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In
materia di psicologia sono d’indirizzo junghiano, e mi sono interessato delle
riflessioni dello studioso svizzero a proposito dell’astrologia e dei tarocchi.
Mi chiedevo come una persona di scienza così raffinata e così profonda quale
Jung potesse dargli credito. Privo di spirito pregiudiziale, dunque ho
approfondito la prima branca, portando comunque con me una certa iniziale
diffidenza dovuta a quella mentalità scientifica d’ispirazione matematica che
noi abbiamo. Dato il fatto che avevo condotto delle trattazioni critiche
letterarie su Sylvia Plath di matrice junghiana, volli studiare il tema natale
della celeberrima scrittrice (una cosa che si ottiene osservando la
configurazione astrale nel momento della nascita). Naturalmente Jung non
sostiene che il destino sia scritto nelle stelle; dobbiamo immaginare il mondo,
in cui ogni essere vivente entra, come un sistema di assi cartesiani
tridimensionale: conoscendo la posizione di quell’ingresso, noi possiamo
stabilire gli elementi circostanti che possono condizionare il soggetto
entrato. In un simile modo Jung spiegava che esiste un meccanismo di
corrispondenze tra fattori e posizioni astrali. Il mio stupore raggiunse una
sensazione di sconcerto nel notare che quel tema natale esaminato in maniera
generica portava a delle formulazioni perfettamente inerenti alla vita della
Plath (nelle spiegazioni generiche che lessi su alcuni manuali per quelle
situazioni astrali di lei, si trovava anche un riferimento esplicito al
suicidio). A causa di ciò puntualizzo che non farò mai l’esame di un tema
natale di una persona vivente (non mi è parso un gioco né una cosa tanto
bella). Spiegherò meglio la difficile obiettività dell’astrologia, e dunque
come Jung non avvalorasse qualcosa di fantasioso. L’elaborazione del tema
natale (l’oroscopo del giorno di nascita, indicativo di tutta la vita) richiede
dei dati precisi: le coordinate geografiche del luogo natio, l’ora e la data di
nascita. Ciò perché è importante conoscere con esattezza il punto d’ingresso
nel mondo fenomenico, e di conseguenza poter avere la corrispondente immagine
del cielo da quel punto di vista in quel determinato momento. Faccio un esempio
concreto. L’ammiraglio Henry Maston Mullinnix e lo scenografo Russell Gausman sono
nati entrambi il 4 luglio 1892, ma uno a Spencer, l’altro a Saint Louis (città
statunitensi vicine). Il che comporta configurazioni astrali (le quali sono una
proiezione simbolica di valori non là residenti) leggermente differenti, anche
se molto simili. Neanche se fossero nati nello stesso posto, allo stesso
momento, la cosa comporterebbe un destino (lo sfondo esistenziale delle
prospettive di vita) analogo nella sostanza. Nessuno nasce contemporaneamente a
un altro nel medesimo punto (i gemelli escono uno dopo l’altro). Ognuno perciò
è differenziato, e generalmente i teatri di vita sono diversi (come visto nel
caso dell’ammiraglio e dello scenografo). Persone che hanno un tema natale
simile, hanno attribuito soltanto un canovaccio esistenziale: sarà
l’interazione tra il soggetto e il suo ambiente a svilupparlo in una maniera
unica. Ciascuno rimane libero di poter scegliere quei “futuri contingenti” che
a lui si offrono. Quindi non tutti i nati nel medesimo luogo all’identica ora
avranno un destino o una vita, nella sostanza, uguali. È pertanto estremamente
difficile per qualcuno inesperto, di scarsa intuizione, redigere un oroscopo: è
un’operazione quasi impossibile elaborare delle previsioni azzeccate. Io credo
che ciò sia fattibile solo da esperti in possesso di una forte natura
intuitiva. La capacità di entrare in contatto con l’inconscio collettivo, in
generale, deriva da una delle quattro facoltà umane: l’intuizione (le altre,
per Jung, sono la ragione, il sentimento, la percezione). Tale capacità è molto
potenziale nelle donne (mi viene in mente la lewisiana Jane Studdock): si pensi
al sacerdozio femminile antico, alle pizie, alla ierodulia. L’alterazione dello
stato di normale percezione può proiettare
al di là del mondo fenomenico. A posteriori non risulta complicato ricavare un
quadro chiaro dal tema natale. Però non serve a niente, se non altro a
dimostrare la validità operativa e scientifica (conoscitiva) dell’astrologia.
