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sabato 27 gennaio 2018

ASTROLOGIA E TAROCCHI NELLA VISIONE DI JUNG

di DANILO CARUSO

In materia di psicologia sono d’indirizzo junghiano, e mi sono interessato delle riflessioni dello studioso svizzero a proposito dell’astrologia e dei tarocchi. Mi chiedevo come una persona di scienza così raffinata e così profonda quale Jung potesse dargli credito. Privo di spirito pregiudiziale, dunque ho approfondito la prima branca, portando comunque con me una certa iniziale diffidenza dovuta a quella mentalità scientifica d’ispirazione matematica che noi abbiamo. Dato il fatto che avevo condotto delle trattazioni critiche letterarie su Sylvia Plath di matrice junghiana, volli studiare il tema natale della celeberrima scrittrice (una cosa che si ottiene osservando la configurazione astrale nel momento della nascita). Naturalmente Jung non sostiene che il destino sia scritto nelle stelle; dobbiamo immaginare il mondo, in cui ogni essere vivente entra, come un sistema di assi cartesiani tridimensionale: conoscendo la posizione di quell’ingresso, noi possiamo stabilire gli elementi circostanti che possono condizionare il soggetto entrato. In un simile modo Jung spiegava che esiste un meccanismo di corrispondenze tra fattori e posizioni astrali. Il mio stupore raggiunse una sensazione di sconcerto nel notare che quel tema natale esaminato in maniera generica portava a delle formulazioni perfettamente inerenti alla vita della Plath (nelle spiegazioni generiche che lessi su alcuni manuali per quelle situazioni astrali di lei, si trovava anche un riferimento esplicito al suicidio). A causa di ciò puntualizzo che non farò mai l’esame di un tema natale di una persona vivente (non mi è parso un gioco né una cosa tanto bella). Spiegherò meglio la difficile obiettività dell’astrologia, e dunque come Jung non avvalorasse qualcosa di fantasioso. L’elaborazione del tema natale (l’oroscopo del giorno di nascita, indicativo di tutta la vita) richiede dei dati precisi: le coordinate geografiche del luogo natio, l’ora e la data di nascita. Ciò perché è importante conoscere con esattezza il punto d’ingresso nel mondo fenomenico, e di conseguenza poter avere la corrispondente immagine del cielo da quel punto di vista in quel determinato momento. Faccio un esempio concreto. L’ammiraglio Henry Maston Mullinnix e lo scenografo Russell Gausman sono nati entrambi il 4 luglio 1892, ma uno a Spencer, l’altro a Saint Louis (città statunitensi vicine). Il che comporta configurazioni astrali (le quali sono una proiezione simbolica di valori non là residenti) leggermente differenti, anche se molto simili. Neanche se fossero nati nello stesso posto, allo stesso momento, la cosa comporterebbe un destino (lo sfondo esistenziale delle prospettive di vita) analogo nella sostanza. Nessuno nasce contemporaneamente a un altro nel medesimo punto (i gemelli escono uno dopo l’altro). Ognuno perciò è differenziato, e generalmente i teatri di vita sono diversi (come visto nel caso dell’ammiraglio e dello