di DANILO CARUSO
“A birthday present” e “Full
fathom five” sono due liriche di Sylvia Plath, le cui analisi ho estratto,
riportandole, dal secondo dei miei due saggi di critica plathiana: 1) “Sylvia
Plath e l’utopia dell’essere”, 2) “Sulla poesia di Sylvia Plath”.
Tali lavori sono costruiti su
un progetto analitico di matrice junghiana (che rigetta alternative vie d’esame
d’ispirazione freudiana e gravesiana); mirato a restituire alla poetessa
bostoniana la sua autenticità interiore ed espressiva, dove l’archetipo della
Grande Madre, la dialettica “anima/animus”, il “processo d’individuazione” e il
concetto di “ombra” giocano ruoli centrali. La “luna plathiana” ad esempio è un
simbolo archetipico che non va impastato col concetto di “Dea bianca”; e più in
generale la produzione della musa di Boston è non frutto di nevrosi, ma il
contrario (ossia via e strumento di elaborazione e soluzione del di lei
disagio).
Judith Kroll cerca di spersonalizzare
la poesia di Sylvia Plath, di svuotarla della sua sostanza confessionale,
vanificando questa a beneficio di schemi interpretativi che non riflettono più
la matrice poetica plathiana. I vantaggi di una simile analisi consolidano la
difesa della posizione di Hughes e dell’ambiente critico-letterario inglese
filoeliotiano. Alfred Alvarez ha patrocinato un’impostazione interpretativa
della poesia plathiana minimalista che inquadra il suicidio della poetessa a
guisa di qualcosa di scontato nell’ambito della di lei personalità, la quale a
suo avviso sarebbe stata animata da una vocazione negativa. Una presunta
vocazione della Plath che la Kroll fa rivolgere alla scrittrice in maniera
nichilistica su tutto. Siffatta corrente critica ha il suo capostipite in Ted
Hughes, attaccato a ragion veduta (assieme ad Alvarez e altri) da Robin Morgan
in “Arraignment”.
In “A birthday present”
(lirica plathiana del 30 settembre ’62) ciò che si trova al di là del velo ha
un presumibile aspetto femminile, nel modo in cui lascia intuire il v. 2.
Questa personificazione fa una sorta di preludio di un’evangelica annunciazione
nei vv. 5-10, che sono più un’autoironica parodia esternata da Sylvia.
L’occasione del suo trentesimo
compleanno, dopo la rottura matrimoniale, non è circondata da un’atmosfera
felice, e questo è reso palese dai vv. 13-15. Ciò nonostante la sua evoluzione
psichica marciava alla volta della junghiana individuazione del Sé. Dal v. 20
l’ente oltre il velo e il soggetto cui Sylvia si rivolge appaiono distinti. A
costui lei chiede in dono tale cosa (vv. 21-23). C’è un quid splendente
attraverso un velo traslucido (vv. 16-19) rivelantesi in sé ingannevole: la sua
tensione non è vitale («dead breath») e la sua apparenza di autenticità («as
babies’ bedding») non è reale (ovverosia, non ha nobiltà ontologica), è
illusione («O ivory!»). Il velo tramuta la visione del dono ambito in un
fantasma (v. 19).
I simboli del velo e dell’avorio sono le chiavi concettuali che aprono la porta del
significato di “A birthday present”. L’avorio richiama l’antica e mitologica
“porta d’avorio”. Ne parlano Omero nell’“Odissea” e Virgilio nell’“Eneide”. Si
tratta di una delle due immaginarie sorgenti dei sogni: dalla porta d’avorio provengono i sogni
ingannevoli, dalla porta di corno quelli
veritieri. Così spiega Penelope al termine del libero XIX dell’“Odissea” al non
riconosciuto Ulisse. A proposito del rapporto tra Ulisse e la Plath è doveroso
ricordare il tema dell’esilio personale affrontato da lei in “The decline of
oracles”, una materia che qui viene ripresa.