Penso allora che la migliore cosa da farsi sia seguire il consiglio di Orazio a
Leuconoe, e non curarsi degli oroscopi, i quali potrebbero trasformarsi in una
mania nevrotica o in un passatempo di cui non si è compresa la natura. In
passato medicina e astrologia andavano a braccetto, in funzione di una migliore
prevenzione sanitaria. Le corti europee abbondavano di tali figure di medici
astrologi. Gli stessi Magi (maghi) evangelici sono degli astrologi, e la
nascita di Cristo descritta ha una notevole cornice astrologica. Questo per
dire dell’astrologia. Jung si occupò pure dei tarocchi (spiegandone una
validità in virtù dello stesso meccanismo di coincidenze). Tuttavia parlando
dei tarocchi chiarì che quelli di Marsiglia fossero quelli efficaci. I tarocchi
di Marsiglia appaiono molto junghiani sotto il profilo iconico (hanno richiami
archetipici). Nello studio delle possibilità di significato di tali simboli è
utilissima la psicologia analitica di Jung, il quale ha affrontato questo
aspetto di significazione (rapporto “archetipo – immagine simbolica”). E pure nel
caso dei tarocchi non si può prescindere dal suo concetto di “sincronicità”. La
collaborazione fra Jung e il fisico Pauli rappresenta una testimonianza che
argomenti simili possono essere affrontati con uno spirito scientifico
convenzionale, privo però di pregiudiziali. È possibile verificare a posteriori
le coincidenze tra simbolo o intuizione, da un lato, e realtà, dall’altro: la
verifica è il più classico dei metodi della scienza occidentale. Noi sappiamo
che nessuno si deve abbandonare alle credenze nella magia per fede, sarebbe
molto stupido: questa rimane un campo di studio sociopsicologico, e ritengo che
Jung abbia sostenuto cose sensate, non sempre comprese.
Aleksej Tolstoj (1883-1945) è
stato uno scrittore russo, autore, tra l’altro, del romanzo fantascientifico “Aelita
/ Il declino di Marte” (Aëlita nella sua lingua, scritto in cirillico,
si pronuncia “ίlida”). L’opera pubblicata la prima volta a puntate su un
periodico nel 1922-23, è giunta tardi in Italia: a quasi 60 anni dopo risale l’ingresso
nel nostro panorama culturale. Il nostro Tolstoj ebbe un’indole progressista, e
finì per aderire dal ’21 al corso sovietico. Gradito da Stalin, fu pure parlamentare
nazionale comunista (lui proveniva dalla nobiltà). “Aelita” è un romanzo il cui
testo definitivo scaturì da una rielaborazione compiuta dall’intellettuale
russo nel ’37. È un’opera aperta, nel senso che solleva svariati temi (di
natura politica, sociologica e psicologica), i quali però lascia sfilacciati
senza prospettare un telaio unitario. Questa è stata la volontà redazionale
dell’autore, purtroppo a mio avviso non molto condivisibile: forse la
difficoltà di cementare una profondità di ricchezze e di spunti (che si trovano
isolati e sviluppati qua e là da altri) ha assunto un facile predominio.
