di
DANILO CARUSO
La
mia lettura del romanzo “Fontamara” dell’autore Ignazio Silone (1900-1978) mi
prospettò dopo i primi due capitoli un che di aristofanesco (“Le donne
all’assemblea”) e un altro quid di manzoniano (“Promessi sposi”). Dopo la
lettura del cap. III le mie impressioni manzoniane non scomparvero, anzi trovarono
un nuovo spunto. Questo è un capitolo dedicato in particolare al personaggio di
Berardo, il quale è concettualmente imparentato con Renzo: entrambi hanno una
vocazione agli spropositi e a mettersi in modo ingenuo in cattive acque. C’è
poi l’impedito matrimonio con la candida Elvira, trasposizione di Lucia.
Compare un sacerdote di paese organico al sistema di potere politico; si noti
la paronomasia: Don Abbacchio / Don Abbondio. Non manca neanche la
figura-simbolo dell’ingiustizia: il nuovo podestà (eco formale di Don Rodrigo).
Appare altresì l’esempio archetipico del “vecchio saggio”: Zompa = Fra
Cristoforo. Lo stesso fatto che il romanzo di Silone sia incentrato sugli
umili, costituisce altra ulteriore tangenza tematica, al di là di quelle rinvenute
nell’architettura dinamica narrativa. Letto il IV cap. di “Fontamara”, mi si pose
con maggiore intensità un quesito: perché ridurre la materia descritta al
livello del grottesco? La prima metà del romanzo suscita a distanza di molto
tempo dalla pubblicazione (1933) simile sensazione, di certo non voluta né
prevista da Silone. Il problema è ermeneutico. L’intenzione dell’autore si
richiama a un ideale di giustizia universale, oppure il suo è un romanzo
politico? Ed eventualmente che nesso esisterebbe tra il condizionamento
ideologico e il suddetto effetto? I temi affrontati in “Fontamara” sono molto
seri, ed è chiaro che l’apparenza di scene comiche produca una percezione
distorta. In quale misura tale aspetto potrebbe rappresentare un limite nella redazione
dell’autore? Noi leggiamo “I promessi sposi”, testo ancor più vecchio, senza
inciampare in atmosfere da commedia antica degli equivoci. Mi chiedo se Silone
sia rimasto vittima di impetuosità intellettuale. Puntualizzo, a scanso di
essere frainteso, la mia parziale simpatia per Marx, ma per il Marx destruens
(quello critico-analitico), e il mio distacco dal Marx costruens (quello
politico-rivoluzionario). In sostanza il dilemma è: Ignazio Silone è critico o
politico? Nella seconda metà del romanzo l’ardua sentenza. Il cap. V di
“Fontamara” richiede un’attenta e obiettiva valutazione storica. Si descrive
uno stupro di gruppo compiuto da militanti fascisti. L’atto, in sé e per sé, è
gravissimo, ed è ovvio che sia oggetto della massima condanna (in qualsiasi
forma di considerazione o da qualsiasi punto di vista lo si esamini). Non si
possono mai assolvere stupratori, qualunque sia la loro veste. Quello che mi ha
colpito, nell’ambito letterario dell’opera, è la non probabilità storica
dell’accaduto. È l’unico caso di cui so di stupratori fascisti: siamo in Italia
dopo i Patti lateranensi (il fascismo si era già affermato e non c’erano più
disordini), neanche a proposito dell’epoca dello squadrismo postbellico ho
letto notizie simili (e quello sarebbe stato un periodo che avrebbe avuto più
credito). L’argomento è delicato, e non nego la possibilità di una realtà in
qualche posto dei fatti criminali narrati, tuttavia d’altro verso questi
Fontamaresi, alla maniera descritta da Silone, fanno pure la figura di deficienti
totali (il che non mi piace, poiché non realistico), unici in Italia, a non
saper dire: evviva Mussolini (o il duce). Tale comunità raffigurata non ha
tratti sempre obiettivi, e scade spesso nel grottesco. Poi con un improvviso
volo pindarico Silone, come sparando un colpo di fucile, introduce la tragica
(e comunque spiacevolissima) scena dello stupro. Siano perseguitati e
condannati severamente tutti gli stupratori, però collegarli a una categoria
politica in simile guisa mi sembra un artificio di pura propaganda politica.
