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domenica 18 settembre 2016

DISTOPIA ALL’ITALIANA

di DANILO CARUSO

“Monitor” è un film italiano del 2015, una distopia tutto sommato leggera. La rappresentazione imperniata sulla funzione sociale svolta dai centri di ascolto mi ha rammentato le mie riflessioni sull’orwelliano telescreen di “1984” (esposte nel mio saggio “Il Medioevo futuro di George Orwell”1). Il mondo distopico del film (abitato da impiegati, dipendenti d’imprese, società) offre l’opportunità a chiunque di uno pseudosostegno psicologico. Ognuno può esporre le sue preoccupazioni e/o vicissitudini in una stanzetta, dove si trova solo davanti a un monitor: una sorta di confessionale. Costui/costei vomita tutto quello che la sua anima non ha digerito a un operatore (uomo o donna) che l’ascolta da un altro posto. L’ascoltatore non conosce il nome del suo assistito (non può vederlo, e dispone solo di un codice d’identificazione); chi parla invece di là non sa niente del suo interlocutore, di cui legge messaggi scritti sullo schermo di fronte. Questo telescreen è un epigono di quello di “1984”. Nella mia ricordata monografia sul romanzo ho paragonato la sua azione di monitoraggio informativo al sacramento cattolico della confessione, il quale mira a carpire dati, notizie da utilizzare in prospettiva della manipolazione e della gestione di esseri che definire umani è forse iperbolico. In entrambi i casi, distopico filmico e reale, il/la mal capitato/a non trova facilmente un esperto di psicologia. Nel film gli operatori (non specialistici) debbono più che altro rassicurare il soggetto invitandolo a tirare a campare. Più o meno quello che capita durante la confessione religiosa: le malefatte di Don Rodrigo saranno punite dalla peste divina, e non da un’azione di giustizia umana (che non darebbe adito al problema della Provvidenza manzoniana); Don Abbondio ha paura di scontrarsi col regime dell’iniquità, con il quale alla fine finisce per identificarsi, non avendo la forza e il coraggio (ma solo il desiderio) di sostituirvisi. Il confessarsi in “Monitor” è prassi laica, insipida: pare fatta da un Don Abbondio di turno. Un omologato vaso di terracotta il cui lavoro aspira alla conservazione del sistema. Al protagonista del film, Paolo, un operatore di suddetti centri d’assistenza, capita di interessarsi del caso di una giovane donna sposata oltre il consentito, spingendosi a conoscerla fuori del suo contesto di lavoro. Nasce una storia d’amore agevolata dal fatto che lei, Elisa, sia insoddisfatta del marito. Lui sul finale viene scoperto, e tutte le vicende si sviluppano in modo che si perderanno di vista e non si incontreranno più, giacché ella ha recuperato il rapporto matrimoniale. I due protagonisti si riallacciano in stile soft agli orwelliani Winston e Giulia (Julia). L’esito di “Monitor” ha un riflesso puškiniano: ricorda l’“Onegin”. Gli ambienti lavorativi di Paolo, chiusi alla luce del sole, sanno inoltre di Ministero dell’amore di “1984”. Il film ci presenta un universo umano dove soltanto un principio d’inerzia mantiene in vita la gente: ci sono fantasmi di umanità che non è raro ammirare nelle necropoli del vivere comune. Freud sosteneva che la coazione a ripetere è un richiamo di reificazione, un’eco di morte: chi vive nella ripetitività di riti biologici e nevrotici, è quel fantasma, quel morto; un oggetto che un’inerzia di sistema quasi totalitario illude di vita umana. Una maschera, una imago, in un gioco degli specchi fra grottesche presenze, inconsapevoli di ciò (vedere la bestiale deformità richiede l’uscita dalla caverna). Tant’è che la riflessiva Elisa dice a Paolo: «Le persone si presentano sempre meglio di quello che sono, mai il contrario». Sotto l’habitus, di un sepolcro imbiancato, c’è spesso una mummia poco faraonica. Su una parete del palazzo in cui abita Paolo, una vetrata a pianterreno che dà sull’esterno, domina una foto di Edison recante una sua massima: «Il tempo è l’unico vero capitale che un essere umano ha, e l’unico che non può permettersi di perdere». L’intraprendente inventore americano rievoca Taylor e Ford delle distopie di Zamjatin e Huxley (“Noi” e “Brave New World”, due romanzi cui ho dedicato altri due saggi2). Il cosmo distopico di “Monitor” proclama la sua etica del successo che capitalizza l’estensione temporale prosciugando l’essenza intensiva umana. L’uomo ridotto a essere-nel-tempo assurge ad aspirante impiegato che desidera svuotarsi, reificarsi, diventare un tubo vuoto attraverso cui passa il soffio dell’illusione beatificante. Da questa anonima confortevole aurea mediocritas Paolo ed Elisa riescono a trovare un temporaneo rifugio.


1 http://www.scribd.com/doc/258151081/Il-Medioevo-futuro-di-George-Orwell
http://www.scribd.com/doc/273391341/Il-capitalismo-impazzito-di-Aldous-Huxley




Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica dell’irrazionalismo occidentale”