesso tempo: un’epidemia globale influenzale (denominata “spagnola”) e un conflitto bellico mondiale (il primo, la Grande guerra). Data l’impostazione della presente analisi storico-letteraria evocherò della storia reale nuovamente solo gli aspetti rilevanti per la tematica esaminata, evitando dispersive integrazioni di fondo. La prima cosa da dire è che al principio del 1918 la guerra mondiale nell’Europa centrale nella linea di confronto che andava da La Manica all’Adriatico era impantanata nello stallo cruento delle trincee. A marzo di quell’anno i Tedeschi progettarono di sfondare a ovest verso la Francia. Il piano che sembrava destinato al successo fallì per via della diffusione tra i soldati di un’improvvisa patologia influenzale. I Tedeschi non sfondarono, ma anche dalla parte opposta si accusò il colpo epidemico, compensato nel giugno del 1918 dall’arrivo del corpo militare americano intervenuto a sostegno dell’Intesa. Una seconda cosa da ricordare è che, mentre le normali influenze si manifestano nel periodo invernale, la “spagnola” ebbe un’incisiva comparsa estiva nel suddetto contesto di guerra. Gli Americani accusarono gli avversari tedeschi di aver usato un’arma biologica. Le ipotesi degli studiosi sul luogo di provenienza del virus sono formalmente divise e distinte. Prime avvisaglie di “spagnola” sono segnalate a metà degli anni Dieci negli USA presso la zona di un campo militare destinato all’addestramento, zona in cui poi venne certificata nel marzo del ’18. Nel continente europeo il centro di diffusione viene identificato a Ètaples, nel nord della Francia, e nei relativi insediamenti di soldati: il veicolo di trasmissione si circoscrive ai maiali. La catena di trasmissione virale all’uomo ipotizzata dagli scienziati a ritroso dai maiali porterebbe alle anatre e prim’ancora a uccelli selvatici. Nel mistero delle cause del virus in questione si pensa che esso abbia compiuto una mutazione pericolosa per gli umani nei maiali. Il genoma è stato sequenziato negli anni ’90, però la genesi è restata avvolta dall’impossibilità di trovare certezze. Un’ulteriore ipotesi mirante a localizzare un punto di origine virale parla della Cina del nord: nel novembre del ’17 fu accertata là dalla sanità cinese la diffusione della “spagnola”. Tale epidemia, assunta rapidamente a pandemia, incominciò la sua notorietà mediatica in Spagna (da ciò la denominazione), dove si manifestò nel corso della seconda metà dell’inverno all’inizio del ’18. In Italia fu certificata per la prima volta nel comune veneto di Sozzano a settembre. Nel frattempo, per quanto concerne il conflitto bellico mondiale, giunsero sul continente europeo a sostegno dell’Intesa i contingenti di soldati degli Stati Uniti a giugno. In questo mese gli Austriaci provarono a sfondare il fronte italiano sul Piave, però infruttuosamente. La “spagnola” nel settembre del ’18 colpì l’Alta Italia durante la sua seconda ondata generale (partita a luglio), la quale fu connotata da un considerevole numero di morti e da una veloce diffusione nelle zone di guerra. Non si è ben capito il passaggio all’aggressività superiore dalla prima alla seconda ondata. Una variazione virale? Il concorso parallelo aggiuntivo di polmoniti batteriche? Quel che si sa chiaramente è che l’epidemia provocò nel complesso mezzo miliardo di contagi e cento milioni di decessi su una popolazione globale di circa due miliardi di esseri umani. I morti furono dunque intorno al 5% e i contagiati al 25%. L’aspettativa di vita media in seguito alla “spagnola” subì un calo di più di un decennio. I soggetti più sensibili al fenomeno epidemico furono le donne incinte, i ventenni e i trentenni. Si pensa che il sistema immunitario dei giovani in questione producesse cascate citochiniche difensive sproporzionatamente grandi a differenza delle rimanenti fasce d’età. Nel cuore dell’autunno del ’18 intanto l’alleanza occidentale Intesa-USA rigettò indietro il tentativo di vittoriosa avanzata austro-tedesco vincendo la Prima guerra mondiale, fra i vincitori l’Italia. Da novembre di quell’anno i contagiati furono sempre di meno, consentendo il transito alla terza più nettamente leggera ondata, scemata al principio del 1919. La storia politico-militare dal canto suo a gennaio del ’19 contemplò la parigina conferenza di pace dove gli USA del presidente Wilson giocarono un ruolo di primissimo piano. Dell’epidemia spagnola degno di nota rammentare il fatto che il nonno paterno di Donald Trump, Frederic, vi sia rimasto vittima. Nel corso della pandemia gli scienziati di allora non riuscirono a inquadrare l’agente patogeno, si credeva trattarsi di un batterio; negli anni ’30 fu stabilito fosse un virus influenzale. La pandemia “spagnola” colpì a tal punto la sensibilità comune da rimanere nel tempo a venire un argomento storico
quasi tabù.
 

