di DANILO CARUSO
Intercorre uno strano
rapporto tra Locke e Marx, un legame lungo una scala di pensiero, il quale usando
figura metaforica definirei di sangue filosofico: Marx è figlio illegittimo di
Locke. L’autore de “Il capitale” viene di solito posto sulla scia di Hegel a
proposito della paternità concettuale, ma nel cuore di Marx giace un DNA
lockiano. L’empirista inglese e il filosofo tedesco hanno al centro delle loro
costruzione il primato del momento pratico-empirico, che ognuno sviluppa
secondo uno specifico punto di vista, il quale tuttavia rimane innestato sullo
stesso tratto di considerazione della realtà. Sotto simile profilo più
autentico e saliente rispetto all’altro che sosterrebbe l’inesistenza del
Marxismo al di là di Hegel, Marx è un figlio, non riconosciuto come tale,
dell’ideologia liberale e liberista inglese. In questa relazione l’effetto non
è accostabile alla causa, giacché il rapporto è appunto dialettico (in senso
hegeliano). Prevale l’alterità marxista sull’omogeneità ideale di fondo.
Spinoza asserisce che la causa e l’effetto devono avere un quid di sintonia il
quale non li renda perfettamente estranei. Detta lezione supporta Hegel
nell’elaborazione della sua dialettica: ogni tappa dell’essere fenomenico è
attraversata da un filo motore di vitalità, confronto rispetto alla precedente;
il susseguirsi non è una dinamica illogica di pezzi sconnessi, bensì qualcosa
di paragonabile a un legame padre-figlio. Sia in Locke che in Marx la menzionata
primazia esteriore al soggetto di un’attività produttiva li rende consanguinei
riguardo all’attribuzione di paternità. Hegel è un padre putativo senza di cui
ci sarebbe stato forse comunque un Marxismo: diverso, magari catalogato in
seguito dagli storici nel novero dei socialismi utopici. Il fascino ideologico
di Marx sta nella denunzia dell’ingiustizia sociale, nel mettere sul banco
degli imputati colpevoli con precise accuse. Egli reagisce allo schema
liberal-capitalista borghese a mo’ di un figlio di fronte a un padre
tradizionalista autoritario. Locke considera l’uomo una sorta di surrogato
davanti alla Natura mediata dall’empirico (alquanto hegeliana questa
alienazione da sanare): da un castello esterno, e non immanente, gli esseri
umani troverebbero il lume a guida del loro agire (l’esperienza informerebbe
tutto l’uomo). La postulazione lockiana di un’idea di Dio così evidente al pari
di tutte le altre, nell’ottica del suo empirismo, appare contraddittoria: è un
concetto metanaturale che un empirista coerente non può sostenere in tal
guisa. Il Dio lockiano non rientra in un margine di riflessione empiristica: è
un postulato, è una proiezione nevrotica. È un garante ontologico della bontà
dell’ordine e dei principi liberali (i quali considerati in assoluto e
delineati in modo lucido non sono un parto d’insania: da premesse false
possiamo dedurre affermazioni vere). Siffatto Dio lockiano regredirà poi allo
stadio di mano invisibile. In Marx,
rivoltatosi contro l’ordine liberale costituito, l’umanità recita il ruolo di
un’altra specie di vittima dell’attività esterna da essa promanante. La prassi
empirica sebbene sia frutto umano diventa la nuova prigione, e ad avviso dell’autore
de “Il capitale” dovrebbe divenire lo specchio in cui riconoscersi. Su di essa
egli cala la dialettica hegeliana, rimuovendo che l’uomo è in primis un essere
spirituale e che il suo baricentro è nella psiche e non nella produzione. Locke
e Marx hanno alienato l’uomo ponendo al di fuori il faro. La tradizione
razionalistica francese, da Cartesio culminata nel Tedesco Kant, resisterà al
tentativo di sopravvento della res extensa. Locke e Marx deducono l’uomo da
questa. Il materialismo storico è una concezione fuorviante: il dire, su base
materialistica, che soggetti intelligenti, non necessariamente spirituali per
Marx, ma in ogni caso pensanti con possibilità di libertà, siano subordinati al
loro fare/esperire, svincolandoli da un livello di riflessione di altro valore,
equivale a dare un primato a una dimensione alienante (come nel pensiero
lockiano), e perciò a indicare una patologia mentale quale condizione normale.