Le analogie con l’eroe omerico
sono allargate, oltre a ciò, con connotazioni di dettaglio particolareggiate:
in quel libro dell’“Odissea” Ulisse viene riconosciuto dalla serva Euriclea
grazie alla sua cicatrice sulla gamba, e pure Sylvia aveva una cicatrice
(ricordata al v. 6), anche se sul volto, procurata nella cantina di casa a
Boston (conseguenza del tentato suicidio del ’53); lei a una gamba aveva subito
una frattura in un incidente con gli sci. È dunque chiaro il suo identificarsi
con le sventure dell’esule di Itaca: la zanna («tusk») del v. 19 potrebbe
alludere anche a quella del cinghiale che ferì il giovane Ulisse lasciandogli
il segno della cicatrice mediante la quale sarà scoperto nel suo anonimato al
ritorno in patria. Nel libro VI dell’“Eneide” al protagonista, pure lui esule,
durante la traversata degli Inferi si presenta un olmo infernale su cui si
depositano «Somnia vulgo / vana» (vv. 283-284): i sogni che più avanti (vv.
893-896) il di lui padre Anchise, defunto e meta di quel viaggio eccezionale,
dirà passare dalla porta d’avorio, mentre quelli veraci, come detto escono
dalla porta «cornea».
Quella d’avorio, dice Anchise
al figlio, è «nitens»: una qualità che l’autrice di Boston più volte rileva nel
suo desiderato, dai contorni indefiniti, oggetto di desiderio (vv. 2, 11, 16,
24, 25). Non va trascurato lo strano dettaglio virgiliano, di fine libro in cui
Anchise fa ritornare nel mondo dei vivi Enea e la sua accompagnatrice Sibilla
cumana (Deifobe) facendoli passare dalla porta «eburna».
Rilevante inoltre la
spiegazione del padre dell’eroe troiano di una teoria della metempsicosi di
stampo platonico. “Elm” si intitola una significativa lirica plathiana. Sebbene
venga facile indulgere a riguardo di “A birthday present” verso un paragone con
Amleto dialogante con l’anima del defunto genitore ucciso, sono del parere che
questa via non sia corretta, e che la presenza di spunti e suggestioni
shakespeariani sia da individuare all’interno di “The tempest” (una commedia al
posto di una tragedia).
Al riferimento a
“un’annunciazione” nel v. 9 ne segue uno a “un’ultima cena” nel v. 26, e il
tono anche qui rimane sottilmente scanzonato. Sylvia si è dichiarata pronta a
ricevere ciò che desidera e che si manifesta in maniera nebulosa, ma che il suo
interlocutore sembra restio a darle (vv. 20-23) il velo che lei ha dinanzi è
quello di Maya: il velo dell’illusione prodotta dal mondo fenomenico, di cui
parla Arthur Schopenhauer in “Die welt als wille und vorstellung”1.
La realtà empirica è per lui un sogno un po’ più prolungato, da prendere con le
pinze. Schopenhauer si rifà nella sua riflessione all’antico pensiero religioso
indiano, tuttavia non manca nel primo libro della sua maggiore opera citata di
addurre altre testimonianze occidentali a sostegno della sua tesi.
Quest’immagine del sogno è da più parti riferita all’universo fenomenico, ed
egli considera le note parole di Prospero nella prima scena del IV atto di “The
tempest” particolarmente espressive e raffinate a questo merito. Pertanto
questo motivo del sogno (realtà / velo di Maya) traduce il significato
concettuale che incarna “A birthday present”.
La predilezione plathiana nei
riguardi di questa commedia shakespeariana mi offre il modo di chiudere il
cerchio concettuale portato alla luce riguardante la tematica del sogno. Da non
dimenticare è la già accennata dimensione dell’esilio (Enea, Ulisse, Prospero):
il mondo respingeva Sylvia perché superiore alla aurea mediocritas, e quindi pericolosa (piano socio-ontologico). A
questo suo sentirsi emarginata si aggiungeva anche la percezione di un confino
geografico oltre che spirituale (in Inghilterra, lontana da una Boston terrestre non molto simpatica, la
quale avrebbe voluto rendere una Boston
celeste: rifiutò infatti dopo la separazione matrimoniale la prospettiva di
ritornare subito in America). Il “velo di Maya” di “A birthday present” è anche
il “velo di Iside” poiché quest’altra metafora rappresenta lo stesso concetto
(naturalmente in contesti storici e religiosi diversi, e con sfumature di
speculazione differenti). Iside rappresenta la realtà naturale contrapposta
alla sfera spirituale più autentica della prima. Iside è la Grande madre, è la
personificazione del corrispettivo archetipo junghiano.