scenografo). Persone che hanno un tema natale simile, hanno attribuito soltanto un canovaccio esistenziale: sarà l’interazione tra il soggetto e il suo ambiente a svilupparlo in una maniera unica. Ciascuno rimane libero di poter scegliere quei “futuri contingenti” che a lui si offrono. Quindi non tutti i nati nel medesimo luogo all’identica ora avranno un destino o una vita, nella sostanza, uguali. È pertanto estremamente difficile per qualcuno inesperto, di scarsa intuizione, redigere un oroscopo: è un’operazione quasi impossibile elaborare delle previsioni azzeccate. Io credo che ciò sia fattibile solo da esperti in possesso di una forte natura intuitiva. La capacità di entrare in contatto con l’inconscio collettivo, in generale, deriva da una delle quattro facoltà umane: l’intuizione (le altre, per Jung, sono la ragione, il sentimento, la percezione). Tale capacità è molto potenziale nelle donne (mi viene in mente la lewisiana Jane Studdock): si pensi al sacerdozio femminile antico, alle pizie, alla ierodulia. L’alterazione dello stato di normale percezione può  proiettare al di là del mondo fenomenico. A posteriori non risulta complicato ricavare un quadro chiaro dal tema natale. Però non serve a niente, se non altro a dimostrare la validità operativa e scientifica (conoscitiva) dell’astrologia. Penso allora che la migliore cosa da farsi sia seguire il consiglio di Orazio a Leuconoe, e non curarsi degli oroscopi, i quali potrebbero trasformarsi in una mania nevrotica o in un passatempo di cui non si è compresa la natura. In passato medicina e astrologia andavano a braccetto, in funzione di una migliore prevenzione sanitaria. Le corti europee abbondavano di tali figure di medici astrologi. Gli stessi Magi (maghi) evangelici sono degli astrologi, e la nascita di Cristo descritta ha una notevole cornice astrologica. Questo per dire dell’astrologia. Jung si occupò pure dei tarocchi (spiegandone una validità in virtù dello stesso meccanismo di coincidenze). Tuttavia parlando dei tarocchi chiarì che quelli di Marsiglia fossero quelli efficaci. I tarocchi di Marsiglia appaiono molto junghiani sotto il profilo iconico (hanno richiami archetipici). Nello studio delle possibilità di significato di tali simboli è utilissima la psicologia analitica di Jung, il quale ha affrontato questo aspetto di significazione (rapporto “archetipo – immagine simbolica”). E pure nel caso dei tarocchi non si può prescindere dal suo concetto di “sincronicità”. La collaborazione fra Jung e il fisico Pauli rappresenta una testimonianza che argomenti simili possono essere affrontati con uno spirito scientifico convenzionale, privo però di pregiudiziali. È possibile verificare a posteriori le coincidenze tra simbolo o intuizione, da un lato, e realtà, dall’altro: la verifica è il più classico dei metodi della scienza occidentale. Noi sappiamo che nessuno si deve abbandonare alle credenze nella magia per fede, sarebbe molto stupido: questa rimane un campo di studio sociopsicologico, e ritengo che Jung abbia sostenuto cose sensate, non sempre comprese.


