di DANILO CARUSO
Il mito greco nelle sue forme ebbe
lo scopo di insegnare in qualche modo al popolo a comprendere la natura umana e
le cose.
Questo obiettivo passò poi più
finemente alla tragedia attica, di fronte alla quale lo spettatore incontrava
il lato deteriore della realtà per essere ammonito a non imitarlo.
GIUDICE: «Quello
di Medea è il caso di una madre che ha ucciso i propri figli, assurge a simbolo
di un comportamento che attraversa il tempo e che non può essere trascurato data
la sua rilevanza: Medea deve essere giudicata al fine di accertare la dinamica
della sua condotta, e ritenuta colpevole o assolta da specifiche responsabilità
personali.»
ACCUSA: «La
vicenda di Medea si impone alla nostra attenzione sin dal principio per
l’intensità delle sue passioni, per la compulsione quasi ossessiva con cui ella
agisce nel portare a compimento i suoi scellerati progetti.
Presa
dalla passione per Giasone, insanamente persegue il fine di legarsi a lui a tal
punto da tradire la fiducia familiare e persino da uccidere nella fuga un fratello.
Il padre
mette alla prova Giasone, che ricerca con i compagni il “vello d’oro”, e lei
con le sue arti magiche ne agevola il compito sfruttando la buona fede della sorella.
Ma ben più
grave di ciò è il già menzionato omicidio del fratello, i cui resti a pezzi
disperde in fuga con Giasone con il chiaro obiettivo di rallentare
l’inseguimento del genitore: solo una mente lucidamente criminale può ordire
simili stratagemmi.
E se
successivamente l’uccisione di Pelia – zio di Giasone che ne aveva usurpato il
trono e che gli aveva chiesto in cambio la consegna del “vello”, in concreto
prospettandogli la sua fine – a Medea indirettamente imputabile può essere
accettata come atto di naturale vendetta verso chi arreca ingiusta offesa,
questo non equivale ad assolverla per una più lunga linea di condotta animata
esclusivamente dalla parte più oscura e disordinata dell’animo.
Sì, perché
Medea si abbandona deliberatamente e consapevolmente alle sue deviazioni dalla
normalità; Medea potrebbe frenare la sua passione, invece la lascia libera di
suggerirle i più efferati delitti.
Ed ella
raggiunge l’apice quando abbandonata da Giasone uccide i due figli da lui avuti
perché teneva più a lui di quanto tenesse ai figli.
Medea si
rifugia infine ad Atene. Atene deve condannare Medea perché ella è colpevole di
violare l’ordine e di nuocere gravemente ai suoi simili, vittime imbelli delle
sue azioni.
Se Atene
la riconosce colpevole, la pena per lei, secondo le leggi draconiane, è la
morte.»
DIFESA: «La
sventurata Medea è un’altra vittima nella sua storia e delle sue azioni: una
vittima inconsapevole, poiché in lei il corso degli eventi, tumultuoso e vario,
non consente di comprendere l’inganno e la prospettiva di tragico destino che
le si profila innanzi.
È Giasone
a ingannarla per poi abbandonarla, costui è il responsabile del comportamento
di Medea.
Ella
uccide tre persone perché la sua mente è turbata da lui: il fratello mentre
scappano in quanto la nefasta libido – “dira libido” – ne sconvolge
l’equilibrio psichico, e ulteriormente alla fine i figli per lo stesso motivo.
L’unica
sua colpa è quella di trovarsi in queste dinamiche con la sua debolezza.
È travolta
in entrambe le volte dal precipitare inatteso della situazione.
La sua
volontà è forzata ad attuare un’azione riparatrice, a rimediare a un fatto
ingiusto.
La causa
del comportamento di Medea è fuori di lei, perciò ella non è colpevole ma
vittima.
Una
vittima, sì particolare, che non merita la condanna bensì la comprensione e di
intraprendere un cammino di riabilitazione.
Medea
compie atti dettatile da una dialettica di compensazione che la sua fragilità
non permette di superare: i piani non vengono ribaltati e lei rimane a seguire
il suo destino disegnato da Giasone, il vero responsabile che in ultimo la
lascia a sé indifesa e senza riferimenti.
Quindi
tutto frana su di lei in modo inevitabile, sconvolgendole irreparabilmente
l’animo già provato.»