A lei è collegata l’immagine
lunare, simbolo centrale nella poetica plathiana. Ella in particolare può
assumere connotazioni sia positive che negative, e quindi si rivela Grande
madre junghiana nel senso completo (quello visto quando ho analizzato “Three
woman”): la sua dialettica interna “positivo/negativo” è la gamma esistenziale
umana. Sylvia Plath nella lirica in esame si rivolge a lei, alla Grande madre
(in veste junghiana ovviamente), chiedendo che si possa concludere il processo
(o cammino) di individuazione del Sé: è questo il senso qui
dell’attraversamento della porta eburnea (si veda Enea); oltre l’ipocrita velo
del mondo il quale la circonda (e l’ipocrisia è pratica oltre che ontologica)
si occulta ciò che è verità e dà armonia (il Sé). Nei vv. 27-30 la Grande madre
si mostra nella sua qualità negativa: in particolare il v. 30 rievoca con forza
un’imago gorgonica su uno scudo. La poetessa americana rinfaccia a Medusa
(Grande madre negativa) la di lei preoccupazione di essere sopraffatta e
rovesciata nel governo della storia umana. A questo punto la lettura dei versi
successivi di questa poesia risulta chiara. Sylvia vorrebbe quell’«it» anche a
costo di starsene quieta perché avverte il mondo in forma oppressiva.
Nei vv. 44-47 rivolge una
domanda leopardiana a “Medusa / natura matrigna”: «... O macchina calcolatrice
[colei che mette in atto forme di meccanicismo; n.d.r.] – / È impossibile per
te lasciare andare qualcosa e ciò abbia un andare completo [autonomo, libero;
n.d.r.]? ... Devi uccidere ciò che puoi?». Ambisce al risanamento interiore
della sua psiche (processo d’individuazione), un obiettivo maturante nel cuore
della sua lirica (vv. 48-51): «Respira dai miei fogli, il freddo centro morto /
dove vite disarcionate si congelano e si irrigidiscono davanti alla storia».
Sylvia anela a passare la porta
dell’individuazione senza tanto ritardo (vv. 51-55). Non c’è nella Plath
una vocazione alla morte; è nel mondo, nella Grande madre negativa la vocazione
a farne olocausto.
La morte è sì la rottura
definitiva (ontologica) del velo di
Maya/Iside, però allorché la scrittrice dice di essa in relazione a sé
dobbiamo intendere un senso lato, metaforico, retorico, del concetto: tutto
questo lievito di pensieri in “A birthday present” troverà un approdo in
“Edge”. Cosicché quando si parla di suicidio al v. 15 o di morte nei vv. 56-57,
ella sta dicendo qualcosa che è da comprendere nell’ottica illustrata, che
inquadra e illumina lo stato di sconforto della poetessa a vantaggio di una
migliore lettura del suo animo. Lei non ammira «death» in quanto radicale
conclusione-di-tutto, ma in quanto via mirante a oltrepassare il fenomenico
(«its timeless eyes»): fuori-del-tempo è quel frutto che lei vuol cogliere.
È questo il regalo di
compleanno di cui discute. Il coltello del v. 60 è rivolto al velo, non verso
Sylvia. E inoltre nel conclusivo v. 62 non c’è allusione a Gesù crocifisso: il
movimento descritto scorre all’esterno: l’universo (fenomenico) si distacca,
non fuoriesce. Il coltello separa, non provoca fuoruscita. La Plath aveva compreso,
secondo un insegnamento di Jung, che ci sono problemi i quali non è possibile
risolvere dal loro interno. E la realtà empirica è la
madre-di-tutti-i-problemi. Pertanto al fine di una risoluzione si scopre
necessaria un’uscita da quelle torbide acque e il porsi al di sopra di esse, in
un punto di più quieta osservazione. Tale l’orizzonte offerto da “A birthday
present”.