Vedremo via via aspetti di non secondaria importanza emergere e perdersi alla
deriva. L’orizzonte in cui il lettore può tuffarsi è molto vasto, e non
difficile per gli sprovveduti affogare. Credo che “Aelita” sia come quella
bella casa dove finestre e porte siano in balia sbattute da una forte corrente:
secondo il mio modesto parere, qualche apertura chiusa e socchiusa avrebbe dato
una fluidità superiore. Ma questo era lo spirito russo dell’epoca: il vento
della rivoluzione era vivo e dilagante. Il testo tolstoiano riflette quella
mancanza di conclusioni sostanziali della società della neonata URSS e dei suoi
migliori ingegni marxisti. Aleksej Tolstoj non prospetta un quadro idealistico
(utopico o distopico che sia), immerge il lettore in un’atmosfera decadente
della quale i suoi personaggi risentono e ne sono riflesso. Questo gusto
tragico è quello che chiude il di lui romanzo, distante nel narrare – ma non a
causa di ciò inferiore – dallo spirito di Bogdanov, London e Zamjatin1.
“Aelita” racconta di un viaggio interplanetario di andata e ritorno nei
confronti di Marte, pianeta prossimo alla Terra, sul quale due cosmonauti
attraversano delle significative esperienze. Lo scienziato Mstislav Sergievich
Los ha infatti costruito un’astronave che consente a lui e al suo
accompagnatore, il volontario Aleksej Ivanovich Gusev, di lasciare la
superficie terrestre. Los ha 35 anni e ha perso di recente la moglie Katia;
Gusev ne ha 25, è sposato, fa il soldato, ma è un irrequieto avventuriero. In
virtù della teoria della relatività (divenuta pratica nel romanzo) i due, agli
occhi di un osservatore terrestre, sono partiti da Pietrogrado (San Pietroburgo)
nell’estate del 1921 e ritornati in quella del ’25: il viaggio di andata è durato
quasi undici ore, pari a una ventina di giorni sulla Terra. I personaggi dei
due protagonisti maschili delineati da Tolstoj si prestano a un’interpretazione
simbolica di natura psicologica. Los e Gusev sono come i cavalli della biga
platonica del “Fedro”: il primo è un emotivo, il secondo un passionale.
“Aelita” è un’allegoria dell’anima umana, un’anima nella quale è possibile
rintracciare dinamiche junghiane. La biga di Platone che vola alla ricerca del
Bene, diventa un’astronave nel testo tolstoiano. E i due cosmonauti mettono in
scena due diverse modalità di relazionarsi con la controparte psichica sessuale
rispetto a un Io maschile: l’“anima” junghiana. Per Los essa è simboleggiata da
Aelita, la principale protagonista femminile; per Gusev, di pragmatiche vedute
marxiste sulla famiglia, dalla cuoca del loro alloggio marziano. La distanza
platonica di valore psicologico fra l’emotivo Los e il passionale Gusev si
rileva in tutta la sua dialettica nella diversità di propositi da attuarsi su
Marte da parte dei due. Gusev fin da subito vorrebbe sovietizzare il pianeta
con una rivoluzione rossa e al contempo ricavare un bottino per sé mirato
all’ottenimento di una stabilità familiare sulla Terra. Il vuoto interiore
dello scienziato vedovo è già palesato nei primi capitoli, il suo cammino sarà
profondo e travagliato, arricchito di esperienze il cui turbamento viene anticipato
da uno stato ansioso prima di partire. In un passaggio del racconto si domanda
cosa gli riserverà quel luogo ignoto. Paragona il suo logos a una piccola luce,
fievole e oscillante, a ridosso di un oscuro sublime burrone, nel fondo del
quale è disteso il corpo esanime dell’eros. E poi sottolinea che il nostro
pianeta rimane in balia del male e che non tarderà il giorno dove soccomberà
persino il logos, solo vincolo di sottomissione del mostro dentro l’uomo.
Questo brano intreccia concetti psicologici junghiani: l’“ombra”, la ragione,
la libido (personali e universali). Nel dare l’addio alla Madre Terra, Los,
ormai nello spazio, all’inizio del cap. VII saluta il pianeta come fosse una
Grande madre (altro concetto della psicologia analitica di Jung). E poco dopo
Tolstoj ci informa del forte stato d’ansia (quasi panico) affliggente lo
scienziato sull’astronave alla volta di Marte; una situazione interiore che richiama
molto quella dantesca nella selva oscura.