Marx ha verso Locke un complesso edipico (termini del confronto da intendersi
pure nella veste di simboli di un macroconflitto storico). Fra i due c’è uno
scontro generazionale in senso lato (per rendere l’idea pensiamo al ’68). La
comprensione – differente da una giustificazione – degli eventi storici
richiede strumenti analitici vari. La sola economia non può spiegare l’umanità,
c’è bisogno del contributo di diverse discipline. Marx ha preso la dialettica
hegeliana e ne ha fatto un uso improprio. Animato da condivisibile e ammirevole
slancio nella lotta contro le ingiustizie, si è lasciato prendere la mano. Ha dato una patina di
razionalità al suo sistema grazie alla dialettica hegeliana, però aver
appiccicato essa sopra l’empirismo lockiano non ha prodotto integrale scientificità. Anzi sembra esserne
venuto fuori un mostro di Frankenstein molto pericoloso. L’autore de “Il
capitale” ha preso tutti i diseredati, in maniera astratta, e li ha messi da
una parte; e dall’altra ha collocato gli sfruttatori. Tipi sociali che
purtroppo ci sono stati, e ci sono tuttora; tuttavia non divisibili così
facilmente in due sfere non inciampando in una forma di fanatismo gnostica.
Dagli sfruttatori, a ritroso, Marx ricava attraverso premesse non sempre
razionali aspetti storiografici accettabili se inquadrati nella giusta orbita.
Esistono classi sociali, esistono interessi di parte, però il comportamento
umano è determinato dalla psiche: è influenzabile dall’ambiente, ma questo non
ha un’egemonia ontologica (la quale Locke e Marx invece riconoscono). Marx non
avrebbe potuto dedurre il concetto di lotta di classe se privato della
dialettica hegeliana: il concetto marxiano è un’astrazione generalizzante
impossibile nell’ambito del materialismo, il quale da solo consente di
raggiungere un bellum omnium contra omnes
sviluppantesi in macrofasi. Grazie alla dialettica hegeliana il marxismo
diventa dogmatico nel postulare la rivoluzione, la dittatura del proletariato,
la fase socialista e quella finale comunista. Detto dogmatismo è il mostro di
Frankenstein responsabile di tantissimi mali nel ’900. Marx è debitore nella
sua pars destruens degli economisti inglesi: questo è l’autore scientifico,
quello analizzante l’ordine sociale del padre e che ne evidenzia i difetti. Il
Marx autore della pars costruens brancola nel buio della ragione: degrada il
potere di applicazione della dialettica hegeliana a un bellum servile irrazionale. Nella sua prospettiva del futuro a
tanti padroni se ne sostituisce uno, un oppressivo Stato socialista (criticato,
tra i vari, da Simone Weil). Alla fine allo scopo di risolvere il problema
sociale, si pone la necessità marxiana di distruggere il problema medesimo:
disintegrare l’umanità nella definitiva fase comunista. A tal riguardo non è da
trascurare che sia desiderio di liberisti estremisti uno Stato ridotto ai
minimi termini, il quale non infastidisca il borghese bellum omnium contra
omnes. Marxisti e liberisti integrali sembrano volere all’ultimo una meta quasi
identica. Nel corso del segmento avente per estremi Locke e Marx sta appeso
Rousseau, simbolo del contrasto interiore del liberal-socialismo: la
contraddizione inerente alla società borghese rilevata da Marx, società
travagliata nella sua maturazione ideologica dalla ricerca di un equilibrio tra
libertà, uguaglianza e solidarietà. Locke, Rousseau (illuminista eretico), Marx
si ritrovano lungo una gamma di pensiero sensista-sentimentale, la quale non è
razionalista in senso puro. Rousseau è un ponte tra Locke e Marx, ulteriore
dimostrazione di un agire spirituale degli uomini nella storia a volte non
vigilato da cosciente razionalità. Spesso l’azione cade in balia di emozioni e
passioni promosse dall’esterno, non accompagnate da opportuna guida della
ragione; e sottolineo guida poiché l’uomo è sì un essere razionale, ma non può
sopprimere il suo positivo lato emotivo non annientando l’anima stessa. Il
pensiero marxiano è una reazione generazionale alla dottrina liberal-liberista.