NOTE

Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Radici occidentali”
 
1 A Jack London (1876-1916) ho dedicato metà di un mio saggio:

sabato 7 agosto 2021

SUL BIBLICO “CANTICO DEI CANTICI” E SU GN 1,1

di DANILO CARUSO
 
Il “Cantico dei cantici” è un libro biblico di particolare singolarità allo sguardo di chi non sia documentato sull’antropologia ebraica nel Vecchio Testamento. Questo da parte di chi ha difficoltà di comprensione; dall’altra la serie di interpretazioni allegoriche proposte da chi a sua volta non ha capito o viceversa voluto velare il senso originale non ha contribuito a rendere il testo accessibile ai più. È d’uopo per me evocare in sintesi alcuni miei studi sui testi giudaici condotti in passato allo scopo di rendere manifesti alcuni contenuti di pensiero religioso degli antichi Ebrei1, al di fuori dei quali non si può comprendere cosa vuol dire il “Cantico dei cantici”. Simile approccio ermeneutico è scientifico e necessario, la lettura allegorica qui non rappresenta la procedura che possiede cittadinanza nella Scienza. Procediamo con ordine nel dire che il Dio biblico, giudicato il più potente tra una serie venuta fuori dal Caos (riprenderò qua anche questo discorso puntualizzandolo ancora meglio rispetto al passato), dà vita a un essere androgino che poi divide, da cui l’uomo e la donna comuni. In Gn 2,24, quando la divinità dice che l’uomo lascerà la propria famiglia nativa per legarsi a una donna, in ebraico c’è scritto che i due saranno la “carne primigenia, primordiale (“numero uno”, letteralmente: numerale cardinale con valore ordinale). Il senso del “Cantico” sta lì, ed è evidente che traduzioni non corrette non portano sulla strada giusta nel momento analitico concettuale letterario: partendo da premesse sbagliate tutte le spiegazioni, specialmente quelle allegoriche, saranno fuorvianti. Gn 2,25 parla della “nudità” della coppia originaria, però la traduzione e il suo valore semantico nella lingua differente non rendono il significato: i due esseri dopo la scissione androginica erano “danneggiati”, tale il senso di quel termine nella lingua giudaica. La “carne primigenia” sarebbe la riunificazione dell’androgino, ossia il recupero di uno stato ideale a monte: essa avviene attraverso il congresso carnale nella sola modalità procreativa, cioè vaginale tra soggetti di sesso opposto. A monte sta altresì il comando divino di moltiplicarsi: ergo tutto ciò che non rientra in una modalità procreativa viene condannato. Qui comincia ad esempio l’omofobia, tra l’altro. Per inciso: la prolificità in Israele era fondamentale sotto il profilo demografico, con tutti i risvolti del caso. Il “Cantico dei cantici” raffigura una celebrazione ideologica della ricomposizione androginica, non c’è niente di romantico al fondo: rappresenta soltanto il testo dell’ortodossia sessuale. Questo libro, come vedremo, si riaggancia ai temi di “Genesi”. Compare un passaggio nevralgico nel primo che merita attenta analisi, il 7,11: «Le dodi-y ve-ala-y teshuqat-o». Sta parlando lei: «Io [sono] verso l’amato/amante [la radice del sostantivo giudaico richiama il concetto di “bollire” e in maniera figurata si trasforma nell’idea di “amore/amante”; il termine può assumere precise specificazioni contestuali in primis “zio” (fratello di uno dei genitori, marito; in accadico “dadu” è “bambino amato”] di me e sopra di [la preposizione ebraica indica un complemento di luogo, molto poco figurato per la verità] me [è] l’impulso di lui». Da Ct 7,11 emergono cose molto interessanti. 1) L’uomo sta sopra e la donna sta sotto, in tutti i sensi: questo è l’ordine gerarchico universale che subordina gli spazi femminili. 