Aelita (il cui nome significa – nell’etimologia letteraria tolstoiana –
“ultima-visione-della-luce-stellare”) è figlia di Tuscub, il capo del consiglio
governativo al vertice della comunità marziana, la quale i due cosmonauti
troveranno al loro sbarco sull’abitato pianeta rosso. Lei e Los si
innamoreranno, e la donna aliena sarà per costui fonte di ricche informazioni.
Ella è una fanciulla marziana il cui colorito di pelle azzurro, il globo verde
nella sua mano (di cui al cap. XVIII), uniti al rosso di Marte rievocano delle
considerazioni junghiane da me formulate a proposito della bogdanoviana Netti
de “La stella rossa”2. Netti si trova sul pianeta rosso, e ha occhi
verdi e azzurri: si tratta di una serie di colori di cui Jung parla nel “Liber
novus” proseguendo la narrazione della simbolica, e rinnovatrice per la
coscienza individuale, uccisione di Sigfrido. Tale terna di colori è indicativa
di un approdo al cambiamento nei confronti dell’Io. In “Aelita” si trova questa
piccola cornice cromatica a circondare le vicende iniziali di uno
psicologicamente disorientato e svuotato Los, accostabile a un Dante guidato da
Beatrice. La protagonista del racconto tolstoiano «mostrasi sì piacente» (si
veda alla fine del cap. XVI), e rievocante la wellsiana Weena per via della sua
statura. In un mio studio su “The time machine” ho affrontato il tema della
compatibilità in relazione ai rapporti antropometrici3. In questo
nuovo caso posso dire che la statura media di un maschio Russo a inizio ’900
era intorno a m 1,67 (nel giro di un secolo è aumentata di una decina di
centimetri); mentre quella di una femmina era intorno a m 1,55 (la di lei
statura media, nell’analogo periodo posteriore, è salita a circa m 1,65).
L’Aelita di Tolstoj è alta più o meno m 1,40; noi possiamo immaginarla
oggigiorno avente un’altezza di un metro e mezzo. L’approdo su Marte
tratteggiato al principio del cap. IX assume colori e fasi di un ciclo
alchemico-junghiano in un’uscita dal disordine (simbolico oceano primordiale):
blu alchemico e rubedo. Una cosa che viene ribadita con forza alla fine del
medesimo capitolo. La parte di Marte dove lo scienziato e il suo accompagnatore
troveranno resti di una vecchia civiltà extraterrestre può sorprendere nella
sua descrizione a causa dell’analogia con le nostre arte e architettura.
Vediamo infatti cose che assomigliano alla maschera di Agamennone, alla
scultura greca arcaica, all’architettura romana, alla piramide precolombiana,
alla grande statua del Lincoln Memorial. La ragione di questa eco ce la fa
comprendere Aelita nei suoi due importanti discorsi a Los (capp. XX e XXIII). A
vantaggio di una generale chiarezza espositiva, in ossequio a un ordine
cronologico, è bene però partire dal secondo, per gran parte meno attinente al
suddetto aspetto evidenziato. Tale esposizione riguarda una ricostruzione della
storia della civiltà terrestre (incentrata su Atlantide), una rivisitazione che
offre diversi spunti in una direzione interpretativa di impronta filosofica e
psicologica. Aelita di fatto parla di un’originaria dicotomia tra una forma di
idealismo panlogistico hegeliano e l’animismo, sintetizzatasi nella modalità
della teocrazia solare. Quindi accenna a un successivo modello dicotomico: lo
scontro “occidentale (maschile) / orientale (femminile)”. Il processo storico
di fusione e amalgama di differenti razze riguardante Atlantide e le sue fasi
temporali, durante le quali essa si scontra e si associa con vari popoli (alla
volta di nuovi equilibri sociali ed etnici), rammenta il cammino di
elaborazione di un archetipo junghiano: la meta è l’equilibrio. Il “logos” è
alla base della civiltà atlantidea e tende a mantenere sotto l’egida di una
sana razionalità. Questa viene simboleggiata dall’“età dell’oro”. Dopo la
quale, tuttavia, un’estremizzazione idealistica scinde l’equilibrio. Nelle
parole di Aelita rinveniamo elementi del pensiero di Schopenhauer contrapposti
a Fichte e Hegel: la libido schopenhaueriana mira a una radicale noluntas mediante
lo sterminio dell’umanità. La perdita dell’equilibrio archetipico, che aveva
altresì comportato misoginia, conduce alla completa disgregazione archetipica.
