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giovedì 3 novembre 2011

GLI STUDENTI A PARLAMENTO

La mattina del 3 novembre il teatro antistante al Plesso scolastico “Paolo Borsellino” di Lercara Friddi è stato in modo inaspettato tenuto a battesimo dagli studenti del locale Liceo “Mauro Picone” entrati in contrasto con la preside che ha rifiutato la loro richiesta di un’assemblea straordinaria.
Per tale motivo i 700 ragazzi hanno deciso di riunirsi in questa struttura, tipica dell’antichità classica, in quest’occasione divenuta vivo spazio di dialettica.
I liceali hanno lamentato la mancata concessione di giorni di riposo – in aggiunta alle canoniche vacanze – per le ricorrenze che non prevedranno una sosta festiva (carnevale, 25 aprile, etc.).
La riunione, condotta dalla rappresentanza istituzionale studentesca, che è servita a rivendicare inoltre ulteriori tempi di pausa nelle attività di lezione da dedicare a viaggi d’istruzione, è stata propizia per distribuire direttamente ai partecipanti copie del saggio sul matematico Mauro Picone, cui è intestato l’istituto, realizzato in vista del trentennale dell’intitolazione (15 maggio 2012) dallo studioso Danilo Caruso, il quale apprezzato si è intrattenuto a interloquire e ascoltare le ragioni della manifestazione di protesta.


