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sabato 27 gennaio 2018

ALEKSEJ TOLSTOJ E LA VERGINE MARZIANA AELITA

di DANILO CARUSO

Aleksej Tolstoj (1883-1945) è stato uno scrittore russo, autore, tra l’altro, del romanzo fantascientifico “Aelita / Il declino di Marte” (Aëlita nella sua lingua, scritto in cirillico, si pronuncia “ίlida”). L’opera pubblicata la prima volta a puntate su un periodico nel 1922-23, è giunta tardi in Italia: a quasi 60 anni dopo risale l’ingresso nel nostro panorama culturale. Il nostro Tolstoj ebbe un’indole progressista, e finì per aderire dal ’21 al corso sovietico. Gradito da Stalin, fu pure parlamentare nazionale comunista (lui proveniva dalla nobiltà). “Aelita” è un romanzo il cui testo definitivo scaturì da una rielaborazione compiuta dall’intellettuale russo nel ’37. È un’opera aperta, nel senso che solleva svariati temi (di natura politica, sociologica e psicologica), i quali però lascia sfilacciati senza prospettare un telaio unitario. Questa è stata la volontà redazionale dell’autore, purtroppo a mio avviso non molto condivisibile: forse la difficoltà di cementare una profondità di ricchezze e di spunti (che si trovano isolati e sviluppati qua e là da altri) ha assunto un facile predominio. Vedremo via via aspetti di non secondaria importanza emergere e perdersi alla deriva. L’orizzonte in cui il lettore può tuffarsi è molto vasto, e non difficile per gli sprovveduti affogare. Credo che “Aelita” sia come quella bella casa dove finestre e porte siano in balia sbattute da una forte corrente: secondo il mio modesto parere, qualche apertura chiusa e socchiusa avrebbe dato una fluidità superiore. Ma questo era lo spirito russo dell’epoca: il vento della rivoluzione era vivo e dilagante. Il testo tolstoiano riflette quella mancanza di conclusioni sostanziali della società della neonata URSS e dei suoi migliori ingegni marxisti. Aleksej Tolstoj non prospetta un quadro idealistico (utopico o distopico che sia), immerge il lettore in un’atmosfera decadente della quale i suoi personaggi risentono e ne sono riflesso. Questo gusto tragico è quello che chiude il di lui romanzo, distante nel narrare – ma non a causa di ciò inferiore – dallo spirito di Bogdanov, London e Zamjatin1. “Aelita” racconta di un viaggio interplanetario di andata e ritorno nei confronti di Marte, pianeta prossimo alla Terra, sul quale due cosmonauti attraversano delle significative esperienze. Lo scienziato Mstislav Sergievich Los ha infatti costruito un’astronave che consente a lui e al suo accompagnatore, il volontario Aleksej Ivanovich Gusev, di lasciare la superficie terrestre. Los ha 35 anni e ha perso di recente la moglie Katia; Gusev ne ha 25, è sposato, fa il soldato, ma è un irrequieto avventuriero. In virtù della teoria della relatività (divenuta pratica nel romanzo) i due, agli occhi di un osservatore terrestre, sono partiti da Pietrogrado (San Pietroburgo) nell’estate del 1921 e ritornati in quella del ’25: il viaggio di andata è durato quasi undici ore, pari a una ventina di giorni sulla Terra. I personaggi dei due protagonisti maschili delineati da Tolstoj si prestano a un’interpretazione simbolica di natura psicologica. Los e Gusev sono come i cavalli della biga platonica del “Fedro”: il primo è un emotivo, il secondo un passionale. “Aelita” è un’allegoria dell’anima umana, un’anima nella quale è possibile rintracciare dinamiche junghiane. La biga di Platone che vola alla ricerca del Bene, diventa un’astronave nel testo tolstoiano. E i due cosmonauti mettono in scena due diverse modalità di relazionarsi con la controparte psichica sessuale rispetto a un Io maschile: l’“anima” junghiana. Per Los essa è simboleggiata da Aelita, la principale protagonista femminile; per Gusev, di pragmatiche vedute marxiste sulla famiglia, dalla cuoca del loro alloggio marziano. La distanza platonica di valore psicologico fra l’emotivo Los e il passionale Gusev si rileva in tutta la sua dialettica nella diversità di propositi da attuarsi su Marte da parte dei due. Gusev fin da subito vorrebbe sovietizzare il pianeta con una rivoluzione rossa e al contempo ricavare un bottino per sé mirato all’ottenimento di una stabilità familiare sulla Terra. Il vuoto interiore dello scienziato vedovo è già palesato nei primi capitoli, il suo cammino sarà profondo e travagliato, arricchito di esperienze il cui turbamento viene anticipato da uno stato ansioso prima di partire. In un