2) Si parla di “impulso (sessuale)”: il termine ebraico indica: bisogno imperioso, vivo/forte desiderio, spinta, attrazione. Sembra che abbiano scoperto la libido, non è precisamente così: in camera di redazione stanno solo sfruttando un aspetto esteriore al fine di teorizzare una eterosessualità procreativa ortodossa. Il discorso omofobico dell’androgino nel contesto giudaico si mostra restrittivo rispetto a quello di Platone del “Simposio”2. Nel procedere del mio esame si rivela utilissimo ritrovare l’impulso sessuale menzionato in Gn 3,16: «… ve-el-iyshe-k teshuqate-k ve-hu ymshal-ba-k»; «… e verso l’uomo di te [sarà] l’impulso di te e lui ? ? te». Ho lasciato per il momento la mia traduzione parziale giacché voglio far vedere come quelle comuni mi appaiano inadeguate in relazione alla lettera. Osserviamo innanzitutto l’analisi grammaticale degli ultimi tre elementi del versetto legati fra di loro in singola parola: a) verbo qal imperfetto, 3a persona singolare; b) preposizione “be”: in, sopra (complemento di luogo), con (complemento di unione-compagnia), per mezzo di (complemento di mezzo-strumento); c) pronome suffisso, 2a persona femminile singolare. Dove sta il problema? Il verbo usato non è unico, ha un gemello di significato altro. I traduttori fra i due optano a vantaggio di quello avente significato: governare, reggere; dominare; vincere. A mio avviso non esistono i presupposti per appesantire il versetto in direzione cristiano-patristica e tradurre con toni simili: «egli ti dominerà». Non ne vedo la fondatezza grammaticale, né quella logica nel discorso in cui si inserisce Gn 3,16. Valutiamo l’aspetto grammaticale: il pronome femminile suffisso non è un complemento oggetto poiché retto dalla preposizione “be”, quindi la donna non subisce l’azione espressa dal verbo. La preposizione esprime l’idea di un “concorso nell’azione” cui non si addice il verbo di 1). Il verbo clone significa 2) assomigliare, parlare in parabola. Sulla base dei miei passati lavori, tenendo anche conto che in Gn 3,16 si tratta della gestazione e del parto, ritengo che il verbo corretto da usare nella traduzione sia “assomigliare”. L’idea di “somiglianza” in “Genesi” apparirà più chiara leggendo il versetto 1,26: «Adam causava una nascita grazie alla similarità di lui [ossia Eva], a somiglianza della sua immagine [la tselem androgina]». Ho approfondito il discorso in un mio precedente studio, qua ricordo semplicemente che «per mezzo della somiglianza» premette il procreare esseri umani sessualmente specificati e non androgini. Pertanto allorché traduco alla lettera «e lui assomiglierà grazie a te» il significato è: «lui avrà figli/progenie [“somiglianti”: maschi e/o femmine] grazie al tuo concorso [nel congresso carnale]». Non mi sembra il caso di mettere misoginia laddove i concetti non la tirano in ballo in modo esplicito. La Bibbia è un libro misogino, tuttavia Gn 3,16 non è strutturato come Ct 7,11, anzi là l’impulso sessuale viene indicato quale uguale e speculare nell’attrazione a quello di qui. Attraverso tutto il resto si evince quello spirito inducente probabilmente alla scelta del verbo 1), il quale – ripeto – per me non calza proprio grammaticalmente (richiederebbe un complemento oggetto). Il “Cantico dei cantici” non è un libro erotico nonostante si evochi l’organo sessuale femminile (7,3). L’opera esprime in forma letteraria l’ortodossia sessuale giudaica. Tant’è distopica la Bibbia che in Ct 5,7 si può leggere di questa che esce in giro a cercare il suo amato e viene malmenata e maltrattata dalle guardie: un atto intollerabile, misogino, di cui il testo non accenna condanna. In nessun Paese civile una cosa del genere dovrebbe passare inosservata3. Il Dio biblico però della violenza subita da costei non dà censura. In effetti nella Sacre Scritture non c’è spazio a beneficio del femminismo, e il punto di vista maschilista la fa da padrone a partire dall’impostazione cosmogonica. Mi sono soffermato con attenzione su questa, e ho rilevato che compare una dicotomia “disordine – materia da ordinare – femminile / ordine – produzione dell’Universo – maschile”. Come già spiegato altrove l’acqua è l’archè biblico disordinato da cui fuoriesce mediante il caos (apertura) quanto la principale divinità poi ordinerà a guisa del demiurgo platonico. Questa immagine può essere simboleggiata ne “L’origine du monde” di Gustave Courbet, la quale meno simbolica e più reale è quella di Ct 7,3. Nel seguito di questo scritto voglio esporre ulteriori considerazioni riguardo a Gn 1,1 in aggiunta alle mie trattazioni passate. Proseguendo quella scia in maniera coerente sono giunto a personali approfondimenti. La particella introducente in ebraico il complemento oggetto (comunque non obbligatoria) non sta qui davanti al termine Elohiym. La