Inoltre Silone descrive prima una stranezza poco decente: «In un angolo della
piazzetta alcuni ragazzi e bambine giocavano allo sceriffo: lo sceriffo non può
andare a piedi, deve andare a cavallo, e a turno ogni bambina faceva da
cavallo». È credibile che in una comunità all’antica gli adulti stessero là a
guardare, senza intervenire, e mettere nel ruolo di cavalli altri ragazzi? Un
interessante documentario della RAI1 parla dell’ambigua e oscura
personalità di Ignazio Silone. Costui fu spia della polizia sabauda ancor prima
dell’avvento del fascismo, marxista espulso dal PCI, paziente di Jung.
“Fontamara” trae la sua origine in un periodo di crisi profonda seguita alla
morte del fratello (condannato al confino) a causa di malattia. I contenuti del
documentario, condotto da Giovanni Minoli, sono da collegare alle mie analisi
pregresse, le quali vi trovano un forte sostegno. Il disagio esistenziale di
Ignazio Silone rappresenta la chiave di lettura della sua opera letteraria e della
sua personalità. Non mi pare il caso di muovere rimproveri alla sua
contraddittoria vita, segnata nella prima metà da pesanti esperienze di
famiglia. La scomparsa del fratello, in particolare, fu una detonazione
psichica che lo gettò fuori di un contatto ordinato con la realtà. Da comunista
e collaboratore della polizia italiana, divenne poi – sempre contemporaneamente
– anticomunista e antifascista (e in seguito pure collaboratore della CIA).
Beneficato da Don Orione in passato, in “Fontamara” si trovano posizioni
alquanto anticlericali. Il testo in questione più che “romanzo storico” mi pare
“romanzo psicologico”: l’autore più che fare giustizia per mezzo della
letteratura crea le basi letterarie di quello stesso farsi giustizia. È
indubbio che i fatti di “Fontamara” costituiscano obiettive possibili
gravissime ingiustizie di quell’Italia, tuttavia da è da chiedersi se la
produzione di Silone, da “Fontamara” in poi, avrebbe avuto luogo senza quegli
spiacevolissimi vissuti di gioventù. Lo scrittore finì in cura da Jung; la cosa
sembra essere giovata nel progresso di un suo recupero dalla personale crisi.
Un recupero che purtroppo non fu mai completo: la mancanza di un orizzonte di
risanamento ideale si nota sempre nelle sue parole. Silone rappresenta quindi
uno scrittore da comprendere comunque nella sua soggettività, e da giudicare in
relazione a connotazioni biografiche e storiche obiettive: in tale maniera
potremmo apprezzare il suo anelito di giustizia davanti ai soprusi e alle
violenze. Forse, in fondo al suo animo giaceva un triste “cupio dissolvi”, la
porta al cui accesso egli ha lasciato un po’ socchiusa al lettore che avesse
voluto sino in fondo inoltrarsi nelle radici narrative della sua opera. Alla conclusione
della lettura di “Fontamara”, non potei fare a meno di notare nuove anomalie in
quel tessuto narrativo, il quale pur rimanendo possibile, assume tratti
surrealistici e anche contraddittori. Silone racconta: «I militi erano venuti a
Fontamara e avevano oltraggiato varie donne; questa era stata una prepotenza
odiosa, però in sé assai comprensibile. Ma l’avevano fatta in nome della legge
e alla presenza d’un commissario di polizia, e questo non era comprensibile.
[…] I cosiddetti fascisti, a varie riprese, come si udiva raccontare, avevano
bastonato, ferito e anche ucciso persone contro le quali la giustizia non aveva
nulla da dire e solo perché davano noia all’Impresario, e questo poteva anche
sembrare naturale. Ma i feritori e gli assassini erano stati premiati dalle
autorità, e questo era inspiegabile». Cosa c’è di comprensibile in uno stupro?