NOTA

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche

ALEKSEJ TOLSTOJ E LA VERGINE MARZIANA AELITA

di DANILO CARUSO

Aleksej Tolstoj (1883-1945) è stato uno scrittore russo, autore, tra l’altro, del romanzo fantascientifico “Aelita / Il declino di Marte” (Aëlita nella sua lingua, scritto in cirillico, si pronuncia “ίlida”). L’opera pubblicata la prima volta a puntate su un periodico nel 1922-23, è giunta tardi in Italia: a quasi 60 anni dopo risale l’ingresso nel nostro panorama culturale. Il nostro Tolstoj ebbe un’indole progressista, e finì per aderire dal ’21 al corso sovietico. Gradito da Stalin, fu pure parlamentare nazionale comunista (lui proveniva dalla nobiltà). “Aelita” è un romanzo il cui testo definitivo scaturì da una rielaborazione compiuta dall’intellettuale russo nel ’37. È un’opera aperta, nel senso che solleva svariati temi (di natura politica, sociologica e psicologica), i quali però lascia sfilacciati senza prospettare un telaio unitario. Questa è stata la volontà redazionale dell’autore, purtroppo a mio avviso non molto condivisibile: forse la difficoltà di cementare una profondità di ricchezze e di spunti (che si trovano isolati e sviluppati qua e là da altri) ha assunto un facile predominio. Vedremo via via aspetti di non secondaria importanza emergere e perdersi alla deriva. L’orizzonte in cui il lettore può tuffarsi è molto vasto, e non difficile per gli sprovveduti affogare. Credo che “Aelita” sia come quella bella casa dove finestre e porte siano in balia sbattute da una forte corrente: secondo il mio modesto parere, qualche apertura chiusa e socchiusa avrebbe dato una fluidità superiore. Ma questo era lo spirito russo dell’epoca: il vento della rivoluzione era vivo e dilagante. Il testo tolstoiano riflette quella mancanza di conclusioni sostanziali della società della neonata URSS e dei suoi migliori ingegni marxisti. Aleksej Tolstoj non prospetta un quadro idealistico (utopico o distopico che sia), immerge il lettore in un’atmosfera decadente della quale i suoi personaggi risentono e ne sono riflesso. Questo gusto tragico è quello che chiude il di lui romanzo, distante nel narrare – ma non a causa di ciò inferiore – dallo spirito di Bogdanov, London e Zamjatin1. “Aelita” racconta di un viaggio interplanetario di andata e ritorno nei confronti di Marte, pianeta prossimo alla Terra, sul quale due cosmonauti attraversano delle significative esperienze. Lo scienziato Mstislav Sergievich Los ha infatti costruito un’astronave che consente a lui e al suo accompagnatore, il volontario Aleksej Ivanovich Gusev, di lasciare la superficie terrestre. Los ha 35 anni e ha perso di recente la moglie Katia; Gusev ne ha 25, è sposato, fa il soldato, ma è un irrequieto avventuriero. In virtù della teoria della relatività (divenuta pratica nel romanzo) i due, agli occhi di un osservatore terrestre, sono partiti da Pietrogrado (San Pietroburgo) nell’estate del 1921 e ritornati in quella del ’25: il viaggio di andata è durato quasi undici ore, pari a una ventina di giorni sulla Terra. I personaggi dei due protagonisti maschili delineati da Tolstoj si prestano a un’interpretazione simbolica di natura psicologica. Los e Gusev sono come i cavalli della biga platonica del “Fedro”: il primo è un emotivo, il secondo un passionale. “Aelita” è un’allegoria dell’anima umana, un’anima nella quale è possibile rintracciare dinamiche junghiane. La biga di Platone che vola alla ricerca del Bene, diventa un’astronave nel testo tolstoiano. E i due cosmonauti mettono in scena due diverse modalità di relazionarsi con la controparte psichica sessuale rispetto a un Io maschile: l’“anima” junghiana. Per Los essa è simboleggiata da Aelita, la principale protagonista femminile; per Gusev, di pragmatiche vedute marxiste sulla famiglia, dalla cuoca del loro alloggio marziano. La distanza platonica di valore psicologico fra l’emotivo Los e il passionale Gusev si rileva in tutta la sua dialettica nella diversità di propositi da attuarsi su Marte da parte dei due. Gusev fin da subito vorrebbe sovietizzare il pianeta con una rivoluzione rossa e al contempo ricavare un bottino