Da qui scaturisce l’allegoria di un’emigrazione dalla Terra della libido (il
femminile) verso Marte (il maschile). Ora comprendiamo il perché di arte e
architettura marziane di ascendenza terrestre: sono il frutto di un portato
culturale migratorio presso altre genti. Questa teoria dell’emigrazione
interplanetaria, nella sua forma letterale assoluta, mi pare comunque un’ottima
intuizione scientifica4. Il primo discorso di Aelita prosegue la
logica evoluzione del suddetto secondo: a causa di tal motivo è stato opportuno
invertire l’ordine tolstoiano. Quest’altra serie di spiegazione affronta le
conseguenze di quell’emigrazione interplanetaria di terrestri su Marte in
seguito alla distruzione di Atlantide. Qui, sul pianeta rosso, si trovava già
una civiltà planetaria formata da due tribù in lotta inter se. La quale finisce
per essere sottomessa dai nuovi colonizzatori. I toni del racconto di Aelita
sono carichi di allusione a temi e figure della tradizione cristiana: compaiono
la figura del buon pastore, un richiamo agli «occhi di bragia» del Caronte
dantesco, contenuti apocalittici, un riferimento al ministero triennale di
Cristo, un’eco delle dieci piaghe. Le lunghe delucidazioni della giovane
aliena, degne di una Diotima, sono precedute alla fine del cap. XIX da un
significativo brano. Lei chiede allo scienziato un chiarimento sul concetto
terrestre di felicità, e lui risponde – nella sostanza – che questa risiede
nell’agápe e nell’eros. Tale citato brano non sottintende solo una figurazione
del rapporto “Io maschile / controparte psichica femminile (anima)”; dal punto
di vista di Aelita emerge anche il rapporto speculare e inverso: “Io femminile
/ animus”. Quando ella parla dei suoi sogni infantili, non fa altro che mettere
in scena immagini dell’inconscio collettivo, al quale peraltro fa un esplicito
riferimento. Inoltre, la scena del bagno di Aelita al principio del cap. XXII
ce la mostra con una latente ambizione all’individuazione junghiana (che per
una donna conduce a un adeguamento all’immagine di Madre Natura). La società
marziana dipinta da Tolstoj contiene germi narrativi meglio sviluppati da
Huxley: l’uso popolare di una droga assomiglia molto al consumo di soma
huxleyano; la premiazione a sorte di alcuni cittadini ricorda la
predestinazione capitalistica di cui il Brave New World tratteggia una forma
estrema5. Verso la fine del su citato capitolo il maestro di Aelita
si rivolge a lei, inquieta a causa dell’esperienza che sta vivendo, come se
fossimo in una distopia degna di una variante negativa della futura lewisiana
Jane Studdock6. Le dice di non agitarsi, di non essere irragionevole.