La dialettica liberali/comunisti potrebbe essere una nuova figura, posteriore,
della “Fenomenologia dello Spirito”. L’autore de “Il capitale” dal canto suo
riconduce ogni divenire sociale allo scontro tra servi e padroni, dove chi
vince è destinato prima o poi nello spazio sociopolitico a essere sconfitto ed
emarginato a sua volta. Tutto sommato questa è una constatazione banale, a
posteriori; mentre a priori si proietta in un’escatologia gnostica, inspiegabile
perché dogmatica, e foriera di sventure. Il fatto che il dominatore resti al
suo posto sin quando non viene rimpiazzato è un’asserzione tautologica. Il
confronto tra sistemi pur sempre di pensiero produce una dialettica spirituale
(non sempre scevra di nevrosi). Le generazioni di cui ho parlato sono metafore,
una summa di connotazione di un tratto temporale, altresì epoche. Mi sono
servito del concetto e del termine di generazione per la sua valenza
psicologica. L’impostazione da me data alla trattazione è di richiamo
junghiano. Il materialismo marxiano ha mostrato sintonia solo con gli studi
freudiani (di eguale vocazione antimetafisica e materialistica). Tuttavia Freud
non è da pensare in contrapposizione a Jung. Gli studi dell’Austriaco hanno solo
un carattere di parzialità e non di erroneità. Il complesso marxiano nei
confronti di Locke è di natura edipica. Dov’è la donna? È la Grande Madre
junghiana, l’archetipo femminile della Natura. Natura da cui Locke pretende di
ricavare leggi nevrotiche, che consentano uno sfruttamento di tutti i suoi
settori. Le leggi di natura lockiane non sono postulazioni razionali; sono
autorizzazioni, legittimazioni richieste e scaturenti da una prassi
attivistica. Jung distingue tipi caratteriali in base alla coppia delle
funzioni razionali di giudizio del soggetto (ragione e sentimento) e a quella
delle irrazionali di percezione (intuizione e sensazione). Lo studioso svizzero
accanto alla dicotomia introversione/estroversione tiene conto di quella
razionale/irrazionale. La filosofia di Locke è “sensista estroversa – sentimentale
introversa”, non si appoggia alla facoltà del pensiero logico. Egli al posto
della ragione ha messo una nevrosi: sentimento-di-libertà non è lo stesso di
concetto-di-libertà. Medesima cosa fanno Rousseau e Marx, operanti in analogo
campo psichico e con modalità proprie. Le leggi di natura lockiane consentono
di mettere una mano (invisibile) sulla Natura. Questo investimento di libido
junghiana che si dispiega mediante facoltà non precipuamente razionali ha i
connotati di uno stuprum Naturae.
Qual è la reazione di Marx al cospetto della violenza? È una risposta edipica,
giacché i tipi psicologici sono su un piano freudiano. La psicologia di Freud è
un’introspezione perfetta della società capitalistica. Jung ha invece sondato
un campo più vasto. Freud, curando i malati del capitalismo, ha generalizzato il
suo modello. Marx e Freud sono accoppiati in virtù delle loro affinità (ad
esempio da Marcuse). Il primo vuole sostituirsi al padre Locke (fase socialista
del marxismo) e rientrare – sulla falsariga di Rousseau – nel grembo della
Grande Madre (fase comunista). L’autore de “Il capitale” ha profetizzato
l’avvento della rivoluzione proletaria in Inghilterra. Simile profezia non ha un valore scientifico
convenzionale. Durante la metà dell’Ottocento un osservatore politico, al suo
posto, avrebbe detto in Francia (dalle tante rivoluzioni), terreno fertile a
beneficio di un radicale cambiamento. Però Marx sceglie l’arida Inghilterra,
poiché decide di uccidere il padre: il sistema capitalistico crollerà quando
muterà il modello organizzativo sociale angloamericano, questa è la profezia
(junghiana?) di Marx (il nemico si sconfigge al suo interno, non tagliando
qualche testa dell’Idra). Locke e Marx sono dunque un padre e un figlio
nell’atto di uno conflitto generazionale macrostorico. La materia in esame a
proposito di Locke pone la domanda: perché figlio d’Abramo? L’attivismo, il
primato della dimensione pratica ed empirica, qualificante il pensiero lockiano ha un’ascendenza
veterotestamentaria. Weber ha ricondotto l’origine del capitalismo moderno a una
serie di meccanismi psicologici di ispirazione religiosa, a una forma
patologica del comportamento umano ricercante il segno della salvazione da
parte di Dio nel successo economico e sociale. Tale dinamica inconscia nel
mondo protestante in primis calvinista è la nevrosi alla radice del capitalismo
occidentale. Notiamo in Locke la prassi ancorata a un’idea di Dio metafisica:
si tratta del meccanismo weberiano in embrione concettuale. L’attivismo