per approfondimenti sul saggio

martedì 27 settembre 2011

LA CRISI DEL CAPITALISMO

di DANILO CARUSO

I mercati, le attività finanziarie e quelle produttive attraversano ciclicamente nel sistema capitalista dei momenti critici di durata variabile: accade che i prezzi aumentino, le vendite diminuiscano e la disoccupazione aumenti.
Un economista inglese vissuto tra ’700 e ’800 riteneva che la causa del disagio in cui versasse la schiera dei diseredati risiedesse in loro, nel perpetuare questa genia di disgraziati, e che i loro mali sarebbero terminati con loro stessi.
La moderna globalizzazione ha allargato pregi e difetti del capitalismo a livello mondiale senza operare una generalizzazione del benessere collettivo (che già non era perfetto nei paesi di provenienza). Sembra che la crisi attuale voglia riproporre quel darwinismo sociale di Thomas Malthus nel tentativo di provocare la soppressione di tutte quelle categorie umane che non dispongono di risorse stabili per sopravvivere.
A partire dal “terzo mondo” milioni di individui soffrono a causa della sperequazione dei beni prodotti. L’attività umana produttiva è alla base del sostentamento, il lavoro ha una funzione centrale.
Questa funzione dovrebbe essere quella di produrre non mirando alla ricerca di un guadagno anche attraverso le cose più inutili o dannose, ma mirando a ottenere i mezzi per una quanto meno dignitosa esistenza nell’ottica di contribuire, dall’imprenditore al lavoratore, alla tutela della prosperità dell’intero insieme civile.
Le imprese private tengono in piedi l’apparato economico-sociale per il fatto che da loro proviene la contribuzione tributaria più autentica. Il servizio pubblico non sempre è pienamente efficiente e a volte è parassitario, produce in alcuni casi meno di quello che dovrebbe o potrebbe: i dipendenti pubblici sono retribuiti con soldi presi dalle imprese, e non c’è da stupirsi che poi esista l’evasione fiscale di fronte a sprechi e gestioni clientelari della ricchezza tributaria.
Il cattivo servizio pubblico è l’esempio di inutile e sterile produzione con spreco di denaro, come inutile produzione è quella di imprese che mettono sul mercato prodotti di nessuna utilità, o addirittura nocivi alla salute umana, con l’induzione a comprarli per una questione di adeguamento a status-symbol.
La logica del profitto crea squilibrio sociale pure poiché la pressione fiscale sulle imprese si ripercuote sui loro dipendenti: una maggiore tassazione equivale a una riduzione dei lavoratori o dei loro stipendi.
È chiaro che non tutti i principi del liberismo siano condivisibili sino ai loro estremi: uno che persegue il proprio interesse cerca solo il suo bene e si serve degli altri con cui è costretto a condividere il suo successo imprenditoriale (in passato c’erano gli schiavi cui bastava dare il minimo necessario per sopravvivere); il mercato non è un organismo autonomo che si regola da sé, è anch’esso un risultato delle attività dell’uomo.
Il recupero di un’economia sana avrebbe bisogno di riformare il capitalismo sostituendo nei suoi principi alla logica del profitto e degli interessi di parte la logica dell’utilità collettiva: sanità, trasporti, etc. pubblici  e privati così troverebbero contributori ben disposti.
Nessuno è spontaneamente disposto ad acquistare servizi e prodotti scadenti a meno che non sia raggirato.
La legislazione sul lavoro sarebbe migliorata se accogliesse altri provvedimenti ispirati a canoni di giustizia sociale per difendere un’equilibrata partizione del benessere globale.
a) Il primo sarebbe una legge sul diritto al lavoro che garantirebbe a ogni nucleo familiare almeno una fonte di reddito, e che stabilirebbe la distribuzione dei posti nel pubblico impiego secondo merito e secondo necessità (abolendo parzialmente i concorsi).
b) Il secondo riguarderebbe la riforma dell’impresa privata.
A capo ne rimarrebbe sempre l’ideatore (che solitamente è anche colui che investe il capitale di rischio): una parte dello stipendio dei dipendenti dovrebbe essere ancorata in percentuale ai guadagni complessivi: i lavoratori contribuiscono all’eventuale fortuna economica e pare ipotesi naturale la loro partecipazione ai dividendi così come il caso del giusto licenziamento.
c) Un terzo provvedimento sarebbe di carattere generale e fiscale poiché statuirebbe il principio di imponibilità nei confronti dei soli redditi: si concentrerebbe la tassazione unicamente sui guadagni sopprimendo le imposte sulle cose che non abbiano prodotto denaro.
Non conviene allo Stato restare estraneo al gioco economico-finanziario, anzi per i compiti di garanzia che assume è lecito che ne prenda parte con discreta funzione di arbitro e di moderatore delle parti qualora queste non siano in armonia. Privatizzare servizi importanti per migliorarli è cosa contraddittoria: è lo Stato sussidiario, non il privato. I pessimi servizi pubblici andrebbero perfezionati rimuovendo tutti i problemi.
Non sembra buono smantellare la macchina statale che funzioni male mutilandola a favore di interessi particolari. Un’economia mista, in un regime di libertà e di controllo, pare la più auspicabile.
Le partecipazioni statali mirate hanno impedito nei momenti di profonda crisi che il sistema andasse in rovina.
Il capitalismo senza regole e senza limiti non ha senso ed è espressione di irrazionalità: giunge sempre un momento in cui la produzione e la vendita assumono una tendenza al ribasso poiché non si può produrre per vendere indefinitamente.
La massima ambizione del capitalista è il profitto infinito a svantaggio di tutto e di tutti.
Un’economia che al criterio del profitto sostituisse quello della sussistenza del genere umano non produrrebbe l’inutile superfluo non commerciabile che genera le crisi.
Il mondo del lavoro intellettuale e manuale consente la sopravvivenza della civiltà: per ottenere meglio questo fine è possibile lavorare tutti (e non far finta come capita in alcune circostanze), lavorare meno pro capite (con acquisizione di maggiore tempo libero), risolvere quindi il problema della disoccupazione e avere più ricchezza da redistribuire (senza lasciare sacche di disagio).