Le consiglia di guardare dentro il suo cuore. Le chiede quale sia la causa del
tuo turbamento, se dal profondo del suo sangue senta crescere l’impulso
ancestrale, se rosse tenebre l’avvincano, se percepisca il cieco desiderio di
perpetuare l’esistenza, se senta il suo sangue ribollire. L’eros terrestre,
infatti, turba l’inconsapevole giovane aliena. Come si apprenderà nel finale
del romanzo Aelita è una vergine consacrata, la sua condizione è paragonabile a
quella di una vestale. Il suo maestro cerca di dissuaderla dal perseguire la
via della libido e dell’individuazione, sembra proporle una heideggeriana
angoscia esistenziale in luogo di un ideale di sana felicità. Il romanzo
tolstoiano, nella sua ricchezza di sfaccettature, prelude anche al film
“Metropolis”7: la vita nell’agglomerato urbano marziano – Soazéra –
ripropone il clima dicotomico sociale di sfruttamento capitalistico. Nel seno
del supremo consiglio di governo troviamo un personaggio difensore dei
lavoratori, un po’ rievocante il primo Perón. Si tratta dell’ingegner Gor; e
peronista è quell’immagine di protesta davanti al palazzo del consiglio:
ricorda i descamisados davanti alla Casa Rosada dopo l’arresto del fondatore
del giustizialismo argentino nel ’45. La tensione sociale a Soazéra si rivela
elevata durante il soggiorno di Los e Gusev: di fronte a loro cresce
l’insurrezione di coloro privati del Brave New World. Una rivolta che loro
vivranno in pieno. Il rimedio reazionario escogitato da Tuscub consiste nella
distruzione delle zone residenziali operaie della città. Gor si mostra contrario.
Il sommo capo di Marte vorrebbe uccidere inoltre, accanto a buona parte della
popolazione, i due terrestri, presunti sostenitori dei disagiati e presunti
fautori di una loro liberazione. Gor spera in quest’ultima cosa, e de facto
Gusev si darà da fare nel guidare i Marziani insorti. Los invece rimarrà
perlopiù circoscritto negli stati d’animo scaturenti dalla sua vicenda amorosa
con Aelita. Egli attraversa il disagio di un modello esistenziale di vita
terrestre imperniato sulla scissione fra libido e ragione. Così chiariscono le
sue parole al compagno di viaggio nel cap. XXVI, parole echeggianti temi
discussi da Schopenhauer (la cieca perpetuazione della vita, l’amore quale
trappola della Natura). Aelita non è da meno in materia di turbamento: nel cap.
XXVII, in compagnia dello scienziato affettuoso, vive un’esperienza estatica.
Nel cap. XXVIII si sposano in segreto, come Giulietta e Romeo. E molto
shakespeariano è l’immediato posteriore monito della giovane extraterrestre al
novello consorte di ricordare che la realtà è un sogno, un’ombra, e che
soltanto nel posto dove si trovano, in prossimità del fuoco, egli rimarrà in
vita. Rammenta delle parole di Prospero. Il cap. XXXIII contiene qualche eco
che pare derivare dal verniano “Viaggio al centro della Terra”, la quale nella
versione tolstoiana possiamo palpare leggermente in “Perelandra” di Lewis.
Aelita si è rifiutata di assecondare la volontà omicida del genitore
proteggendo lo scienziato terrestre, rintracciata con il quale, tenterà assieme
a lui il suicidio: un’altra venatura tragica shakespeariana. Nella fase finale
del romanzo, su Marte, Gusev assurge a protagonista (simbolo della passione) di
una rivolta abbandonata al suo destino fallimentare dai due cosmonauti a
beneficio del salvifico ritorno sulla Terra. Aelita e Los rimangono separati
per sempre (a meno di un romanzo sequel di altro autore). Nel testo di Tolstoj
non è per niente chiara la sorte finale dell’aliena amata dallo scienziato.
Caduta nelle mani dei Marziani governativi, sembra destinata alla morte, a
causa della violazione del suo sacrale regime di castità. Ma in effetti un suo
messaggio audio intercettato da una stazione di studio terrestre, ascoltato da
Los (ormai ripresosi dall’avvelenamento), lascia tutto aperto. L’opera
tolstoiana si conclude con un’istantanea di costui, già disorientato di per sé
dopo il ritorno. Dall’esaminato romanzo di Tolstoj sono stati tratti un manga
jugoslavo (nella metà degli anni ’30) e alcune versioni sceneggiate. La più
nota di queste, il film russo del ’24, però non aderisce alla perfezione al
narrato tolstojano. Nel 1981 in URSS venne istituito un premio letterario
intitolato “Aelita” (destinato a scrittori di fantascienza), il quale è
sopravvissuto al crollo del regime sovietico.