spiegazione sta nel fatto che nei due casi immediatamente seguenti la preposizione “et” introduce un complemento di unione: non è improbabile scambiare, a causa di disattenzione, אֵת (particella posta davanti a oggetto logico) con אֵת (preposizione per il complemento di compagnia-unione). Ma anche a prescindere da sopra, lo “et” manca poiché l’oggetto è “indefinito”: il divino = gli Dei in generale. «Elohiym» in Gn 1,1 è complemento oggetto: nella sequenza dei complementi, «cieli e terra» potrebbero essere intesi d’altro canto parallelamente come sostanze definite in modo puntuale; mentre con “Elohiym” qui al plurale si indicano in ogni caso le divinità in maniera generale senza puntualizzare il chi e il quanto. Infatti in Gn 1,1 sembra che si voglia mettere in risalto «bereshit», comunemente inteso come avverbio. ho corroborato un mio sospetto, che detto termine qui non sia avverbio bensì svolga il ruolo grammaticale di sostantivo e quello logico di soggetto: in parole povere indicherebbe l’archè, cioè l’acqua. Nel citato versetto al primo posto non sta comunque il verbo in base alla tendenza della lingua ebraica, e ciò dovrebbe indurre a riflettere verso il mio ragionamento. Pertanto la traduzione che propongo di «Bereshit bara Elohiym et ha-shamayim veet-ha arets» è: «Ciò-che-sta-in-principio generò gli Dei assieme ai cieli e alla terra». Vale a dire: «L’arché generò gli Dei assieme ai cieli e alla terra». I Settanta intuirono che per “bereshit” ci voleva
ἀρχή, ma non ne resero il senso: «’Eν ἀρχῇ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν». Sostituendo la preposizione con l’articolo e un nominativo con l’accusativo questo ritorna in pieno: «ʽH ἀρχῇ ἐποίησεν τὸν θεὸν [il divino, le divinità], τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν». Sulla polisemia quantitativa del termine “Elohiym” rinvio a un mio studio4. Altre considerazioni che qui voglio spendere ineriscono alla possibile critica che il verbo «bara» sia nella forma maschile. “Bereshit” nel suo sottintendere “ciò-che-sta-in-principio” è complesso. Possiede un rimando filosofico-concettuale (l’archè) che è “l’acqua”. L’ebraico “mayim” appartiene a quel genere: è un termine in apparenza strano perché nella forma è un duale (derivante da una parola originaria) e nell’uso invece si è invalso un significato singolare; può assumere significati eufemistici (sperma, urina) o figurati (succo). Questo discorso del duale apre due piste. Una ci conduce a Platone. E noi sappiamo che il Giudaismo e il pensiero platonico hanno in comune un’ascendenza egizia. Il filosofo ateniese, nelle dottrine non scritte, nel momento in cui discuteva della sostanza universale indeterminata (contrapponendola a un principio determinante) richiamava una “diade di grande e di piccolo”. Notiamo che quest’idea di una dimensione di dualità dell’indeterminato, del disordinato, è diffusa nella mentalità antica del Mediterraneo orientale. Da un punto di vista strettamente semantico-etimologico la seconda pista ci porta più lontano, all’immaginario cosmogonico indoeuropeo, dove da primordiali “acque universali (na)” sono emersi divinità (fra cui un ordinatore superiore), cieli e terra, come ribadito in Gn 1,1. La dualità alla base di “mayin” è da ricollegarsi alla dicotomia giorno/notte nell’alternarsi di acque non luminose (scure) e acque chiare al di sopra della sfera celeste (questa una sorta di ermetica copertura). La parola ebraica “mayin” nella forma pittografica originaria presenta questa sequenza: braccio disteso a sinistra posto in mezzo a due corsi d’acqua (di tali due suono in singulum: m). Ciascuno di suddetti due pittogrammi ricalca geroglifici egizi, ognuno dei quali richiama il più remoto termine indoeuropeo “na/nu (acqua)”: il corso d’acqua geroglifico egizio suona “n”, il braccio “a”. A mediare fra semantica sanscrito-indoeuropea e semantica giudaica interviene inoltre quella accadica. Due parole giocano qui il compito: 1) mau/mu (=acqua) e 2) narum (=fiume).  