giovedì 1 settembre 2011

SAN MATTEO

LA CHIESA DEI CASTRONOVESI A LERCARA

di DANILO CARUSO

Lercara Friddi, San Matteo.
L’odierna chiesa di san Matteo a Lercara Friddi, il Santissimo Crocifisso ligneo ivi venerato e la sua relativa festività di settembre mostrano complessivamente preponderanti segmenti di DNA castronovese che non sono stati messi in luce sino a ora: l’erezione di questa chiesa, l’acquisizione del simulacro (ben più di quanto faccia intendere il vecchio racconto tramandatoci) e il suo festeggiamento sarebbero risultato di portati castronovesi.
Nella Matrice di Castronovo di Sicilia, che come tale risale alla fine del ’300 (la struttura è ancor più vecchia di tre secoli), si trova tra i vari altari uno dedicato alle anime del purgatorio che è sormontato da una scritta: «SALUBRIS EST / COGITATIO / PRO DEFUNTIS / EXORARE (trad.: “pregare in suffragio dei defunti è un pensiero utile”)».
In quest’altare – oggetto di un restauro nel 1791 – è collocata una tela (a sua volta restaurata nel 1961).
Chiesa madre di
Castronovo di Sicilia,
altare delle anime
del purgatorio.
Nell’altare maggiore c’è il simulacro del Santissimo Crocifisso: la statua lignea è del 1301 (il fercolo del XVI sec.), e viene condotta in processione – con molte altre statue – durante il festeggiamento (in cui aveva luogo pure una fiera di animali) del 3 maggio, giorno della tradizionale festa del rinvenimento della Santa Croce da parte di sant’Elena, madre di Costantino, sul Golgota (Castronovo ne conserva una reliquia).
Il “tre maggio” era nato come principale momento celebrativo religioso.
Sempre in quel comune, nel convento dei cappuccini, c’è pure un dipinto che raffigura san Francesco che intercede presso la Madonna e Gesù Bambino per far liberare delle anime purganti.
Non va infine trascurato che esisteva una confraternita castronovese delle anime sante.
A metà Seicento un quarto dei gruppi residenti – netta maggioranza relativa – a Lercara era di origine castronovese, e ce n’erano pure alcuni racalmutesi (cosa da tener presente per capire poi meglio).
In più le dichiarazioni dei redditi per il 1651 – esaminate e studiate dal prof. G. Mavaro nel suo saggio “LERCARA, «CITTÀ NUOVA» - VOL. I (1984)” – attestano che nella prima metà di quel secolo c’era stato a Lercara un sacerdote venuto da Castronovo.
I “Capitoli della venerabile unione delle anime sante del purgatorio” (opuscolo stampato a Lercara nel 1889 dalla tipografia Piazza) contengono utilissime informazioni.
Questa confraternita lercarese si costituì «li quattordici maggio 1676» presso la Chiesa della Madonna del Rosario (allora «maggior Chiesa di questa terra») eleggendo come «Protettrice la SS. Croce di nostro Signor Gesù fonte d’ogni bene, e causa di tutte le grazie» nella speranza che (come poi avvenne) «s’edificherà la Chiesa propria dell’anime del Santo Purgatorio».
Giuseppe Blasco Scammacca (di Matteo), signore di Lercara, dal 1668 al 1716, che fece «una donazione dell’augustosissimo Legno della Santa Croce alla Matrice Chiesa», vi è definito «fondatore della Congregazione»: ma quando si puntualizza che costui fece sì che «quella congregazione che milita sotto la Croce fondata in secreto si facesse palese a tutti con ridursi in società» si capisce maggiormente e chiaramente che quell’appellativo è solo d’occasione (formale ed istituzionale) e che la costituzione non ufficiale di quell’associazione religiosa era una realtà precedente la sua azione.
Gli oriundi castronovesi indiziati principali come componenti e promotori (per quanto detto prima), e i loro discendenti, nel loro insieme e alcuni in particolare, erano in grado di promuovere l’erezione della chiesa di san Matteo e di ordinare successivamente un Crocifisso ligneo.
Nella chiesa sopra l’altare maggiore c’è una scritta simile a quella menzionata riguardo a Castronovo: «SALVBRIS EST / PRO DEFVNCTIS EXORARE / VT A PECCATIS / SOLVANTVR / MACH. CAP. 2. (trad.: “pregare in suffragio dei defunti è utile per liberarli dai peccati / Maccabei capitolo 2”)».
San Matteo, altare maggiore (particolare).