per sé mirato all’ottenimento di una stabilità familiare sulla Terra. Il vuoto interiore dello scienziato vedovo è già palesato nei primi capitoli, il suo cammino sarà profondo e travagliato, arricchito di esperienze il cui turbamento viene anticipato da uno stato ansioso prima di partire. In un passaggio del racconto si domanda cosa gli riserverà quel luogo ignoto. Paragona il suo logos a una piccola luce, fievole e oscillante, a ridosso di un oscuro sublime burrone, nel fondo del quale è disteso il corpo esanime dell’eros. E poi sottolinea che il nostro pianeta rimane in balia del male e che non tarderà il giorno dove soccomberà persino il logos, solo vincolo di sottomissione del mostro dentro l’uomo. Questo brano intreccia concetti psicologici junghiani: l’“ombra”, la ragione, la libido (personali e universali). Nel dare l’addio alla Madre Terra, Los, ormai nello spazio, all’inizio del cap. VII saluta il pianeta come fosse una Grande madre (altro concetto della psicologia analitica di Jung). E poco dopo Tolstoj ci informa del forte stato d’ansia (quasi panico) affliggente lo scienziato sull’astronave alla volta di Marte; una situazione interiore che richiama molto quella dantesca nella selva oscura. Aelita (il cui nome significa – nell’etimologia letteraria tolstoiana – “ultima-visione-della-luce-stellare”) è figlia di Tuscub, il capo del consiglio governativo al vertice della comunità marziana, la quale i due cosmonauti troveranno al loro sbarco sull’abitato pianeta rosso. Lei e Los si innamoreranno, e la donna aliena sarà per costui fonte di ricche informazioni. Ella è una fanciulla marziana il cui colorito di pelle azzurro, il globo verde nella sua mano (di cui al cap. XVIII), uniti al rosso di Marte rievocano delle considerazioni junghiane da me formulate a proposito della bogdanoviana Netti de “La stella rossa”2. Netti si trova sul pianeta rosso, e ha occhi verdi e azzurri: si tratta di una serie di colori di cui Jung parla nel “Liber novus” proseguendo la narrazione della simbolica, e rinnovatrice per la coscienza individuale, uccisione di Sigfrido. Tale terna di colori è indicativa di un approdo al cambiamento nei confronti dell’Io. In “Aelita” si trova questa piccola cornice cromatica a circondare le vicende iniziali di uno psicologicamente disorientato e svuotato Los, accostabile a un Dante guidato da Beatrice. La protagonista del racconto tolstoiano «mostrasi sì piacente» (si veda alla fine del cap. XVI), e rievocante la wellsiana Weena per via della sua statura. In un mio studio su “The time machine” ho affrontato il tema della compatibilità in relazione ai rapporti antropometrici3. In questo nuovo caso posso dire che la statura media di un maschio Russo a inizio ’900 era intorno a m 1,67 (nel giro di un secolo è aumentata di una decina di centimetri); mentre quella di una femmina era intorno a m 1,55 (la di lei statura media, nell’analogo periodo posteriore, è salita a circa m 1,65). L’Aelita di Tolstoj è alta più o meno m 1,40; noi possiamo immaginarla oggigiorno avente un’altezza di un metro e mezzo. L’approdo su Marte tratteggiato al principio del cap. IX assume colori e fasi di un ciclo alchemico-junghiano in un’uscita dal disordine (simbolico oceano primordiale): blu alchemico e rubedo. Una cosa che viene ribadita con forza alla fine del medesimo capitolo. La parte di Marte dove lo scienziato e il suo accompagnatore troveranno resti di una vecchia civiltà extraterrestre può sorprendere nella sua descrizione a causa dell’analogia con le nostre arte e architettura. Vediamo infatti cose che assomigliano alla maschera di Agamennone, alla scultura greca arcaica, all’architettura romana, alla piramide precolombiana, alla grande statua del Lincoln Memorial. La ragione di questa eco ce la fa comprendere Aelita nei suoi due importanti discorsi a Los (capp. XX e XXIII). A vantaggio di una generale chiarezza espositiva, in ossequio a un ordine cronologico, è bene però partire dal secondo, per gran parte meno attinente al suddetto aspetto evidenziato. Tale esposizione riguarda una ricostruzione della storia della civiltà terrestre (incentrata su Atlantide), una