passaggio del racconto si domanda cosa gli riserverà quel luogo ignoto. Paragona il suo logos a una piccola luce, fievole e oscillante, a ridosso di un oscuro sublime burrone, nel fondo del quale è disteso il corpo esanime dell’eros. E poi sottolinea che il nostro pianeta rimane in balia del male e che non tarderà il giorno dove soccomberà persino il logos, solo vincolo di sottomissione del mostro dentro l’uomo. Questo brano intreccia concetti psicologici junghiani: l’“ombra”, la ragione, la libido (personali e universali). Nel dare l’addio alla Madre Terra, Los, ormai nello spazio, all’inizio del cap. VII saluta il pianeta come fosse una Grande madre (altro concetto della psicologia analitica di Jung). E poco dopo Tolstoj ci informa del forte stato d’ansia (quasi panico) affliggente lo scienziato sull’astronave alla volta di Marte; una situazione interiore che richiama molto quella dantesca nella selva oscura. Aelita (il cui nome significa – nell’etimologia letteraria tolstoiana – “ultima-visione-della-luce-stellare”) è figlia di Tuscub, il capo del consiglio governativo al vertice della comunità marziana, la quale i due cosmonauti troveranno al loro sbarco sull’abitato pianeta rosso. Lei e Los si innamoreranno, e la donna aliena sarà per costui fonte di ricche informazioni. Ella è una fanciulla marziana il cui colorito di pelle azzurro, il globo verde nella sua mano (di cui al cap. XVIII), uniti al rosso di Marte rievocano delle considerazioni junghiane da me formulate a proposito della bogdanoviana Netti de “La stella rossa”2. Netti si trova sul pianeta rosso, e ha occhi verdi e azzurri: si tratta di una serie di colori di cui Jung parla nel “Liber novus” proseguendo la narrazione della simbolica, e rinnovatrice per la coscienza individuale, uccisione di Sigfrido. Tale terna di colori è indicativa di un approdo al cambiamento nei confronti dell’Io. In “Aelita” si trova questa piccola cornice cromatica a circondare le vicende iniziali di uno psicologicamente disorientato e svuotato Los, accostabile a un Dante guidato da Beatrice. La protagonista del racconto tolstoiano «mostrasi sì piacente» (si veda alla fine del cap. XVI), e rievocante la wellsiana Weena per via della sua statura. In un mio studio su “The time machine” ho affrontato il tema della compatibilità in relazione ai rapporti antropometrici3. In questo nuovo caso posso dire che la statura media di un maschio Russo a inizio ’900 era intorno a m 1,67 (nel giro di un secolo è aumentata di una decina di centimetri); mentre quella di una femmina era intorno a m 1,55 (la di lei statura media, nell’analogo periodo posteriore, è salita a circa m 1,65). L’Aelita di Tolstoj è alta più o meno m 1,40; noi possiamo immaginarla oggigiorno avente un’altezza di un metro e mezzo. L’approdo su Marte tratteggiato al principio del cap. IX assume colori e fasi di un ciclo alchemico-junghiano in un’uscita dal disordine (simbolico oceano primordiale): blu alchemico e rubedo. Una cosa che viene ribadita con forza alla fine del medesimo capitolo. La parte di Marte dove lo scienziato e il suo accompagnatore troveranno resti di una vecchia civiltà extraterrestre può sorprendere nella sua descrizione a causa dell’analogia con le nostre arte e architettura. Vediamo infatti cose che assomigliano alla maschera di Agamennone, alla scultura greca arcaica, all’architettura romana, alla piramide precolombiana, alla grande statua del Lincoln Memorial. La ragione di questa eco ce la fa comprendere Aelita nei suoi due importanti discorsi a Los (capp. XX e XXIII). A vantaggio di una generale chiarezza espositiva, in ossequio a un ordine cronologico, è bene però partire dal secondo, per gran parte meno attinente al suddetto aspetto evidenziato. Tale esposizione riguarda una ricostruzione della storia della civiltà terrestre (incentrata su Atlantide), una rivisitazione che offre diversi spunti in una direzione interpretativa di impronta filosofica e psicologica. Aelita di fatto parla di un’originaria dicotomia tra una forma di idealismo panlogistico hegeliano e l’animismo, sintetizzatasi nella modalità della teocrazia solare. Quindi accenna a un successivo modello dicotomico: lo scontro “occidentale (maschile) / orientale (femminile)”. Il processo storico di fusione e amalgama di differenti razze riguardante Atlantide e le sue fasi temporali, durante le quali essa si scontra e si associa con vari popoli (alla volta di nuovi equilibri sociali ed