Anni fa una mia ricerca nell’Archivio parrocchiale sui “libri defunctorum” mi diede la possibilità di notare un’altalena di modi per indicare la chiesa di san Matteo (vidi che era già esistente nel 1687, ma un migliore terminus ad quem per la costruzione è riportato nel saggio posteriormente comparso “N. Sangiorgio / LERCARA FRIDDI – FESTE E TRADIZIONI / Palermo 2005, pag. 33” ed è il 1686).
Riporto con l’indicazione dell’anno di sepoltura i casi esemplari da me selezionati:
-   «ecc.a Animarum Purgatorij» (1687);
-   «sub titulo animi sancti del purgatorio» (1687);
-   «ecclesia Sancti Matthei sub titulo Anim. Sact. del purgatorio» (1690);
-   «chiesa di lanimi del purgatorio chiama samateo» (1692);
-   «chiesa di lanimi del purgatorio illuminata samateo» (1692);
-   «chiesa dell’anime del S. Purgatorio» (1692);
-   «ecclesia santarum animarum purgatorij» (1693);
-   «Ecc.a Unioni Animarum Purg.rii» (1694);
-   «ecclesia sanctarum animarum Purgatorij sub tit.o S. Matthei» (1698);
-   «eccl.a Purgat.i» (1698);
-   «ecc.a sanctarum animarum penantium» (1702).
Quest’alternarsi ci fa intuire qualcosa: il ruolo di Giuseppe Blasco Scammacca in tutta la storia potrebbe essere solo esteriore e di formalità istituzionale e sovrapporsi a un sostrato preesistente: ad altri si attaglia la chiesa con quei connotati, lui come intermediario pubblico possibilmente vi vorrebbe lasciare un segno con l’intitolazione a san Matteo in memoria del padre, però questa volontà si scontrerebbe con quella dei promotori e ne verrebbe fuori un’altalena di incertezza a livello di denominazione.
A questa considerazione se ne aggiunge un’altra.
La chiesa fu sede della parrocchia a Lercara nell’attesa dell’erezione del Duomo (i cui lavori si realizzarono nel periodo 1702-21): ciò può essere un indice di come Giuseppe Blasco Scammacca si sia potuto e voluto intrufolare in una cosa non sua (a cui può darsi abbia collaborato con qualche finanziamento).
Il simulacro del Crocifisso all’interno della chiesa potrebbe essere datato alla seconda metà del ’600, e probabilmente il suo impianto nell’altare è contemporaneo al suo sorgere.
San Matteo,
altare del Crocifisso.
Da antica data si tramanda che questo Crocifisso fosse destinato a Castronovo di Sicilia e che durante il suo tragitto in qualche modo restasse a Lercara durante una movimentata vicenda tra Lercaresi e Castronovesi che disputavano su un presunto miracolo.
I primi ritenevano che il non riuscire a spostarlo fosse manifestazione di una volontà divina che lo voleva far rimanere, gli altri volevano portarselo. Alla fine i Castronovesi – si racconta – riuscirono a portarsi solo la croce (andata distrutta) e non pure il Cristo Crocifisso.
Questa narrazione ricalca quella ambientata nel 1503 a Racalmuto dove una Madonna marmorea (detta poi del Monte) diretta ugualmente a Castronovo subì analoga sorte: la signoria di Racalmuto in quel periodo era tenuta da Ercole Carretto (provenuto da famiglia che risiedeva a Castronovo).
Propendo a ritenere che verosimilmente quei Racalmutesi venuti ad abitare a Lercara sopra menzionati abbiano portato qui notizia di quest’ultima storia, la quale è stata ripresa e sovrapposta al Crocifisso.
A mio avviso non è possibile accogliere la storicità di un successivo racconto clonato così platealmente.
Una mia parte d’analisi un po’ freudiana vede in questo similare, ritenuto inventato, per il Crocifisso lercarese una rielaborazione della realtà di tensione, tra lo Scammacca e la confraternita, di cui si è fatta ipotesi.
Per concludere è da dirsi che lo schema castronovese per la celebrazione del Santissimo Crocifisso è stato ricalcato a Lercara: in passato la prima domenica di settembre c’erano la fiera e la parte religiosa (in origine la processione si svolgeva il primo lunedì dopo la Commemorazione dei defunti), oggi tutto ciò avviene rispettivamente il 18 e il 19 settembre.
La serie di coincidenze che ho portato alla luce non si spiega se non sulla base della mia tesi di partenza.
A Lercara nel 1824 la congregazione si riformò e si ricostituì come “Venerabile compagnia della Santa Croce”.