Il video, riguardante il film del
1924, proviene da un collegamento con YouTube, dove l’ho trovato.
1 A questi autori ho dedicato delle opere:
“L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”, “Socialismo e finzione
letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”.
2 In “Un love affair alieno, il socialismo archetipico e
Aleksandr Bogdanov”, sezione di “Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr
Bogdanov e Jack London (2017)”.
4 A tal proposito suggerisco di leggere la mia
riflessione intitolata “Teoria sull’origine aliena dell’umanità”, contenuta
nella mia monografia “Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)”.
7 La pellicola, diretta da Lang, è parallela e
contemporanea all’omonimo romanzo della seconda moglie del regista austriaco
(la scrittrice e sceneggiatrice tedesca Thea von Harbou, autrice del soggetto di
“Metropolis”): entrambi furono terminati
nel 1926.
Antonia Pozzi, la cui famiglia era di
estrazione sociale borghese e nobiliare, nacque a Milano nel 1912, morì suicida
il 3 dicembre 1938. Sulla base di miei precedenti studi plathiani (si vedano i
miei due saggi “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”1), il parallelismo tra lei e l’autrice bostoniana offre non pochi spunti.
La tematica del legame fra la montagna e la Pozzi, ad esempio, alla luce – non
solo – della sua poesia “Le montagne”, richiama la mia attenzione ancora una
volta sul concetto archetipico junghiano di Grande Madre (il modello psichico
collettivo di ente creatore e reggitore della vita naturale). Si tratta di un
archetipo femminile che si concreta in simboli. Nella circostanza della Plath quest’insieme
di significati si concentra sull’immagine lunare, mentre in Antonia la sua
lirica testé ricordata fornisce un exemplum diverso. Sia la Grande Madre di
Sylvia che quella della Pozzi hanno un quid di roccioso (sterile), di interiore
contrasto il quale coinvolge le due poetesse. Per entrambe l’argomento della
maternità, in senso lato e stricto sensu, assume un peso decisivo. L’asperità,
che può connotare un negativo razionale hegeliano, colora la realtà con il
vuoto del positivo. Agli occhi della poetessa milanese le montagne «occupano
come immense donne la sera […]. Mute in grembo maturano figli all’assente».
Sottendono un arco alchemico-junghiano, ossia il tendere di un auspicato
movimento della coscienza individuale alla volta di una consapevolezza totale
dell’interiorità psichica, la quale da quell’altezza restituisca un equilibrio (che purtroppo è venuto a mancare
nella parabola esistenziale di Antonia Pozzi, soprattutto a causa del mondo a
lei circostante, il quale l’ha rigettata giacché esso incapace di comprendere e
integrare la sua sensibilità poetica “confessionale”, da lei elevata a “funzione
trascendente” junghiana, creatrice di poesia e dunque catartica nei riguardi di
un indotto disagio): «Madri. E s’erigon nella fronte, scostano / dai vasti
occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca un’aurora
/ e al brullo ventre fiorisca rosai». Il componimento ha estremi simbolici
junghiani: nigredo, «la sera»; rubedo, «un’aurora». Tra i cui colori –
nero e rosso – il testo registra la gamma intermedia di quel cammino della
psiche su citato che Jung denomina “processo di individuazione”. In un’epistola
del 1938, diretta all’amico poeta Tullio Gadenz, la poetessa ricordava la sua
esperienza alpina presso le Tre Cime di Lavaredo (Grande, alta quasi 3000 m;
Piccola e Piccolissima: un complesso sulle Dolomiti) in compagnia di un’altra
giovane donna patavina e di Emilio Comici. Nel gennaio del ’36 quell’ascesa
aveva rappresentato per Antonia Pozzi un evento molto intenso sotto il profilo
interiore. In particolare, lo scenario di quell’azione sulle Alpi fu il
versante nord di Lavaredo. La comitiva passò dal lato della Cima Piccola – la
cui sommità fu raggiunta dal compagno di quell’avventura, cui ella dedicò la
poesia “A Emilio Comici” (datata 16 gen. ’36) in memoria di quell’impresa –, e
trovò riparo nei rifugi denominati “Principe Umberto” e “Locatelli”. Nell’animo
della poetessa è rimasta impressa una sensazione del sublime la quale rammenta
la visione del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich.