etnici), rammenta il cammino di elaborazione di un archetipo junghiano: la meta è l’equilibrio. Il “logos” è alla base della civiltà atlantidea e tende a mantenere sotto l’egida di una sana razionalità. Questa viene simboleggiata dall’“età dell’oro”. Dopo la quale, tuttavia, un’estremizzazione idealistica scinde l’equilibrio. Nelle parole di Aelita rinveniamo elementi del pensiero di Schopenhauer contrapposti a Fichte e Hegel: la libido schopenhaueriana mira a una radicale noluntas mediante lo sterminio dell’umanità. La perdita dell’equilibrio archetipico, che aveva altresì comportato misoginia, conduce alla completa disgregazione archetipica. Da qui scaturisce l’allegoria di un’emigrazione dalla Terra della libido (il femminile) verso Marte (il maschile). Ora comprendiamo il perché di arte e architettura marziane di ascendenza terrestre: sono il frutto di un portato culturale migratorio presso altre genti. Questa teoria dell’emigrazione interplanetaria, nella sua forma letterale assoluta, mi pare comunque un’ottima intuizione scientifica4. Il primo discorso di Aelita prosegue la logica evoluzione del suddetto secondo: a causa di tal motivo è stato opportuno invertire l’ordine tolstoiano. Quest’altra serie di spiegazione affronta le conseguenze di quell’emigrazione interplanetaria di terrestri su Marte in seguito alla distruzione di Atlantide. Qui, sul pianeta rosso, si trovava già una civiltà planetaria formata da due tribù in lotta inter se. La quale finisce per essere sottomessa dai nuovi colonizzatori. I toni del racconto di Aelita sono carichi di allusione a temi e figure della tradizione cristiana: compaiono la figura del buon pastore, un richiamo agli «occhi di bragia» del Caronte dantesco, contenuti apocalittici, un riferimento al ministero triennale di Cristo, un’eco delle dieci piaghe. Le lunghe delucidazioni della giovane aliena, degne di una Diotima, sono precedute alla fine del cap. XIX da un significativo brano. Lei chiede allo scienziato un chiarimento sul concetto terrestre di felicità, e lui risponde – nella sostanza – che questa risiede nell’agápe e nell’eros. Tale citato brano non sottintende solo una figurazione del rapporto “Io maschile / controparte psichica femminile (anima)”; dal punto di vista di Aelita emerge anche il rapporto speculare e inverso: “Io femminile / animus”. Quando ella parla dei suoi sogni infantili, non fa altro che mettere in scena immagini dell’inconscio collettivo, al quale peraltro fa un esplicito riferimento. Inoltre, la scena del bagno di Aelita al principio del cap. XXII ce la mostra con una latente ambizione all’individuazione junghiana (che per una donna conduce a un adeguamento all’immagine di Madre Natura). La società marziana dipinta da Tolstoj contiene germi narrativi meglio sviluppati da Huxley: l’uso popolare di una droga assomiglia molto al consumo di soma huxleyano; la premiazione a sorte di alcuni cittadini ricorda la predestinazione capitalistica di cui il Brave New World tratteggia una forma estrema5. Verso la fine del su citato capitolo il maestro di Aelita si rivolge a lei, inquieta a causa dell’esperienza che sta vivendo, come se fossimo in una distopia degna di una variante negativa della futura lewisiana Jane Studdock6. Le dice di non agitarsi, di non essere irragionevole. Le consiglia di guardare dentro il suo cuore. Le chiede quale sia la causa del tuo turbamento, se dal profondo del suo sangue senta crescere l’impulso ancestrale, se rosse tenebre l’avvincano, se percepisca il cieco desiderio di perpetuare l’esistenza, se senta il suo sangue ribollire. L’eros terrestre, infatti, turba l’inconsapevole giovane aliena. Come si apprenderà nel finale del romanzo Aelita è una vergine consacrata, la sua condizione è paragonabile a quella di una vestale. Il suo maestro cerca di dissuaderla dal perseguire la via della libido e dell’individuazione, sembra proporle una heideggeriana angoscia esistenziale in luogo di un ideale di sana felicità. Il romanzo tolstoiano, nella sua ricchezza di sfaccettature, prelude anche al film “Metropolis”7: la vita nell’agglomerato urbano marziano – Soazéra – ripropone il clima dicotomico sociale di sfruttamento capitalistico. Nel seno del supremo consiglio di governo troviamo un personaggio difensore dei lavoratori, un po’ rievocante il primo Perón. Si tratta dell’ingegner Gor; e peronista è quell’immagine di protesta davanti al palazzo del consiglio: ricorda i descamisados davanti