rivisitazione che offre diversi spunti in una direzione interpretativa di impronta filosofica e psicologica. Aelita di fatto parla di un’originaria dicotomia tra una forma di idealismo panlogistico hegeliano e l’animismo, sintetizzatasi nella modalità della teocrazia solare. Quindi accenna a un successivo modello dicotomico: lo scontro “occidentale (maschile) / orientale (femminile)”. Il processo storico di fusione e amalgama di differenti razze riguardante Atlantide e le sue fasi temporali, durante le quali essa si scontra e si associa con vari popoli (alla volta di nuovi equilibri sociali ed etnici), rammenta il cammino di elaborazione di un archetipo junghiano: la meta è l’equilibrio. Il “logos” è alla base della civiltà atlantidea e tende a mantenere sotto l’egida di una sana razionalità. Questa viene simboleggiata dall’“età dell’oro”. Dopo la quale, tuttavia, un’estremizzazione idealistica scinde l’equilibrio. Nelle parole di Aelita rinveniamo elementi del pensiero di Schopenhauer contrapposti a Fichte e Hegel: la libido schopenhaueriana mira a una radicale noluntas mediante lo sterminio dell’umanità. La perdita dell’equilibrio archetipico, che aveva altresì comportato misoginia, conduce alla completa disgregazione archetipica. Da qui scaturisce l’allegoria di un’emigrazione dalla Terra della libido (il femminile) verso Marte (il maschile). Ora comprendiamo il perché di arte e architettura marziane di ascendenza terrestre: sono il frutto di un portato culturale migratorio presso altre genti. Questa teoria dell’emigrazione interplanetaria, nella sua forma letterale assoluta, mi pare comunque un’ottima intuizione scientifica4. Il primo discorso di Aelita prosegue la logica evoluzione del suddetto secondo: a causa di tal motivo è stato opportuno invertire l’ordine tolstoiano. Quest’altra serie di spiegazione affronta le conseguenze di quell’emigrazione interplanetaria di terrestri su Marte in seguito alla distruzione di Atlantide. Qui, sul pianeta rosso, si trovava già una civiltà planetaria formata da due tribù in lotta inter se. La quale finisce per essere sottomessa dai nuovi colonizzatori. I toni del racconto di Aelita sono carichi di allusione a temi e figure della tradizione cristiana: compaiono la figura del buon pastore, un richiamo agli «occhi di bragia» del Caronte dantesco, contenuti apocalittici, un riferimento al ministero triennale di Cristo, un’eco delle dieci piaghe. Le lunghe delucidazioni della giovane aliena, degne di una Diotima, sono precedute alla fine del cap. XIX da un significativo brano. Lei chiede allo scienziato un chiarimento sul concetto terrestre di felicità, e lui risponde – nella sostanza – che questa risiede nell’agápe e nell’eros. Tale citato brano non sottintende solo una figurazione del rapporto “Io maschile / controparte psichica femminile (anima)”; dal punto di vista di Aelita emerge anche il rapporto speculare e inverso: “Io femminile / animus”. Quando ella parla dei suoi sogni infantili, non fa altro che mettere in scena immagini dell’inconscio collettivo, al quale peraltro fa un esplicito riferimento. Inoltre, la scena del bagno di Aelita al principio del cap. XXII ce la mostra con una latente ambizione all’individuazione junghiana (che per una donna conduce a un adeguamento all’immagine di Madre Natura). La società marziana dipinta da Tolstoj contiene germi narrativi meglio sviluppati da Huxley: l’uso popolare di una droga assomiglia molto al consumo di soma huxleyano; la premiazione a sorte di alcuni cittadini ricorda la predestinazione capitalistica di cui il Brave New World tratteggia una forma estrema5. Verso la fine del su citato capitolo il maestro di Aelita si rivolge a lei, inquieta a causa dell’esperienza che sta vivendo, come se fossimo in una distopia degna di una variante negativa della futura lewisiana Jane Studdock6. Le dice di non agitarsi, di non essere irragionevole. Le consiglia di guardare dentro il suo cuore. Le chiede quale sia la causa del tuo turbamento, se dal profondo del suo sangue senta crescere l’impulso ancestrale, se rosse tenebre l’avvincano, se percepisca il cieco desiderio di perpetuare