capitalista ha però un padre più vecchio: il volontarismo, l’attivismo degli
esuli atonisti che ambirono alla fondazione della Nazione ebraica antica. La
ricerca del successo bellico, dell’affermazione di un gruppo a testimonianza
della predilezione divina (del Dio principale) costituisce quel modello
veicolato dal Cristianesimo nella cultura occidentale. Un Cristianesimo
irrazionalista esploso con la Riforma luterana. La religione giudaica, sostiene
Freud, ipostatizza nella figura del Dio numero
uno una proiezione nevrotica maschilista dell’immagine paterna. Questo è il
discutibile Dio di Locke, garante del sistema liberale, il quale si rivela alla
fine un modello teocratico in incognito, copiato dai fisiocratici francesi alla
ricerca di giustificazioni borghesi in economia. Puntualizzo in maniera
inequivocabile che le mie parole cercano di indagare con obiettività, e che non
hanno niente a che spartire con punti di vista antisemiti. Le dinamiche
psicologiche messe in evidenza piuttosto che prestarmi a essere frainteso
serviranno a far capire la genesi di luoghi comuni (simboli) antiebraici, i
quali inquadrati in un impianto analitico anche junghiano indicano la loro
sorgente in un archetipo dell’antisemitismo (il cui avvicinarsi alla coscienza
è da rifiutare). Mai e in nessun posto può sussistere un diritto a uccidere
esseri umani a causa di nevrotici pregiudizi discriminatori. Se vogliamo sul
serio combattere la violenza e la discriminazione di irrazionalista nascita
dobbiamo comprendere i fatti storici, e inoltre quelli psicologici, dal loro
intimo. Certificare la verità e avverare il certo sono le mire di uno storico.
L’irrazionalismo volontaristico tedesco, uscito fuori dal Luteranesimo, e molto
tragicamente manifestatosi durante l’era di governo nazista, ha la sua provenienza dall’Ebraismo.
Può sembrare un’assurdità, e io ne resto turbato, però è un dato evidente che
la teoria del popolo eletto (da Dio) stia nel Tanak. L’irrazionale presunzione
tedesca, resasi visibile in intellettuali di vaglia, ha bevuto l’acqua versata
nel suo canale in principio da Lutero, il quale fu il promotore dell’assunzione
della dottrina del popolo eletto da parte dei Tedeschi. Dall’Editto di
Costantino la crisi spirituale della Civiltà occidentale si è acuita: una
dialettica fra la razionalità grecoromana e l’irrazionalità giudaicocristiana
ha caratterizzato la storia successiva dell’Occidente. Quando ha prevalso
l’irrazionalismo, il Cristianesimo ha provocato mali: la caduta dell’Impero romano, la
morte di milioni di persone, il trasferimento di alcuni difetti dell’Ebraismo
al di fuori del suo contesto originario (misoginia, omofobia, teocrazia,
attivismo irrazionale). Di per sé l’attivismo non è un male; e il modo in cui
si sostanzia a rendere negativa una condotta. Il mondo medievale visse
un’esperienza imprenditoriale avanzata con l’attività dei Templari, i quali
diedero vita a un giro d’affari internazionale legato a una visione, per
allora, di inusuale sincretismo religioso nel panorama monoteista.
L’arricchimento dei ceti intraprendenti cominciò a prevalere su tutto il resto.
I Templari fecero le spese della loro abilità davanti ai vecchi padroni, e
furono distrutti rinascendo in Scozia dietro alta veste dentro all’origine
templare della Massoneria. Qui ritorniamo da Locke e dal liberismo inglese.
Scoprire il Giudaismo antico la radice dell’irrazionalità occidentale che si misura
con la razionalità grecoromana, è una cosa da esaminare con la massima
attenzione e la dovuta accortezza. Non si rileva nell’analisi storica e
filosofica siffatta analogia di vedute rispetto a sbagliate e riprovevoli
concezioni delle quali un exemplum può essere quella del nazista Rosenberg.
Rispetto gli Ebrei, mi addoloro pensando alla Shoah e a tutte le loro
persecuzioni. Indicare l’Ebraismo antico quale movente di irrazionalità
significa evidenziare una categoria concettuale, un sistema di pensieri, non un
gruppo di persone (etnia). Su questo versante cammina il ragionamento, proseguente
sul lato psicologico nell’illustrare la genesi di due simboli negativi
dell’altrettanto non positivo archetipo dell’antisemitismo. Antisemiti sono
coloro che danno una risposta irrazionale a una domanda irrazionale. In tale
risposta può darsi il trovare due topoi: l’Ebreo usuraio e la finanza ebraica,
e l’Ebreo bolscevico dietro all’URSS. Detti simboli celano trame psicologiche
di cui conosciamo l’albero genealogico. Locke è padre di Marx, e figlio
d’Abramo; allora Abramo è nonno di Marx: il sillogismo dell’attivismo è chiuso.