alla Casa Rosada dopo l’arresto del fondatore del giustizialismo argentino nel ’45. La tensione sociale a Soazéra si rivela elevata durante il soggiorno di Los e Gusev: di fronte a loro cresce l’insurrezione di coloro privati del Brave New World. Una rivolta che loro vivranno in pieno. Il rimedio reazionario escogitato da Tuscub consiste nella distruzione delle zone residenziali operaie della città. Gor si mostra contrario. Il sommo capo di Marte vorrebbe uccidere inoltre, accanto a buona parte della popolazione, i due terrestri, presunti sostenitori dei disagiati e presunti fautori di una loro liberazione. Gor spera in quest’ultima cosa, e de facto Gusev si darà da fare nel guidare i Marziani insorti. Los invece rimarrà perlopiù circoscritto negli stati d’animo scaturenti dalla sua vicenda amorosa con Aelita. Egli attraversa il disagio di un modello esistenziale di vita terrestre imperniato sulla scissione fra libido e ragione. Così chiariscono le sue parole al compagno di viaggio nel cap. XXVI, parole echeggianti temi discussi da Schopenhauer (la cieca perpetuazione della vita, l’amore quale trappola della Natura). Aelita non è da meno in materia di turbamento: nel cap. XXVII, in compagnia dello scienziato affettuoso, vive un’esperienza estatica. Nel cap. XXVIII si sposano in segreto, come Giulietta e Romeo. E molto shakespeariano è l’immediato posteriore monito della giovane extraterrestre al novello consorte di ricordare che la realtà è un sogno, un’ombra, e che soltanto nel posto dove si trovano, in prossimità del fuoco, egli rimarrà in vita. Rammenta delle parole di Prospero. Il cap. XXXIII contiene qualche eco che pare derivare dal verniano “Viaggio al centro della Terra”, la quale nella versione tolstoiana possiamo palpare leggermente in “Perelandra” di Lewis. Aelita si è rifiutata di assecondare la volontà omicida del genitore proteggendo lo scienziato terrestre, rintracciata con il quale, tenterà assieme a lui il suicidio: un’altra venatura tragica shakespeariana. Nella fase finale del romanzo, su Marte, Gusev assurge a protagonista (simbolo della passione) di una rivolta abbandonata al suo destino fallimentare dai due cosmonauti a beneficio del salvifico ritorno sulla Terra. Aelita e Los rimangono separati per sempre (a meno di un romanzo sequel di altro autore). Nel testo di Tolstoj non è per niente chiara la sorte finale dell’aliena amata dallo scienziato. Caduta nelle mani dei Marziani governativi, sembra destinata alla morte, a causa della violazione del suo sacrale regime di castità. Ma in effetti un suo messaggio audio intercettato da una stazione di studio terrestre, ascoltato da Los (ormai ripresosi dall’avvelenamento), lascia tutto aperto. L’opera tolstoiana si conclude con un’istantanea di costui, già disorientato di per sé dopo il ritorno. Dall’esaminato romanzo di Tolstoj sono stati tratti un manga jugoslavo (nella metà degli anni ’30) e alcune versioni sceneggiate. La più nota di queste, il film russo del ’24, però non aderisce alla perfezione al narrato tolstojano. Nel 1981 in URSS venne istituito un premio letterario intitolato “Aelita” (destinato a scrittori di fantascienza), il quale è sopravvissuto al crollo del regime sovietico.





NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche
Il video, riguardante il film del 1924, proviene da un collegamento con YouTube, dove l’ho trovato.

1 A questi autori ho dedicato delle opere: “L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”, “Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”.

2 In “Un love affair alieno, il socialismo archetipico e Aleksandr Bogdanov”, sezione di “Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”.

3 Ne “La terribile distopia di H. G. Wells”, dentro il mio saggio “Critica letteraria (2017)”.

4 A tal proposito suggerisco di leggere la mia riflessione intitolata “Teoria sull’origine aliena dell’umanità”, contenuta nella mia monografia “Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)”.

5 Si veda la mia opera recante il titolo “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”.

6 Alla trilogia cosmica di Lewis ho dedicato un saggio: “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”.

7 La pellicola, diretta da Lang, è parallela e contemporanea all’omonimo romanzo della seconda moglie del regista austriaco (la scrittrice e sceneggiatrice tedesca Thea von Harbou, autrice del soggetto di “Metropolis”): entrambi furono terminati nel 1926.