Rimango sconcertato di fronte a un simile ragionamento prospettato nella prima
metà del brano. Che di fatto poi fosse accaduto quanto descritto in tale
sezione, con le modalità esposte nel romanzo, pare improbabile: gli squadristi
furono violenti come i rivoluzionari marxisti; distrussero, uccisero, nella
prima metà degli anni ’20, ma poi la situazione si normalizzò. Uno stupro, se
non documentato nei fatti, quale quello evocato nell’opera di Silone, davanti a
un rappresentante delle forze dell’ordine, all’epoca dei Patti lateranensi e
nel periodo in cui lo Stato fascista aveva compiuto una memorabile azione
contro la criminalità in Sicilia grazie al prefetto Mori, lo giudicherei un
episodio letterario da non generalizzare. E con tale punto di vista valuto
altresì la seconda sezione del suddetto brano: fatti di violenza possibili,
però anacronistici nella loro collocazione narrativa. Più avanti nel romanzo
dice il suo autore: «Per strada trovammo Baldovino Sciarappa che maltrattava ad
alta voce sua moglie, cui addossava ogni colpa per la rovina della casa; e la
povera donna lo supplicava di tacere e di rinviare la discussione, i
rimproveri, le battiture a più tardi nell’intimità della famiglia […]. […] Americo
parlava di Elvira, non certo per dirne male, ma, insomma, ne parlava. Berardo
gentilmente, come se si ricordasse di un affare da regolare, chiamò Americo
dietro la cantina, nell’orto; e poco dopo lo ricondusse dentro che gli
sanguinavano un orecchio e la bocca». Baldovino e Berardo usano violenza fisica
inaccettabile, tuttavia non sono membri del PNF, né tanto meno Silone condanna
la loro condotta: perché tali eccezioni? Inoltre, cosa che mi ha lasciato
alquanto perplesso, i Fontamaresi ambirebbero a compiere un attentato
terroristico (naturalmente da disapprovare) ai danni del podestà usurpatore:
ciò che mi ha disorientato non è tanto l’atto in sé, qui comprensibile
nell’ambito storico e letterario, ma la sua causa. È il problema dell’acqua a
provocare un simile desiderio, non lo stupro: questo gravissimo passaggio, che
griderebbe vendetta, finisce nell’oblio (quasi a testimoniare la sua scarsa
credibilità in quelle vistose forme). Silone in detti particolari non mostra
molto rispetto nei confronti delle donne, e identica condotta mantiene agli
occhi dell’obiettività storica. Condivisibile lo spirito di quanto segue: «Le
sedi delle banche erano l’una più grandiosa dell’altra, e alcune avevano delle
cupole, come le chiese. Attorno a esse vi era un gran vivaio di personaggi e di
automobili. Berardo non si stancava di ammirare. “Ma hanno la cupola” io
obiettavo “forse sono chiese.” “Sì, ma con un altro Dio” rispondeva Berardo
ridendo. “ll vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra, il Denaro. E
comanda su tutti, anche sui preti come don Abbacchio, che a parole predicano il
Dio del cielo. La nostra rovina” aggiungeva Berardo “forse è stata di aver
continuato a credere al vecchio Dio, mentre sulla terra adesso ne regna uno
nuovo”». L’autore di “Fontamara” accantona molta storia reale nel suo racconto.
Il governo fascista, tra l’altro, fece approvare leggi bancarie per
rimediare a situazioni le quali avevano portato a grossi scandali nel periodo
umbertino. E poi riguardo alla burocrazia italiana: non era paragonabile a
quella sovietica nei termini espressi da Trotzkij, perseguitato da Stalin, la
cui URSS non sembra(va) preferibile al fascismo italiano. Lo sterminio degli
Ucraini all’inizio degli anni ’30, voluto da Stalin, è reale (con milioni di
morti per inedia): “Fontamara” rappresenta un romanzo contro le ingiustizie,
tuttavia più che apparire testo storico si presenta quale opera distopica. Lo
accolgo in simili vesti, accostandolo a “Il tallone di ferro”2: il
fascismo in Italia ebbe larghi e grandi tratti negativi, ma dimenticare le
violenze rivoluzionarie in Russia, lo stalinismo, e che questi fenomeni erano
il contraltare della situazione maturata in Italia, significa guardare alla
storia con un occhio solo, chiudendosi alla seria comprensione d’insieme degli
avvenimenti storici3. Nel suicidio di Teofilo, il sacrestano di
Fontamara, si cela forse il proprio simbolico olocausto da parte di Silone:
tale episodio evoca a mio avviso una giustizia espiatoria in relazione ai
benefici ricevuti dallo scrittore tramite il contatto con Don Orione. Che il
romanzo di Silone sia una costruzione letteraria di profonda ascendenza
soggettiva lo testimonia oltre alla già ricordata influenza de “I promessi