In
Antonia Pozzi in luogo della nebbia, di un’imago, predomina il frutto della
dimensione uditiva. Un magmatico silenzio infatti occupa lo spazio inferiore
antistante. Lo slancio, di non esclusiva sostanza poetica, di Antonia scopre un
aggancio di ulteriore musicalità nelle nuvole soprastanti. Le sue epistolari
parole, che prima avevano accennato a un grande organo posto a metà fra l’elemento
ctonio e quello uranico, si spingono alla ricerca di una unità fisica panica. Lei
ambisce a soddisfare tale sua intima vocazione, la quale tuttavia rimane in uno
status d’incertezza. La sinfonia cosmica suona dentro di lei, al di fuori predomina
una sensazione di Natura leopardiana. Lavaredo con le sue cuspidi le appare
un’enorme chiesa del periodo artistico gotico, una cattedrale la quale, dopo
essere stata fulminata e squartata da un atto divino, diventa una base orante
immersa nello strazio pietrificato. L’andare oltre, in alto, costituisce
l’unica via di fuga. La poetessa non manca di ricordare pure come il pensiero
dei militari italiani caduti durante la Grande Guerra in quelle zone incida
sulle sue riflessioni, un pensiero che la sprona a salire vittoriosa su quella
vetta metafenomenica la quale le consegna un premio di liberazione quasi schopenhaueriano.
In occasione della visita alpina rievocata, Antonia Pozzi fece delle foto (la
fotografia era un’altra sua passione), a testimoniare che la sua capacità di
cogliere la vita (libido) non aveva soltanto uno sbocco lirico, letterario, ma
altresì iconico. Ecco il modo in cui le sue foto del caso scattate dal rifugio
“Principe Umberto” si ricollegano al paragone di sopra con il quadro del
romantico Friedrich. In esse la proiezione dell’infinito (il sublime
matematico), nella profondità del paesaggio delle Alpi, disvela un binario
parallelo a quegli elementi estetici pertinenti a quell’accostamento col “Viandante
sul mare di nebbia”. In dette due fotografie non compare figura umana. Alla
Natura fanno da contraltare alcuni strumenti alpini: una leopardiana dialettica
“Vesuvio/ginestra”. Di quelle spiritualmente ricche giornate sulle Dolomiti
sono testimoni quattro poesie pozziane composte a Misurina (vicina al monte
Sorapis), una frazione di Auronzo di Cadore (Comune bellunese posto ai piedi delle
Tre Cime), nel corso del gennaio del ’36: “Notte di festa”, datata giorno 6;
“Salita” e “Commiato”, 11; “Approdo”, 12. A esse si aggiungono la già citata “A
Emilio Comici” e “Rifugio” (del 19), di cui si ignora la sede di redazione.
“Notte di festa” è rivolta ai soldati alpini, delle altre vale la pena leggere
per intero l’emblematica “Salita” (da “Antonia Pozzi, Parole, Garzanti 2001”).
Questa
tua mano sulla roccia
fiorisce:
non
abbiamo paura del silenzio.
Immenso
grembo
la
valle spegne l'ansia
di
lontane valanghe,
fumo
lieve
sulle
pareti nere.
Si
accendon le tue dita sulla pietra
alte
afferrando
orli
di cielo bianco:
non
abbiamo paura del deserto.
Andiamo
verso il Sorapis:
così
soli
verso
l'aperto
altare
di cristallo.
Alla
scrittrice milanese è stato dedicato, fra l’altro, un film (“Antonia”, 2015),
dove alcune scene rappresentano un’arrampicata alpina della giovane poetessa, e
in cui incidentalmente viene menzionata la località di Lavaredo.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio
saggio “Note di critica (2017)”