Non si sa quanto siano coscienti di esso i vari estremisti nevrotici
antisemiti. Se conosciamo i telai e l’intelaiatura storici e psicologici,
guadagniamo strumenti di guarigione. Non esistono cospiratori Ebrei, ma adesioni
consce o inconsce a determinati modelli di comportamento. La questione è di
profonda psicologia, non materia di fanatismi religiosi o politici. Se, ad
esempio, la finanza angloamericana e quella ebraica si possono trovare
allineate non c’entra la razza. In questi casi c’è una ciceroniana solidarietà
di interessi: il dettaglio dell’accidentale può avere diversi nomi. Voglio
fornire un ulteriore contributo volto a sfatare il mito negativo del mercante
giudeo. Dopo la Diaspora gli Ebrei divennero abili imprenditori grazie a un
semplice motivo: spostarono l’idea di elezione dal piano politico-militare a
quello sociale, e gli accadde la stessa cosa dei protestanti calvinisti. In
virtù di ciò, i protagonisti di comportamenti compulsivi capitalistici stanno
nello stesso contenitore. A cavallo di ’800 e ’900 l’essere Inglese, Americano
o Ebreo non ha rilevanza categoriale in relazione diretta al fenomeno
capitalista. Hanno rilievo i meccanismi psicologici indotti dalle religioni di
riferimento. Quelli contano nella lettura sociopsicologica. Nonostante tutto
ciò è da ricordare che la maggioranza di Giudei, Americani e Inglesi fosse
composta da gente semplice del novero degli sfruttati. Gli intraprendenti di
migliore successo in confronto al loro si dimostrano soltanto un’oligarchia di
attivisti compulsivi cronici, in fin dei conti senza patria (come si diceva dei
bolscevichi). Locke non nutre simpatia nella sui generis tolerantia (includente
il Giudaismo) nei confronti di cattolici e atei. Temeva i primi a causa di
ragioni politiche (sono fautori di modelli totalitari e assolutistici: l’utopia
di san Tommaso Moro, la monarchia assoluta); i secondi lo preoccupano per via
di motivi meno contingenti. Stupirebbe in un elogio della tolleranza vedere estromessi
pure gli atei. La spiegazione si trova nella difesa del garante ontologico del
sistema liberale. Senza un Dio-nevrosi che predestina al successo, chi può
giustificare la pretesa di salvezza? Locke ripudia quindi il figlio futuro
parricida, al quale non resta per contrasto altro dal proclamarsi ateo, avverso
a ogni forma religiosa convenzionale (esclusa la sua). Il liberalismo fideistico
ha de facto teorizzato la borghesia quale popolo eletto, la sua superiorità
rispetto alla razza dei poveri (maltusianismo, darwinismo sociale), accogliendo
gli Ebrei. La tradizione tedesca ha edificato una sua teoria sociobiologica,
nell’eleggere la Germania dal sangue puro al di sopra degli altri, escludendo i
Giudei. Dalla fine dell’Ottocento a oggi (Brexit, UE germanocentrica) la storia
europea è ruotata attorno a una competizione fra Inglesi (ideologia
liberal-capitalistica) e Tedeschi (ideologia pangermanista). I primi, empiristi,
nell’irrazionalità sono spiritualisti; i secondi, spiritualisti, nella loro
irrazionalità sono empiristi (marxismo, razzismo biologico). Questi testé delineati
sono meccanismi di compensazione psichica inconscia junghiani. Ovunque gli
attivisti nevrotici hanno preso il potere politico, hanno considerato la legge
e il potere legislativo secondo il criterio di utilità del più forte. Ciò non significa che istanze di genuina
emancipazione non si associno a esperienze storiche. Questa realtà è un ibrido
dove poter rintracciare tensioni opposte.
Per approfondimenti
Per approfondimenti
http://danilocaruso.blogspot.it/2016/10/il-gioco-capitalista-degli-elohiym.html
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica
dell’irrazionalismo occidentale”
https://www.scribd.com/document/328497724/Critica-dell-irrazionalismo-occidentale