Dalla radice di 1) proviene “mayin”, che ingloba il concetto di 2) (sostantivo con la radice di “na/nu”), restituendo il suo significato duale originario di Gn 1,7. Dalla radice di 2) proviene l’ebraico “nahar” (fiume, più circoscritto). Il significato finale di “mayin” si mostra di ampio raggio semantico: il termine compare in Gn 1,2 come acque-ancora-da-determinare. Sebbene filosoficamente l’acqua sia l’archè biblico, e sia in abstracto “mayin”, il riferimento sotto il profilo narrativo-semantico di “bereshit” mi pare “tehom” di Gn 1,2, “l’oceano primordiale”, corrispondente semanticamente in modo secco a “na” nell’accezione cosmologica del sanscrito (concetto sussunto in “mayin”, termine generico). “Tehom”, sostantivo di genere sia maschile che femminile, soddisfa tutte le esigenze del nostro caso: la prevalenza di genere nella concordanza allusiva a distanza con “bara”, la presenza del femminile disordinato che si evolverà nell’ordinato maschile. Simile dualità di genere ricorda altresì l’immagine dell’androgino, e androgino sarà il primo essere umano, somigliante agli dei venuti fuori dall’Oceano primordiale. Detta proiezione accanto a una materia ontologica offre tale risvolto antropologico. “Tehom” si rifà all’accadico: tamtu, tiamtu; Tiamat, di cui nella cosmogonia babilonese. Nell’“Enuma Elish”, poema cosmogonico risalente al 1200-1100 a.C. si narra l’epica impresa di Marduk (simbolo della divinità solare, principio determinante) all’origine della produzione dell’Universo. Tiamat, entità femminile acquatica simboleggiante il disordine (rappresentata da un “drago / serpente marino”), si fuse con l’abisso (Apsu, in sumero “acque profonde”): 1) ne venne fuori Mummu; in sumero “acque (poiché si dà solo plurale)” è “mu” o “a” (il pittogramma esprime l’idea di un corso d’acqua, con la tendenza però a essere orientato in verticale), quindi Mummu raffigura un “mare impetuoso”; 2) ne vennero fuori due mostri a forma di serpente (Lakhmu e Lakhamu). Tali due serpenti fecero comparire le prime due divinità (l’uranico Anshar e la ctonia Kishar), da cui poi altre tra cui Marduk. Oltre a capire già subito che l’architettura cosmogonica concettuale è analoga a quella della biblica genesi (la redazione del testo veterotestamentario risale al VI-V sec. a.C.) comprendiamo pure da dove venga fuori il serpente tentatore di Eva. Mummu, nell’“Enuma Elish”, causa la perdita dell’equilibrio cosmico esistente prima di lui, con un conseguente scontro, nato per vie traverse, fra Tiamat e le divinità. A sconfiggerla è Marduk, il quale si avvale del soffio-vento (strumento di determinazione dell’ordinatore solare Dio biblico). Uccisala ne scompone il corpo in due dando origine ai confini del cielo e della terra: vale a dire quanto succede in maniera letterariamente più semplice nella “Genesi”. Adesso afferriamo perché il Dio veterotestamentario YHWH è il più importante di una pluralità (enoteismo): è la trasposizione di Marduk, colui che prevale su “tehom” e completa la produzione dell’Universo (non da lui partita). E capiamo anche l’ostilità del serpente nei suoi riguardi in relazione all’episodio della cosiddetta “tentazione”: il serpente rammenta Tiamat ed esprime l’immaginario misogino del femminile. Il Diavolo maschile cristiano è un prodotto, nevrotico direi, posteriore sovrapposto: il tentatore serpente biblico, sostantivo di rango maschile (nachash), ha una variante personificata (nome proprio) di genere grammaticale maschile e femminile. L’acqua laicizzata di Talete (si veda la “Metafisica” aristotelica) è “hydor” (τό ὕδωρ; dall’indoeuropeo “udra”, “acqua” nel senso di elemento-dall’alto-provenuto): il campo semantico contiene la “hydra”, il serpente acquatico (Tiamat). La ricerca scientifica e l’ermeneutica obiettiva mettono in luce come le ritenute Sacre Scritture contengano impoverita mitologia di seconda mano. Il Dio biblico protagonista non è responsabile di una creatio ex nihilo, è un personaggio letterario in quel contesto narrativo entrato in scena in un secondo momento. La risposta alla domanda di Agostino d’Ippona su cosa facesse Dio prima della creazione non è che il tempo non esistesse prima, ma che non c’era quel Dio. Traduzioni e interpretazioni fuorvianti hanno dato margine all’edificazione della distopica teologia cristiana, la quale è stata un gigante dai piedi d’argilla con inclinazioni misogine, omofobiche, illiberali come si evince dalla storia e dal pensiero dei suoi sostenitori5.
 