mercoledì 31 agosto 2011

CONCORSO DI PITTURA A VICARI

associazione culturale IL BAGLIO di Vicari


VERBALE


L’associazione culturale IL BAGLIO di Vicari, presieduta da Giuseppe Pantelleria, ha bandito nel luglio 2011 un concorso di pittura di cui è stato designato giudice unico lo studioso Danilo Caruso, persona di competenza nelle discipline umanistiche, scrittore, collaboratore di testate editoriali a carattere informativo, culturale e artistico, socialmente impegnato nella valorizzazione e nella promozione dei beni culturali non solamente dei Monti Sicani.
Il 31 lug. 2011 nei locali della sede dell’associazione, dove sono state esposte le sei opere partecipanti alla competizione, è stata quindi determinata dal commissario unico di giudizio, con spirito di equanimità e usando parametri di obiettività nel contesto di quella che è la personale concezione dell’arte nella visione del giudicante, in maniera inappellabile e insindacabile, la seguente classifica con le motivazioni dei primi tre piazzamenti.


I AGAVE di Giuseppe Bandolo

«Nell’equilibrio cromatico e formale di uno squarcio della natura si trasmette un senso di primaverile serenità che dimora in questa rappresentazione.
L’agave – pianta importata in Europa dall’America – diventa un simbolo trasversale di unità spirituale del creato.
L’autore traduce magistralmente e con freschezza nel suo elaborato un pensiero di ordine dinamico.»

II ABBANDONO di Nino Iovino

«Il tema dell’abbandono, colto in una plastica significanza figurativa, fa emergere una profondità del sentire e coglie nell’aspetto paesaggistico una dimensione di questo spessore esprimendola con esempi attinenti alla specificità tradizionale siciliana: il classico carretto siciliano e la donna in secondo piano introducono un’idea di circoscrizione e di desertico isolamento.»

III OMAGGIO A ROSA BALISTRERI di Giuseppe Ciminato

«Nel richiamo a Rosa Balistreri si palesa un forte richiamo alla vitalità del proprio territorio.
La varietà e la vivacità dei colori uniti ai particolari raffigurati rievocano una tensione e un’ambizione isolane di crescita e prosperità: l’artista si fa interprete di quest’aspirazione e la traspone vigorosamente in immagine.»

IV ex aequo CESTO CON LIMONE di Maria Costanza / I FARAGLIONI DI SCOPELLO di Anna Maria Bernardi / OMAGGIO ALLA SICILIA di Chiara Callari


 
Vicari, li 31 luglio 2011


Il giudice del concorso Danilo Caruso
Il presidente Giuseppe Pantelleria

domenica 7 agosto 2011

FRA FRANCESCO CASCIO DA LICODIA EUBEA

di DANILO CARUSO

Francesco Cascio, figlio di Antonino e Antonina, nacque nel 1600 a Licodia Eubea (un paese in provincia di Catania, ma a pochissimi chilometri di distanza da Ragusa).
Quasi ventenne entrò in convento nel paese natio, presso i francescani, restando nella qualità di laico, cioè non sacerdote; quindi passò ad altro convento ad Agira (in provincia di Enna), dove fu novizio per dodici mesi, alla fine dei quali pronunziò i voti.
Più volte accompagnò il generale cappuccino della provincia siracusana fra Innocenzo da Caltagirone, impegnato nelle prediche, le quali giunsero sino a Cammarata (in provincia di Agrigento), dove si racconta che nel 1642 un disabile fu guarito miracolosamente in seguito alla loro presenza; e quando fra Innocenzo divenne ministro generale di tutto l’ordine fra Francesco fu confermato come accompagnatore nei suoi viaggi in Europa.
Alcuni anni dopo, agli inizi del 1648, giunse missionario in Africa, in Congo e poi in Angola: dal 1649 fu a Luanda, dove si trovava una chiesa intitolata a sant’Antonio da Padova, e dove lui si dedicò così intensamente all’assistenza spirituale e materiale di chiunque, peccatori e malati, da essere soprannominato asinello.
Perseguì uno stile di vita improntato a un estremo rigore, anche nella deliberata ricerca della sofferenza e del dolore come strumento di rivisitazione della passione di Cristo.
Viveva in armonia con la natura e gli animali, coi quali peraltro entrava in confidenza; fu un esempio di preghiera costante; riferiscono che nella veste di taumaturgo compì delle guarigioni, ed ebbe altresì il dono di conoscere il futuro e gli eventi ignoti che si svolgevano altrove.
Si dice era solito affidare in prestito il cordone del suo saio alle partorienti in difficoltà, che successivamente non avevano più problemi, o intercedere per altri miracoli sollecitando ad adeguarsi all’insegnamento di san Giacomo il minore: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati (Lettera di Giacomo, 5,14-15)».
Tra le altre cose si offrì di sostituire un condannato all’impiccagione, ma presone il posto l’esecuzione fu sospesa negli ultimi istanti dopo esser stato appurato fino in fondo lo spirito di carità di fra Francesco.
Un suo saio funse da veste mortuaria di un ex governatore portoghese dell’Angola, il quale glielo aveva richiesto per tale scopo considerata l’enorme fama delle di lui virtù.
Morì il 18 aprile 1682 a Luanda: la sua salma stette esposta per quattro giorni alla venerazione dei fedeli.
Subito dopo la morte fu aperto un processo di beatificazione, i cui incartamenti rimasero allora bloccati in Africa.