sposi”, il seguente brano: «Una sera, di fronte alla nostra locanda, trovammo
un grande attruppamento di persone. Un traino militare aveva perduto una ruota
e si era rovesciato su un fianco, contro un muro, e varie persone si sforzavano
inutilmente di rimetterlo in piedi facendo più rumore che sforzo, come spesso
si usa in città. Berardo si fece avanti, si tolse la giacca e il cappello, si
chinò sotto il carro, si mise in ginocchioni sotto il carro, e con la schiena,
lentamente, sollevò il carro dalla parte con la quale toccava terra e lo resse
finché il conducente non rimise a posto la ruota tra l’ammirazione dei
presenti». Comprendiamo che Silone ha letto “I miserabili”, e dunque quale
genere di mattonelle rivestivano la stanza del suo Io. Il suddetto brano è
molto incidentale nel narrato, però molto significativo al fine di cogliere
sfaccettature psicologiche nella complessa personalità dello scrittore. Ciò che
succede nel finale di “Fontamara” sa di inconcepibile se generalizzato sullo
sfondo della realtà quotidiana di allora, per tanti motivi. La polizia arresta
per caso due ignoranti fontamaresi, sospettandoli di essere sovversivi
divulgatori di stampa clandestina. Berardo perde il lume della ragione, dopo la
morte di Elvira prende ex abrupto una singolare coscienza politica, e confessa
falsamente di essere il propagandista ricercato. Silone offre al lettore un
cattivissimo esempio di istigazione a un inutile martirio. Non dimentichiamo
che lui collaborò per un decennio con le forze dell’ordine italiane, iniziando
prima dell’insediamento di Mussolini al governo. Tale ideale
romantico-decadente emendamento letterario, alla luce del suo comportamento
globale, non lo assolve dalle personali responsabilità: dov’era stato nella
realtà il suo eroismo? Al di là di tutto questo, rappresentante una possibilità
narrativa (un genere però da me non gradito, giacché si carica di sinistre
connotazioni), noto altresì il fatto che lo scrittore faccia morire Elvira in
maniera gratuita e illogica. Quanto si legge alla fine di questo libro
esaminato si avvicina a “Noi” di Zamjatin4. Se “Noi” costituisce un
racconto distopico sull’URSS, “Fontamara” oscilla fra il grottesco (comico e
tragico) e il distopico (in relazione alla realtà italiana, portandola lontano
da un realismo obiettivo). A onor del vero, e non della demonizzazione
indifferenziata di alcunché, debbo però aggiungere che, se da un lato non venne
ucciso direttamente e subito neanche Gramsci in carcere, esistono documentati
particolari casi di reali abusi e violenze da parte di funzionari ed esponenti
del regime fascista: tra di essi voglio ricordare la spiacevolissima vicenda di
Benito Albino, figlio di Ida Dalser e Mussolini (è stato realizzato un film
sull’argomento). Quando si parla di storia ci vuole serietà, studio, abbandono
di spiriti faziosi. E dunque credibilità in quello che si dice. Come si può
ritenere verosimile che la poverissima gente di un paesino qualsiasi,
all’improvviso, si metta a fare un giornalino, e che venga perciò per giunta
presa a schioppettate? Questa messa in scena sembra propaganda politica,
non storia… L’Italia liberale, sparò sulla popolazione, con Bava Beccaris… La politica
socioeconomica del fascismo (del quale non si vogliono affatto trascurare i
pesanti lati negativi) non fu antiproletaria: i provvedimenti assunti negli
anni lo testimoniano (la riforma agraria del 1940 ad esempio). Il realismo
letterario del fascista Pirandello (nel ’34 Nobel per la letteratura) non ha il
corredo di ombre siloniano, e quello che i partigiani fecero col cadavere di
Claretta Petacci (uccisa in circostanze poco chiare) nemmeno Silone è arrivato
a immaginarlo e proporlo in “Fontamara”. I partigiani assassinarono pure il
filosofo Giovanni Gentile, ma i fascisti non avevano ammazzato il dissidente
liberale Benedetto Croce (lasciandolo anzi nel Senato del Regno, il quale era
di nomina regia).
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
1
La
storia siamo noi – Il caso Silone
2
A
questo romanzo londoniano ho destinato parte di un mia monografia: Socialismo e finzione letteraria in
Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017).
3 Per uno spunto
d’approfondimento suggerisco un mio scritto: Mussolini, il fascismo e la borghesia contenuto nel mio saggio Note di critica (2017).
4 A quest’altro
romanzo distopico russo ho dedicato un saggio: L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015).