 
“L’origine du monde”, famosa e discussa opera del pittore Gustave Courbet, visibile al pubblico nel parigino Museo d’Orsay.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Radici occidentali”
https://www.academia.edu/60804523/Radici_occidentali
 

 
 
 
 

giovedì 22 luglio 2021

LA GENESI DELL’UMANESIMO ITALIANO

di DANILO CARUSO
 
Il cosiddetto Umanesimo italiano, periodo della civiltà culturale post-medievale, ha avuto inizio con la coniazione del Fiorino, moneta creata in Firenze nel 1252. Tutta la cultura umanistica mirò a fornire una giustificazione all’attività umana legata al denaro e agli affari. Non c’entra nessun interesse culturale genuino. Se si celebrò allora l’attivismo, assieme alle sue cause e ai suoi effetti, ciò accadde principalmente nello spirito capitalistico introdotto dal Fiorino. Il quale seguito a breve dal Ducato veneziano, altra moneta pregiata, costituì con questo la valuta più accreditata per molto tempo. L’Umanesimo seguendo il copione della hegeliana nottola di Minerva, intervenne a fornire la copertura ideologica nei confronti di una dinamica già sorta. La nascita del sistema bancario alla fine del Medioevo non era compatibile con l’illiberale totalitarismo cattolico. L’istituto rappresentato dalla banca non può svilupparsi entro margini ristretti, dove gli incentivi ai consumi mondani siano condannati. La condanna dell’edonismo, a tutti i livelli, sostenuta dal Cattolicesimo cozzava contro gli interessi di banchieri e imprenditori. Il mettere al centro dell’attenzione l’essere umano nelle sue sfaccettature, in primis nella volontà attivistica (una ante litteram e sui generis teorizzazione del wille zur macht nietzschiano1), mirava a legittimare gli spazi guadagnati dalla borghesia a scapito della Chiesa (tale dialettica culminerà nella scissione luterana). Gli intellettuali umanisti italiani costituiscono effetti, epigoni, rispetto a una causa precedente in ogni senso. Per dirla in termini marxiani: l’Umanesimo italiano è fenomeno “sovrastrutturale”. La città di Firenze a partire dalla fine del Medioevo è centrale in tutta la faccenda: da un lato sostanziale a causa del Fiorino, dall’altro formale grazie alla nuova proposta socioculturale messa su carta da autori legati in vario modo al Comune fiorentino. A suo tempo Dante aveva visto il movimento emancipatore capitalistico e lo aveva osteggiato2. Lo Stilnovismo in Italia, assieme alla Scuola siciliana, rappresentò lo spartiacque fra ideologia cattolica restrittiva e smarcamento dal controllo3. Guido Guinizelli si presenta come un umanista, nel senso nobile del termine, nel momento in cui restituisce dignità alla figura femminile e alle dinamiche libidiche. Questo non opera Dante, per cadere nell’integralismo cattolico della “Commedia”4. Successore dantesco appare Francesco Petrarca. Costui ama la lingua degli angeli più del volgare: il primato va dato alla Cristianità quale sistema sociopolitico europeo, e non alle realtà inferiori con lingua propria. La sua riscoperta dell’antichità possiede una mira reazionaria: riportare alla mentalità patristica. Egli scimmiotta Agostino d’Ippona5, respinge una mentalità scientifica moderna, arriva a dire che la letteratura sia superiore alla medicina (il che costituisce assurdità inaccettabile, assurdità che era omogenea al sistema culturale della Chiesa medievale, dove le Sacre Scritture prevalevano sopra e impedivano il progresso scientifico). Simile dialettica fra Rinascimento scientifico-filosofico e chiuso spirito di conservazione integralistica avrà i suoi due casi eclatanti esemplari nelle vicende di Giordano Bruno e di Galileo Galilei. Il Petrarca rifiuta una moderna metodologia di indagine razionalistica, in contrasto con la filosofia in genere, non solo con i razionalisti medievali. Non accetta l’interesse scientifico verso la Natura da parte di chi alla sua epoca si mostrava più avanti (si veda la scienza araba) legandosi a un pensiero di matrice più religiosa che umanistica (qualunque sia il significato che vogliamo dare all’aggettivo). Francesco Petrarca raffigura un medievale integrale, la sua ricerca degli antichi scrittori possiede sfondo reazionario (una cosa che si nota altresì in Leopardi6); il suo porre l’accento sull’individualità personale e la propria simpatia nei confronti di sant’Agostino lo avvicinano al nevrotico Kierkegaard7, non allo status di “umanista” con cui viene celebrato. La Laura del primo rappresenta alla fin fine un’agostiniana bambola in funzione di esempio misogino: la donna costituisce più causa di turbamento agli occhi di un uomo che di benessere. Siamo agli antipodi di Guinizelli e su una posizione kierkegaardiana: il teologo di Copenaghen era pure filopatristico, e non rappresenta fantascienza critica voler condurre un confronto fra gli effetti (disorientanti) prodotti nei rispettivi casi da Regina Olsen e Laura. Quest’ultima viene definita in apertura del canzoniere petrarchesco un errore di gioventù: «mio primo giovenile errore». Tutto ciò che si poteva nutrire a carico di tale Laura in termini di trasporto erotico da parte del Petrarca viene seccamente condannato: «del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, / e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno». Nei “Rerum vulgarium