l’esistenza, se senta il suo sangue ribollire. L’eros terrestre, infatti, turba l’inconsapevole giovane aliena. Come si apprenderà nel finale del romanzo Aelita è una vergine consacrata, la sua condizione è paragonabile a quella di una vestale. Il suo maestro cerca di dissuaderla dal perseguire la via della libido e dell’individuazione, sembra proporle una heideggeriana angoscia esistenziale in luogo di un ideale di sana felicità. Il romanzo tolstoiano, nella sua ricchezza di sfaccettature, prelude anche al film “Metropolis”7: la vita nell’agglomerato urbano marziano – Soazéra – ripropone il clima dicotomico sociale di sfruttamento capitalistico. Nel seno del supremo consiglio di governo troviamo un personaggio difensore dei lavoratori, un po’ rievocante il primo Perón. Si tratta dell’ingegner Gor; e peronista è quell’immagine di protesta davanti al palazzo del consiglio: ricorda i descamisados davanti alla Casa Rosada dopo l’arresto del fondatore del giustizialismo argentino nel ’45. La tensione sociale a Soazéra si rivela elevata durante il soggiorno di Los e Gusev: di fronte a loro cresce l’insurrezione di coloro privati del Brave New World. Una rivolta che loro vivranno in pieno. Il rimedio reazionario escogitato da Tuscub consiste nella distruzione delle zone residenziali operaie della città. Gor si mostra contrario. Il sommo capo di Marte vorrebbe uccidere inoltre, accanto a buona parte della popolazione, i due terrestri, presunti sostenitori dei disagiati e presunti fautori di una loro liberazione. Gor spera in quest’ultima cosa, e de facto Gusev si darà da fare nel guidare i Marziani insorti. Los invece rimarrà perlopiù circoscritto negli stati d’animo scaturenti dalla sua vicenda amorosa con Aelita. Egli attraversa il disagio di un modello esistenziale di vita terrestre imperniato sulla scissione fra libido e ragione. Così chiariscono le sue parole al compagno di viaggio nel cap. XXVI, parole echeggianti temi discussi da Schopenhauer (la cieca perpetuazione della vita, l’amore quale trappola della Natura). Aelita non è da meno in materia di turbamento: nel cap. XXVII, in compagnia dello scienziato affettuoso, vive un’esperienza estatica. Nel cap. XXVIII si sposano in segreto, come Giulietta e Romeo. E molto shakespeariano è l’immediato posteriore monito della giovane extraterrestre al novello consorte di ricordare che la realtà è un sogno, un’ombra, e che soltanto nel posto dove si trovano, in prossimità del fuoco, egli rimarrà in vita. Rammenta delle parole di Prospero. Il cap. XXXIII contiene qualche eco che pare derivare dal verniano “Viaggio al centro della Terra”, la quale nella versione tolstoiana possiamo palpare leggermente in “Perelandra” di Lewis. Aelita si è rifiutata di assecondare la volontà omicida del genitore proteggendo lo scienziato terrestre, rintracciata con il quale, tenterà assieme a lui il suicidio: un’altra venatura tragica shakespeariana. Nella fase finale del romanzo, su Marte, Gusev assurge a protagonista (simbolo della passione) di una rivolta abbandonata al suo destino fallimentare dai due cosmonauti a beneficio del salvifico ritorno sulla Terra. Aelita e Los rimangono separati per sempre (a meno di un romanzo sequel di altro autore). Nel testo di Tolstoj non è per niente chiara la sorte finale dell’aliena amata dallo scienziato. Caduta nelle mani dei Marziani governativi, sembra destinata alla morte, a causa della violazione del suo sacrale regime di castità. Ma in effetti un suo messaggio audio intercettato da una stazione di studio terrestre, ascoltato da Los (ormai ripresosi dall’avvelenamento), lascia tutto aperto. L’opera tolstoiana si conclude con un’istantanea di costui, già disorientato di per sé dopo il ritorno. Dall’esaminato romanzo di Tolstoj sono stati tratti un manga jugoslavo (nella metà degli anni ’30) e alcune versioni sceneggiate. La più nota di queste, il film russo del ’24, però non aderisce alla perfezione al narrato tolstojano. Nel 1981 in URSS venne istituito un premio letterario intitolato “Aelita” (destinato a scrittori di fantascienza), il quale è sopravvissuto al crollo del regime sovietico.





NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche
Il video, riguardante il film del 1924, proviene da un collegamento con YouTube, dove l’ho trovato.

1 A questi autori ho dedicato delle opere: “L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”, “Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”.

2 In “Un love affair alieno, il socialismo archetipico e Aleksandr Bogdanov”, sezione di “Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”.

3 Ne “La terribile distopia di H. G. Wells”, dentro il mio saggio “Critica letteraria (2017)”.

4 A tal proposito suggerisco di leggere la mia riflessione intitolata “Teoria sull’origine aliena dell’umanità”, contenuta nella mia monografia “Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)”.

5 Si veda la mia opera recante il titolo “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”.

6 Alla trilogia cosmica di Lewis ho dedicato un saggio: “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”.

7 La pellicola, diretta da Lang, è parallela e contemporanea all’omonimo romanzo della seconda moglie del regista austriaco (la scrittrice e sceneggiatrice tedesca Thea von Harbou, autrice del soggetto di “Metropolis”): entrambi furono terminati nel 1926.

lunedì 22 gennaio 2018

LA POETESSA ANTONIA POZZI SULLE DOLOMITI

di DANILO CARUSO

Antonia Pozzi, la cui famiglia era di estrazione sociale borghese e nobiliare, nacque a Milano nel 1912, morì suicida il 3 dicembre 1938. Sulla base di miei precedenti studi plathiani (si vedano i miei due saggi “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”1), il parallelismo tra lei e l’autrice bostoniana offre non pochi spunti. La tematica del legame fra la montagna e la Pozzi, ad esempio, alla luce – non solo – della sua poesia “Le montagne”, richiama la mia attenzione ancora una volta sul concetto archetipico junghiano di Grande Madre (il modello psichico collettivo di ente creatore e reggitore della vita naturale). Si tratta di un archetipo femminile che si concreta in simboli. Nella circostanza della Plath quest’insieme di significati si concentra sull’immagine lunare, mentre in Antonia la sua lirica testé ricordata fornisce un exemplum diverso. Sia la Grande Madre di Sylvia che quella della Pozzi hanno un quid di roccioso (sterile), di interiore contrasto il quale coinvolge le due poetesse. Per entrambe l’argomento della maternità, in senso lato e stricto sensu, assume un peso decisivo. L’asperità, che può connotare un negativo razionale hegeliano, colora la realtà con il vuoto del positivo. Agli occhi della poetessa milanese le montagne «occupano come immense donne la sera […]. Mute in grembo maturano figli all’assente». Sottendono un arco alchemico-junghiano, ossia il tendere di un auspicato movimento della coscienza individuale alla volta di una consapevolezza totale dell’interiorità psichica, la quale da quell’altezza restituisca un equilibrio (che purtroppo è venuto a mancare nella parabola esistenziale di Antonia Pozzi, soprattutto a causa del mondo a lei circostante, il quale l’ha rigettata giacché esso incapace di comprendere e integrare la sua sensibilità poetica “confessionale”, da lei elevata a “funzione trascendente” junghiana, creatrice di poesia e dunque catartica nei riguardi di un indotto disagio): «Madri. E s’erigon nella fronte, scostano / dai vasti occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca un’aurora / e al brullo ventre fiorisca rosai». Il componimento ha estremi simbolici junghiani: nigredo, «la sera»; rubedo, «un’aurora». Tra i cui colori – nero e rosso – il testo registra la gamma intermedia di quel cammino della psiche su citato che Jung denomina “processo di individuazione”. In un’epistola del 1938, diretta all’amico poeta Tullio Gadenz, la poetessa ricordava la sua esperienza alpina presso le Tre Cime di Lavaredo (Grande, alta quasi 3000 m; Piccola e Piccolissima: un complesso sulle Dolomiti) in compagnia di un’altra giovane donna patavina e di Emilio Comici. Nel gennaio del ’36 quell’ascesa aveva rappresentato per Antonia Pozzi un evento molto intenso sotto il profilo interiore. In particolare, lo scenario di quell’azione sulle Alpi fu il versante nord di Lavaredo. La comitiva passò dal lato della Cima Piccola – la cui sommità fu raggiunta dal compagno di quell’avventura, cui ella dedicò la poesia “A Emilio Comici” (datata 16 gen. ’36) in memoria di quell’impresa –, e trovò riparo nei rifugi denominati “Principe Umberto” e “Locatelli”. Nell’animo della poetessa è rimasta impressa una sensazione del sublime la quale rammenta la visione del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich.
