di DANILO CARUSO
“Monitor” è un film italiano
del 2015, una distopia tutto sommato leggera. La rappresentazione imperniata
sulla funzione sociale svolta dai centri di ascolto mi ha rammentato le mie
riflessioni sull’orwelliano telescreen
di “1984” (esposte nel mio saggio “Il Medioevo futuro di George Orwell”1).
Il mondo distopico del film (abitato da impiegati, dipendenti d’imprese,
società) offre l’opportunità a chiunque di uno pseudosostegno psicologico.
Ognuno può esporre le sue preoccupazioni e/o vicissitudini in una stanzetta,
dove si trova solo davanti a un monitor: una sorta di confessionale.
Costui/costei vomita tutto quello che la sua anima non ha digerito a un
operatore (uomo o donna) che l’ascolta da un altro posto. L’ascoltatore non
conosce il nome del suo assistito (non può vederlo, e dispone solo di un codice
d’identificazione); chi parla invece di là non sa niente del suo interlocutore,
di cui legge messaggi scritti sullo schermo di fronte. Questo telescreen è un
epigono di quello di “1984”. Nella mia ricordata monografia sul romanzo ho
paragonato la sua azione di monitoraggio informativo al sacramento cattolico
della confessione, il quale mira a carpire dati, notizie da utilizzare in
prospettiva della manipolazione e della gestione di esseri che definire umani è
forse iperbolico. In entrambi i casi, distopico filmico e reale, il/la mal
capitato/a non trova facilmente un esperto di psicologia. Nel film gli
operatori (non specialistici) debbono più che altro rassicurare il soggetto
invitandolo a tirare a campare. Più o meno quello che capita durante la
confessione religiosa: le malefatte di Don Rodrigo saranno punite dalla peste
divina, e non da un’azione di giustizia umana (che non darebbe adito al
problema della Provvidenza manzoniana); Don Abbondio ha paura di scontrarsi col
regime dell’iniquità, con il quale alla fine finisce per identificarsi, non
avendo la forza e il coraggio (ma solo il desiderio) di sostituirvisi. Il
confessarsi in “Monitor” è prassi laica, insipida: pare fatta da un Don
Abbondio di turno. Un omologato vaso di
terracotta il cui lavoro aspira alla conservazione del sistema. Al
protagonista del film, Paolo, un operatore di suddetti centri d’assistenza,
capita di interessarsi del caso di una giovane donna sposata oltre il
consentito, spingendosi a conoscerla fuori del suo contesto di lavoro. Nasce
una storia d’amore agevolata dal fatto che lei, Elisa, sia insoddisfatta del
marito. Lui sul finale viene scoperto, e tutte le vicende si sviluppano in modo
che si perderanno di vista e non si incontreranno più, giacché ella ha
recuperato il rapporto matrimoniale. I due protagonisti si riallacciano in
stile soft agli orwelliani Winston e Giulia (Julia). L’esito di “Monitor” ha un
riflesso puškiniano: ricorda l’“Onegin”. Gli ambienti lavorativi di Paolo,
chiusi alla luce del sole, sanno inoltre di Ministero dell’amore di “1984”. Il
film ci presenta un universo umano dove soltanto un principio d’inerzia
mantiene in vita la gente: ci sono fantasmi di umanità che non è raro ammirare
nelle necropoli del vivere comune. Freud sosteneva che la coazione a ripetere è
un richiamo di reificazione, un’eco di morte: chi vive nella ripetitività di
riti biologici e nevrotici, è quel fantasma, quel morto; un oggetto che un’inerzia
di sistema quasi totalitario illude di vita umana. Una maschera, una imago, in
un gioco degli specchi fra grottesche presenze, inconsapevoli di ciò (vedere la
bestiale deformità richiede l’uscita dalla caverna). Tant’è che la riflessiva
Elisa dice a Paolo: «Le persone si presentano sempre meglio di quello che sono,
mai il contrario». Sotto l’habitus, di un sepolcro imbiancato, c’è spesso una
mummia poco faraonica. Su una parete del palazzo in cui abita Paolo, una
vetrata a pianterreno che dà sull’esterno, domina una foto di Edison recante
una sua massima: «Il tempo è
l’unico vero capitale che un essere umano ha, e l’unico che non può permettersi
di perdere». L’intraprendente inventore americano rievoca Taylor e Ford delle
distopie di Zamjatin e Huxley (“Noi” e “Brave New World”, due romanzi cui ho
dedicato altri due saggi2). Il cosmo distopico di “Monitor” proclama
la sua etica del successo che capitalizza l’estensione temporale prosciugando l’essenza
intensiva umana. L’uomo ridotto a essere-nel-tempo assurge ad aspirante
impiegato che desidera svuotarsi, reificarsi, diventare un tubo vuoto
attraverso cui passa il soffio dell’illusione beatificante. Da questa anonima
confortevole aurea mediocritas Paolo ed Elisa riescono a trovare un temporaneo
rifugio.
1 http://www.scribd.com/doc/258151081/Il-Medioevo-futuro-di-George-Orwell