fragmenta” l’autore parla di uno scampato pericolo analogo a quello dantesco al cospetto di Paolo e Francesca nell’inferno8. Il Petrarca, al pari di Dante, trasforma lo Stil Novo in distopia mediante una dialettica “Laura stilnovistica guinizelliana / Cattolicesimo patristico agostiniano”. La morte di lei, sulla falsariga di quella di Beatrice, evoca auspici inconsci, soddisfazioni raggiunte nell’ottenimento di una liberazione dalla ianua Diaboli, in relazione a un femminicidio: queste donne sono irraggiungibili, ergo devono morire. Poi diventano bambole letterarie. In travagli nevrotici del genere si scopre una legittimazione della caccia alle streghe. Sembra che la Laura petrarchiana (conosciuta dal poeta sposata avente 16/17 anni) sia stata un’antenata di Donatien Alphonse François de Sade9 in quanto moglie del marchese Ugo de Sade, morta a 37/38 anni a causa della peste. Un filone della critica letteraria vorrebbe che ella sia nel canzoniere petrarchesco un simbolo raffigurante la Poesia. Se Beatrice era diventata la Teologia, niente di strano che questa divenga imago dell’ambizione artistica mondana del Petrarca contrapposta a un ideale più ristretto di religiosa impronta classico-ascetica. Comunque le letterature che egli condanna rimangono sempre quelle occitana e stilnovistica, vale a dire quelle della “donna angelicata” e della libido positiva. La Firenze del Fiorino mi rievoca per certi versi la Ionia presocratica con la sua voglia di liberarsi dal mito e di approcciarsi alla physis in guisa non religiosa. Ovviamente i due contesti storici sono molto diversi giacché distanti nello spazio e nel tempo, ma nel loro fondo giace una volontà di superare i limiti precedenti che non garantivano solidità all’espansione socioeconomica. Il messaggio umanistico nel contrapporsi alla tradizione scolastico-aristotelica si configurò all’inizio quale antirazionalistico, sulle posizioni petrarchiane. Cosicché nell’intellettuale fiorentino Coluccio Salutati troviamo un personaggio dai due volti: esaltatore dell’attivismo umano su un fronte, disprezzatore del progresso scientifico dall’altro. La cosa tuttavia non appaia strana poiché l’irrazionalismo è proprio del fenomeno capitalistico10, e il suo comportamento non segue una logica di buon senso ma guarda soprattutto alla logica del profitto. La scientificità avrà la sua rivincita funzionale nel tempo, notandone l’utilità ai fini del capitalismo: un mondo sconosciuto, mantenuto insicuro campo di attività non giova; è preferibile mantenersi dentro un perimetro di gioco dove la scienza mantenga un arbitraggio sicuro a favore, magari fornendo tecnologie a risvolto commerciale (pensiamo ad esempio all’introduzione della stampa tipografica). La Chiesa non ebbe simpatia nei riguardi del progresso scientifico perché questo metteva in crisi a beneficio della libertà il dominio culturale e politico della prima: un modello negativo nella sua configurazione formalmente analogo a quello non così tragico della Ionia presocratica (là lo sviluppo filosofico in direzione da subito fisiologica non comportò persecuzioni di matrice religiosa, fu un’attività molto più agevole). Il pericolo rappresentato dall’interesse scientifico coltivato nel Rinascimento agli occhi dei cattolici integralisti provocherà l’estrema reazione ecclesiastica: le ricordate vicende di Bruno e Galilei segnano un punto critico nella storia in seguito al quale l’Europa ha avuto l’obiettivo di mettere all’angolo il pesante avito condizionamento religioso. La marcia di liberazione capitalistica era incominciata con l’Umanesimo fiorentino. Notiamo che il fine è quello di ammorbidire e ribaltare l’antiedonismo cattolico, di dare dignità all’attività speculativa economica. In tal senso una triade di umanisti legati allo spirito fiorentino si mostra molto rilevante nella comprensione della fenomenologia esaminata: 1) Leonardo Bruni, 2) Poggio Bracciolini, 3) Leon Battista Alberti.
1) Il primo possiede idee benthamiane. Rivaluta la dimensione del piacere nell’agire umano, rilegge in chiave attivistica l’etica aristotelica dove l’obiettivo contemplativo della migliore vita umana diventa attività di pensiero che si afferma nella realtà a produrre, e producendo fa conseguire virtù e felicità. Tale argomento del conseguimento di una condizione felice mi rammenta la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti nella quale si menziona un “diritto alla felicità” quale lecita possibilità sottintesa della proprietà privata. Intesa alla maniera di Max Weber nei contesti capitalistici, essa viene presa in considerazione teorica, anche se non in quanto tale, nella cultura umanistica attraverso il tema della Fortuna (già presente in Dante con connotazione agostiniano-protestante). È l’antenata della “mano invisibile” di Adam Smith, la quale Fortuna sviluppandosi sulle basi dell’antipelagianesimo di Agostino d’Ippona giungerà in campo protestante strutturandosi come “predestinazione” alla felicità terrena e celeste, nel primo caso col premio della ricchezza. Leon Battista Alberti affermò il primato dell’azione umana, nella modalità “virtuosa”, sulla Fortuna: il Caso può essere battuto grazie all’impegno qualificato (la sostanza da conseguire è la medesima messa in luce nell’analisi weberiana del Calvinismo: il successo dell’impresa, il contorno ideologico laico o religioso alla fine si mostra un dettaglio di facciata).