In Antonia Pozzi in luogo della nebbia, di un’imago, predomina il frutto della dimensione uditiva. Un magmatico silenzio infatti occupa lo spazio inferiore antistante. Lo slancio, di non esclusiva sostanza poetica, di Antonia scopre un aggancio di ulteriore musicalità nelle nuvole soprastanti. Le sue epistolari parole, che prima avevano accennato a un grande organo posto a metà fra l’elemento ctonio e quello uranico, si spingono alla ricerca di una unità fisica panica. Lei ambisce a soddisfare tale sua intima vocazione, la quale tuttavia rimane in uno status d’incertezza. La sinfonia cosmica suona dentro di lei, al di fuori predomina una sensazione di Natura leopardiana. Lavaredo con le sue cuspidi le appare un’enorme chiesa del periodo artistico gotico, una cattedrale la quale, dopo essere stata fulminata e squartata da un atto divino, diventa una base orante immersa nello strazio pietrificato. L’andare oltre, in alto, costituisce l’unica via di fuga. La poetessa non manca di ricordare pure come il pensiero dei militari italiani caduti durante la Grande Guerra in quelle zone incida sulle sue riflessioni, un pensiero che la sprona a salire vittoriosa su quella vetta metafenomenica la quale le consegna un premio di liberazione quasi schopenhaueriano. In occasione della visita alpina rievocata, Antonia Pozzi fece delle foto (la fotografia era un’altra sua passione), a testimoniare che la sua capacità di cogliere la vita (libido) non aveva soltanto uno sbocco lirico, letterario, ma altresì iconico. Ecco il modo in cui le sue foto del caso scattate dal rifugio “Principe Umberto” si ricollegano al paragone di sopra con il quadro del romantico Friedrich. In esse la proiezione dell’infinito (il sublime matematico), nella profondità del paesaggio delle Alpi, disvela un binario parallelo a quegli elementi estetici pertinenti a quell’accostamento col “Viandante sul mare di nebbia”. In dette due fotografie non compare figura umana. Alla Natura fanno da contraltare alcuni strumenti alpini: una leopardiana dialettica “Vesuvio/ginestra”. Di quelle spiritualmente ricche giornate sulle Dolomiti sono testimoni quattro poesie pozziane composte a Misurina (vicina al monte Sorapis), una frazione di Auronzo di Cadore (Comune bellunese posto ai piedi delle Tre Cime), nel corso del gennaio del ’36: “Notte di festa”, datata giorno 6; “Salita” e “Commiato”, 11; “Approdo”, 12. A esse si aggiungono la già citata “A Emilio Comici” e “Rifugio” (del 19), di cui si ignora la sede di redazione. “Notte di festa” è rivolta ai soldati alpini, delle altre vale la pena leggere per intero l’emblematica “Salita” (da “Antonia Pozzi, Parole, Garzanti 2001”).

Questa tua mano sulla roccia
fiorisce:
non abbiamo paura del silenzio.

Immenso grembo
la valle spegne l'ansia
di lontane valanghe,
fumo lieve
sulle pareti nere.

Si accendon le tue dita sulla pietra
alte afferrando
orli di cielo bianco:
non abbiamo paura del deserto.

Andiamo verso il Sorapis:
così soli
verso l'aperto
altare di cristallo.

Alla scrittrice milanese è stato dedicato, fra l’altro, un film (“Antonia”, 2015), dove alcune scene rappresentano un’arrampicata alpina della giovane poetessa, e in cui incidentalmente viene menzionata la località di Lavaredo.





NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note di critica (2017)”
http://www.academia.edu/35449885/Note_di_critica
È stato altresì pubblicato su “QVOTA 864 / Semestrale del CLUB ALPINO ITALIANO – Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” AURONZO DI CADORE” sul n. 36 – dic. 2017.
https://www.academia.edu/35891613/Articolo_su_Antonia_Pozzi
Il video, non riguardante il film sulla poetessa, invece proviene da un collegamento con YouTube, dove l'ho trovato.

1 http://danilocaruso.blogspot.it/2016/12/due-saggi-dedicati-sylvia-plath.html