Sylvia non vuole
morire-per-farla-finita, vuole in termini poetici morire-per-rinascere (si veda
“Lady Lazarus”). Nei suoi casi reali di (tentato/effettivo) suicidio la poesia
ha invaso la realtà in maniera inopportuna, spinta dal disagio che quest’ultima
provoca nella poetessa: ci troviamo di fronte a quelle circostanze un
meccanismo misterioso il quale ha funzionato, ai nostri occhi, non bene.
Comunque non è stata la poesia a voler male l’autrice bostoniana, anzi il
contrario: era un suo strumento di crescita, recupero e salvezza (come ho
spiegato nei miei saggi).
“Full fathom five” è una
poesia plathiana dell’inizio del ’58: a quell’epoca, e ai mesi passati, risale
la particolare prassi di Sylvia di trarre spunto da opere pittoriche (di Henri
Rousseau, Klee e De Chirico) nella redazione di alcuni suoi componimenti. Il
caso della lirica in esame non offre un filo diretto con Frida Kahlo ma i suoi
contenuti, mi presentano l’occasione di un appropriato accostamento con un
dipinto kahloista: “Lo que el agua me dio”, datato 1938.
A prescindere dalla
dichiarazione che la Plath fa nel suo diario l’11 maggio ’58 riguardo all’acqua
in funzione di metafora dell’inconscio, mi era già parso chiaro questo
orizzonte di significazione poiché trattando di Frida Kahlo avevo rilevato il
valore di questo simbolo attraverso il confronto del suo quadro testé
menzionato e di una mia poesia.
Pertanto il fatto che l’acqua
sia l’immagine dell’inconscio, inteso da me nell’accezione junghiana, dà la
chiave di lettura precisa sia dell’opera kahloista (in cui si notano vari
complessi della psiche affiorati a galla nella vasca da bagno dove si trova la pittrice
messicana) sia di questo componimento plathiano. E a proposito di vasca da
bagno voglio ricordare quanto affermai in merito a tale rappresentazione in
relazione a Esther Greenwood in “The bell jar”: essa è il grembo della Grande
madre positiva dove rifugiarsi al riparo del mondo (che Frida Kahlo contempla
nel suo dipinto con quiete, di fronte ai propri complessi junghiani).
La situazione nella Plath è
più movimentata e inquieta; però il suo esplicito richiamarsi all’Ariel
shakespeariano2, ossia a quello che ho spiegato essere il suo animus junghiano positivo, dimostra una
capacità di trattazione del complesso paterno. Infatti nel diario, nel giorno
citato sopra, la scrittrice di Boston parlava di un complesso non nocivo grazie
alla figura del marito (in quelle modalità, esposte da me, durante la fase non
traumatica del suo matrimonio con Ted Hughes).
Tale complesso paterno
plathiano riaffiora allorché il livello di guardia interiore è basso (vv. 1-4),
e il di esso potere di condizionamento poi è diffuso (vv. 4-11). «L’antico mito
delle origini / inimmaginabile...» fa pensare alla cosmogonia egizia dove dal
disordine delle acque, costituente la Grande madre poi identificata con Iside,
viene fuori il mondo al di qua del velo isiaco.
Queste acque del mito hanno
una duplice valenza semantica: una psicologica junghiana (e si riferiscono
all’inconscio collettivo), e una ontologica (che allude alla cosmogonia e
all’antica sapienza accennate). Il complesso paterno di Sylvia si manifesta
alla sua coscienza a guisa di un iceberg provenuto da una zona oscura (della
psiche), e quindi non si mostra rassicurante, anzi minaccioso (vv. 11-16).
Nonostante ciò – in quella fase esistenziale in cui la poetessa bostoniana
scrisse “Full fathom five” – tenendolo d’occhio e trattandolo con adeguatezza
ella riesce a disinnescare il di esso meccanismo eversivo nei confronti del suo
equilibrio interiore (vv. 16-20): «l’alba/albedo alchemico-junghiana (dawn)»
risolve il «groviglio (ravel)» affettivo negativo di questa struttura psichica.
Il ricordo della morte del padre da parte di Sylvia è evanescente, e il
ripresentarsi del suo complesso alla di lei mente in modo intenso ne mette in
dubbio la scomparsa (vv. 21-24). Lo sgradevole mostrarsi di siffatto complesso
va a scontrarsi con la vita del mondo empirico (vv. 25-26), la quale si
proietta a sua volta sull’inconscio (vv. 27-29). Quest’urto, nella sua
impetuosa dinamica, può far crollare agli occhi della scrittrice americana il
confine tra mondo fenomenico e metasensibile (vv. 29-32). Il v. 33 è molto
dantesco: «waist dawn [(dalla) cintola in giù; n.d.r.]» ha uno speculare «da la
cintola in sù» nel v. 33 del X canto dell’“Inferno” (qui si dice del fiero
eretico Farinata degli Uberti, paragonabile a Otto Plath; il personaggio della
“Divina Commedia” ha pure in veste di contraltare Cavalcante dei Cavalcanti, un
padre ammiratore del figlio poeta Guido, mentre “Farinata / Otto Plath” ha
avuto solo viva passione verso i personali interessi); «you may wind [tu hai il
potere di avvolgere; n.d.r.]», il resto del v. 33, ricorda invece il v. 6 del V
canto dell’“Inferno” (Minosse «giudica e manda secondo ch’avvinghia»).
Minaccioso e misterioso, il
complesso paterno, vuole al pari di Minosse a Dante, a Sylvia «impedir lo suo
fatale andare» nel processo di individuazione del Sé (vv. 33-38). Le «domande
(questions)», che questa sfida e a cui resiste, sono relative al libero
passaggio rivendicato dalla poetessa, e lo stesso atteggiamento esso mostra nei
riguardi de «l’altra divinità [goodhood
indica condizione divina, non personificazione; n.d.r.]» la quale è costituita
dal resto dell’inconscio e che è la Grande madre. Per questo motivo Sylvia si è
sentita emarginata in uno stato di disagio (vv. 41-42), prodotto da
quell’inquietante complesso (v. 43).
Lo «shelled bed
[letteralmente: letto a forma di conchiglia; n.d.r.]» è la bara di Otto Plath,
la «pesante aria omicida» del v. 44 localizza la dimensione fenomenica
quotidiana dell’esistenza in cui, e a causa di cui, l’autrice vive il suo
malessere. L’acqua che vorrebbe respirare
non è indicativa di una volontà suicida, l’acqua ci rinvia al piano della
Grande madre: la Plath vuol dire che desidera superare l’ostacolo allo scopo di
introdursi in un livello superiore di crescita, alla volta del proprio junghiano
Sé. Quest’acqua è come il liquido amniotico in relazione al feto nella fase di
gestazione prenatale, quel grembo è quello della Grande madre: è un luogo dove
nessuno muore, soffre, separato-dal-mondo-sensibile.
I due complessi condizionanti
la vita della Plath sono quello materno e quello paterno. Dalla dialettica fra
di loro, e dal confronto con essa della poetessa scaturisce l’insieme magmatico
che ha pervaso la sua anima. Nelle annotazioni del diario, all’11 maggio ’58,
Sylvia parla pure di un padre (il suo)
che muore e risorge in Ted Hughes. Ho chiarito nelle mie menzionate
monografie queste dinamiche junghiane “anima (plathiana) / animus”.
Qui voglio puntualizzare che
il complesso paterno in lei ha cercato di scacciare la Grande madre negativa,
senza riuscirci di per sé: se la Plath è riuscita in seguito a raggiungere una
maturità di controllo e gestione psichica personale più alta, sarà perché avrà
posto sui due complessi (negativi) la sua mano ferma, e non perché uno dei due
ha prevalso sull’altro presentandosi vincitore agli occhi di lei. In ultima
istanza è la scrittrice di Boston a sottometterli, raggiungendo il Sé.
Nel periodo in cui elabora
“Full fathom five” il complesso paterno mira a cancellare e assorbire la Grande
madre, a sembrare esso il “creatore”, il Dio: ed ecco un altro lato, sempre non
freudiano, di quell’essere di Sylvia figlia-di-Dio. Questo tentato colpo di
mano del complesso del padre assume connotazioni maschilistiche bibliche, e
mitologiche egizie.
Il padre è un Osiride
usurpante la Grande madre. Egli appare un «sea-father Neptune», un Dio che
risorge dalla morte (imitando in ciò Cristo), ricomparente nelle vesti di
Hughes. La Grande madre tuttavia non scompare, è Iside, è colei che la poetessa
vorrebbe assurgere a essere: una Grande madre, la quale, se in virtù del suo
statuto è superiore, qui si trova in posizione di subordine. La cosa è
complicata: se lei dà a Ted il ruolo di un compagno in una coppia divina,
Hughes, definito «mate (compagno, aiuto, assistente)» sembra scadere all’inizio
al livello di un equivalente di Eva (prodotta dall’androgino Adamo, mediante
scissione, al fine di essergli di sostegno).
Quando la Grande madre
riprende il sopravvento, lei si trova a disagio disorientata (paragonabile alla
Maddalena al sepolcro di Gesù), poiché è la faccia negativa a mostrarsele. La
Plath cade nella depressiva dimensione dell’olocausto, e si definisce Ebrea
(vittima). In “Full fathom five” è però ancora il complesso paterno a spingerla
contro la Grande madre: il primo vorrebbe distruggere questa del tutto, ma
l’autrice americana si renderà conto che ciò non è né lecito né possibile.
Comunque qui ha voglia di raggiungere quello spazio che «dalla sabbia
onnipresente del dolore e dalla monotona abitudine meccanica [brano dal diario
citato; n.d.r.]» tira fuori qualcosa di positivo
(«pearls sea-changed»: perle menzionate da Sylvia nel diario e anche da Ariel
come visto).
La dialettica junghiana
“anima/animus” in Sylvia Plath si caratterizza nei panni di una dialettica tra il
complesso materno e quello paterno, i quali cercano di prendere il sopravvento
l’uno sull’altro e sulla poetessa. Tutte queste dinamiche interiori sono state
materia trattata nelle mie opere precedenti di critica letteraria.
Questo schema offre una mappa
sinottica del mio impianto analitico e dei suoi risultati: la cosa che si nota,
non solo attraverso di esso, è che l’elaborazione plathiana in “Full fathom
five” e nei testi che richiama per analogie tematiche, ha ancora un piede nella
sfera negativa. Sembrerebbe paradossale dirlo, ma, sulla base di quanto mi è
dato osservare, il venir meno di Ted Hughes presso la Plath sarà la causa di
una sua notevolissima crescita in quanto la mancata alimentazione del circuito
(su illustrato) farà spegnere la vis negativa dei due complessi. Non più
immersa nell’“ipocrisia matrimoniale” sarà libera di raggiungere il Sé
junghiano, lasciandosi alle spalle i due mostri
della psiche: cosicché la Grande madre si rivelerà positiva e lei potrà
riflettervisi (si veda “Edge”).
Nel cammino esistenziale di
Sylvia il suo complesso paterno grava sopra la sua relazione col proprio animus
(su cui quello si innerva a guisa di un vampiro),
mentre l’altro complesso materno opera a un livello superiore a quello della
junghiana individuazione del Sé. I due complessi sono in competizione fra loro
nel campo psichico plathiano in vista del predominio, però il primo avrà la
peggio nei confronti del secondo e di Sylvia (si veda ad esempio “Daddy”). La
poetessa riuscirà all’ultimo a prevalere anche sull’ostilità del complesso
materno nel completamento della sua parabola formativa.
1 Nel mio primo saggio ho messo in evidenza l’asse:
Schopenhauer / Böcklin / De Chirico / Plath.
2 “The tempest”, atto I scena II: «A una decina di metri
[full fathom five: alla lettera, a ben cinque braccia; n.d.r.] tuo padre giace;
le sue ossa sono trasformate in corallo; / ciò che erano i suoi occhi sono
quelle perle; / niente di lui si dilegua / ma subisce un mutamento marino [sea-change;
n.d.r.] / in qualcosa di ricco e strano».