2) Il secondo autore ricordato sopra, Poggio Bracciolini, ha sottolineato il valore positivo (nell’ottica capitalistica) assunto dai soldi e dalla ricchezza all’interno del sistema sociale, i quali danno luogo all’estetica artistica nelle varie forme in cui si rende concreta.
3) Il terzo umanista della superiore triade, Leon Battista Alberti, prosegue la scia teorica capitalistica fiorentina. Nacque nel 1404 (forse a Genova). La sua famiglia esiliata da Firenze nel 1337 era impegnata in attività imprenditoriali nel commercio. Egli continuò a celebrare l’attivismo umano considerandolo nella forma collettiva, perciò tematizzò l’importanza dell’architettura urbana. Nell’assetto urbanistico, a suo avviso, deve riflettersi l’ordine naturale, il quale è anche ideale di virtù. La trattazione di questo umanista rivela due segmenti di analisi che meritano di essere ben evidenziati. a) L’Alberti possiede un quid di massonico nel momento in cui fa dell’uomo un imitatore del Grande Architetto dell’Universo che nella Natura pone il proprio edificio di ordine. La “città albertina” è ante litteram massonica (pensiamo al progetto della capitale americana Washington). b) L’edilizia, sul piano più materiale, è sempre stata un’attività saliente nelle società a vocazione espansiva capitalistica. L’Alberti coglie alla perfezione il suo ruolo nella prospettiva di arricchimento e di circolo della moneta (rammentiamo il New Deal rooseveltiano).
Il letterato che può considerarsi sul serio primo umanista è il Giovanni Boccaccio del “Decameron”, il Boccaccio bancario (quello dell’età più matura si involvette sul sistema cattolico poiché perse la sua posizione lavorativa moderna, e pertanto si adeguò giocoforza sulle posizioni reazionarie e misogine del “Corbaccio”). Il capitalismo fiorentino trovò un’ottima spalla nel romano Lorenzo Valla, che studiò da ragazzo forse pure a Firenze. Il noto autore del “De falso credita et ementita Constantini donatione” si riaggancia infatti alle posizioni filoedonistiche del Bruni, comunque su base epicurea rimanendo nel confine cattolico, almeno in apparenza. Il salto da un Valla paolino esaltatore di una forma attivistica nei canali delle virtù teologali (fede, speranza, carità) a scapito del razionalismo verso lo huxleyano Brave New World non è molto distante: il binario è quello accennato11. Del Valla, che si guadagnò l’attenzione dell’Inquisizione, è da ricordare anche l’idea di una Chiesa che abbandonasse l’agone politico: il che è stato l’ideale liberal-massonico di sempre. La tendenza a sbarazzarsi dell’invadenza ecclesiastica condusse gli umanisti di natura capitalistica a contrapporre Platone all’Aristotele cattolico-tomistico12. Una Accademia neoplatonica fiorentina venne fondata nel 1462 grazie a Cosimo de’ Medici dietro la suggestione del pensiero di Giorgio Gemisto (Pletone) fautore di un radicale ritorno a Platone e di una religione platonizzata depurata dal Cristianesimo. Dell’Accademia di Firenze tra gli altri fecero parte Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino e Lorenzo il Magnifico. Quest’ultimo fu avversato dal Savonarola, estremista religioso che diede luogo a un fiorentino regno della follia, parente ideologico tutto sommato dell’integralismo cattolico. Una cosa importante che mi preme ricordare a proposito del Ficino è il fatto che James Hillman lo abbia indicato quale precursore dei contenuti della psicologia neojunghiana archetipica. Tengo a questo dettaglio per via del collegamento che altrove ho fatto fra il Guinizelli e il “processo di individuazione” di Jung. In quella mia analisi legai lo stilnovista bolognese a Platone, e far notare come Hillman veda spunti contenutistici di natura psicologica archetipica in Ficino, altro autore più apertamente legato al platonismo, serve a rafforzare l’impostazione che ho dato a quest’altro mio esame. In particolare Hillman dal canto suo rileva in Ficino un precursore psicanalitico per via della centralità assunta in questo dalla concretezza psichica dell’anima, la quale diventa l’immediato punto di partenza nell’interagire e nel conoscere il Mondo: tutto il resto (memoria, facoltà razionali) è in essa contenuto e posteriore; i livelli simbolici della psiche sono di pertinenza dell’anima (dalla loro origine giungono poi alla Ragione). A conclusione della presente analisi, in funzione di prosecuzione e approfondimento voglio segnalare un mio precedente studio dedicato alla “Madonna del latte” di Jean Fouquet13.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Radici occidentali”
https://www.academia.edu/60804523/Radici_occidentali
 
1 Chi desiderasse ampliare può leggere un mio studio:
 
2 Per approfondire indico un mio saggio:
 
3 Chiarisco meglio qui:
 
4 Si veda nota 2.
 
5 Un approfondimento sul pensiero agostiniano qua:
 
6 Vedasi nota 1.
 
7 Leggendo questo testo si comprenderà meglio:
 
8 Si veda nota 2.
 
9 Chi avesse voglia di una analisi sadiana troverà qui un mio lavoro:
 
10 Ho affrontato l’argomento in un mia monografia:
 
11 Il senso del ragionamento apparirà più nitido mediante questa lettura:
 
12 Riguardo a questo dettaglio indico un mio studio: