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venerdì 16 novembre 2018

IL NON UMANO E IL DISTOPICO NE “LA METAMORFOSI” KAFKIANA

di DANILO CARUSO

Franz Kafka (1883-1924) è uno degli scrittori più noti vissuti nel ’900. La sua esistenza, stroncata da una tubercolosi, fu segnata dall’infelice legame col padre (che era un commerciante). Ebbe pure instabili relazioni amorose. L’aggettivo “kafkiano” è rimasto, consolidatosi non solo nel linguaggio critico letterario, a indicare atmosfere di inquietudine prodotta da dimensioni surreali, di ansia derivante da contorto complesso di colpevolezza. Fra le opere dello scrittore praghese, notissima è “La metamorfosi” (pubblicata nel 1916). Il racconto di Kafka ruota tutto attorno al tema del disagio, la cui paradossale messa in scena stigmatizza quelle che sono le conseguenti eventuali sgradite percezioni al suo proposito. Nella particolare vicenda, personale e familiare, di Gregorio Samsa si possono rintracciare due piani del “sentirsi scarafaggio” (e quattro punti di vista specifici). Un primo piano è quello soggettivo: quello legato a chi patisce le difficoltà. Un secondo, quello oggettivo: relativo cioè alla considerazione esteriore di chi contempla una situazione di disagio. Nella narrazione kafkiana un aspetto saliente ha la radice biografica, la quale comporta un approccio psicologico nei confronti di Gregorio. Costui è il riflesso letterario di Franz, così come si vedeva collocato nella sua famiglia: all’ombra di un padre “patriarca-nevrosi (freudiana)”, proiezione di una dispotica figura (al pari del Dio veterotestamentario). Non è un caso che il racconto esordisca parlando di risveglio da incubi, per poi immergersi in un narrato da incubo. Il “sentirsi scarafaggio” è soprattutto l’autopercezione dell’autore all’interno del suo novero familiare. La morte causata da inedia (anoressia) di Gregorio attira ancora una volta l’attenzione sulla vita dello scrittore. 
A simile percorso ermeneutico soggettivo in chiave psicologica si accompagna, su tale area, un’altra possibilità di lettura filosofica richiamante la “caverna platonica”. La nuova anomala allegorica condizione del protagonista letterario e della sua abitazione rievocano immagini del mito descritto da Platone: Gregorio è posto in una condizione leopardiana di disincanto delle illusioni fenomeniche. Il suo simbolico “essere-non-umano-per-il-mondo” costituisce un’uscita da esso, un’uscita dalla grotta del fenomenico. Non per niente la sua stanza personale, via via subirà la privazione dei connotati convenzionali a beneficio del resto dell’alloggio (luogo simbolico di quel mondo da cui, “illuminato”, viene rifiutato e scacciato). Egli coglie il “senso della vita” attraverso una radicale negatività (una sorta di negativo razionale hegeliano, o noluntas schopenhaueriana). Alla fine sarà bandito dall’appartenenza all’umanità, e dunque la sua perdita ritenuta più un guadagno che una sofferenza. Alcuni tratti finali del racconto evocano in maniera distopica il tema dell’eutanasia, in quella forma di eliminazione dei disabili elaborata dai princίpi nazisti. Tal argomento offre la sponda al piano oggettivo in quest’analisi ermeneutica: l’essere percepito come non umano ha un teatro di osservazione negli altri. Se, come diceva Sartre, la persona si reifica al cospetto di un’altra coscienza, nessun inferno è peggiore di quello prospettato dalla caduta di un soggetto con impedimenti in balia della considerazione di persone insensibili, loro veramente inumane (come nel caso dei familiari di Gregorio, i quali si adoperano a favore della sua ghettizzazione alla volta di una “soluzione finale”: la stanza di Gregorio è altresì junghiana prefigurazione delle camere a gas naziste). Al livello della “visione medica” succede quello “sociale”, sopra lo spazio della reificazione e della riduzione ad animale. L’appartenenza ebraica di Kafka, indubbiamente, col suo secolare retaggio di persecuzioni ed emarginazioni, pesò nelle sue riflessioni sul porsi in società. Una società nella quale però l’attivismo ebraico paterno nell’attività lavorativa (causa del distacco dal figlio) offre la chiave di una lettura politica de “La metamorfosi”. Il sistema socioproduttivo capitalista tratta i suoi componenti alla stregua di bestie, ingranaggi della produzione del consumo, e cerca di sopprimere in un modo o nell’altro chi non è adeguato ai suoi fini. Molto maltusiana la scomparsa di Gregorio: divenuto inabile e inutile all’apparato, finisce soppresso a causa di motivazioni nascoste sotto il tappeto della spregevole ipocrisia. Viene abbandonato al posto di essere accudito giacché la sua presenza e il suo essere costituiscono costante deviazione da un ideale di vita edonistico. Esistono testimonianze che indicano simpatie di Franz Kafka verso posizioni politiche anarchiche. 
“L’ansia” (Edvard Munch)
Nel pensiero kafkiano la vita è intravista dietro una forte coloritura distopica. Predomina l’idea di un’irrazionale oppressione, la quale disvela una sua mancata natura di equilibrio. Le immagini kafkiane emergono a guisa di incubi dall’inconscio (personale o collettivo), e lasciano al lettore la prosecuzione sulla via della junghiana maturazione archetipica. Le narrazioni dello scrittore praghese, sotto tale profilo, costituiscono “miti negativi”. Mentre il “distopico” possiede una interiore ratio, il “kafkiano” rappresenta un distopico privato di questa (è riflesso del magma libidico secondo la concezione di Jung). Dunque il “kafkiano” (reale, non letterario) può scaturire nella coscienza individuale da nevrosi promosse da complessi che hanno riferimenti presso una realtà circostante non ordinata e perciò disagiante. Dal canto suo anche il “distopico” è frutto di nevrosi, però quest’ultima attecchisce sul campo di una pseudorazionalità (si costruisce indebitamente con i mattoni del Logos).


NOTA

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Letture critiche (2019)”
http://www.academia.edu/38543884/Letture_critiche