giovedì 14 luglio 2011

ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL

UNA MARCHESA ILLUMINISTA TRA MONARCHIA E REPUBBLICA

di DANILO CARUSO

Immanuel Kant, alla vigilia della Rivoluzione francese, scriveva nel 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. […] Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori della carrozzina da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano a essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. […] A questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». La Marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel incarnò e testimoniò nel secolo dei lumi questa inarrestabile vocazione di crescita della civiltà che si riallacciava alla più pura e radicale ricerca-della-verità-e-della-felicità da cui nell’antichità greca era sorta la filosofia (occidentale). Nacque il 13 gennaio 1752 a Roma, all’interno di una nobile famiglia portoghese, da Clemente e Caterina Lopez. Assieme ai familiari si trasferì nel 1760 a Napoli quando, interrottisi i rapporti diplomatici tra Stato della Chiesa e Portogallo, per via della cacciata dei Gesuiti dal territorio lusitano, i Portoghesi residenti furono espulsi dai domini papali. Guidata da uno zio abate si avviò agli studi umanistico-scientifici ed ebbe modo di conoscere e frequentare personalità del mondo culturale napoletano del tempo, fra i quali Francesco Vargas Macciucca mediante la frequenza del cui salotto letterario entrò sedicenne nell’Accademia dei filaleti (=amanti-della-verità): nel 1768 entrò pure nell’altra Accademia dell’Arcadia. Ricevette l’apprezzamento da parte di Pietro Metastasio con cui manteneva una corrispondenza, il quale aveva letto i suoi esordi poetici iniziati nel ’68 scrivendo un epitalamio (“Il tempio della gloria”) dedicato a Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, e a Maria Carolina d’Asburgo (sorella della futura regina di Francia Maria Antonietta). Entrerà in contatto epistolare anche con Goethe e Voltaire (che le compose un sonetto). In questa prima fase filomonarchica la sua poesia continuerà a mettere in risalto tra l’altro personaggi e fatti legati alla casa reale: ad esempio la nascita del principe ereditario Carlo. Del ’77 era invece il “Trionfo della verità” dedicato al primo ministro portoghese autore della prima espulsione europea dei Gesuiti. Il 4 febbraio 1778 si unì in matrimonio a un nobile, ufficiale delle truppe borboniche, di una ventina d’anni più vecchio di lei, da cui ebbe un figlio (Francesco) morto prematuramente a otto mesi nel ’79. La madre dedicò alla compianta memoria di questo bambino i cinque “Sonetti di Altidora Esperetusa [nome assunto all’entrata nell’Arcadia] in morte del suo unico figlio”. Questo è il terzo: «Sola fra miei pensier sovente i’ seggio, / e gli occhi gravi a lagrimar m’inchino, / quand’ecco, in mezzo al pianto, a me vicino / improvviso apparir il figlio i’ veggio. / Egli scherza, io lo guato, e in lui vagheggio / gli usati vezzi e ’i volto alabastrino; / ma come certa son del suo destino, / non credo agli occhi, e palpito, ed ondeggio. / Ed or la mano stendo, or la ritiro, / e accendersi e tremar mi sento il petto / finché il sangue agitato al cor rifugge. / La dolce visione allor sen fugge; / e senza ch’abbia dell’error diletto, / la mia perdita vera ognor sospiro». Ottenne la legale separazione coniugale dall’autoritario Pasquale Tria de Solis, a causa della cui violenza aveva subito un aborto (evento cui dedicò un’ode elegiaca), nel 1786. Grazie alla sua poetica celebrativa dei Borboni conquistò un incarico di bibliotecaria a corte, il che le consentì di superare i disagi in cui versava a seguito della divisione dal marito e della morte del padre (nella cui casa era tornata a vivere nel 1785). La soppressione della consuetudine della monarchia borbonica, avvenuta nel 1788, di offrire un tributo feudale annuo al romano pontefice, la spinse a scrivere, due anni più in là, con spirito di adesione al giurisdizionalismo una traduzione dal latino di un’opera dell’abate Nicolò Caravita (risalente al 1707 e messa all’indice dalla Chiesa nel 1710) in cui si sosteneva che lo Stato non fosse obbligato ad atti di vassallaggio nei confronti del Papa: integrandola per mezzo di un’introduzione e note di commento, la traduttrice esplicitò il proprio pensiero affermando che «il Regno non è padronato, non è primogenitura, non è fedecommesso, non è dote: il Regno è amministrazione e difesa dei diritti pubblici della nazione, conservazione e difesa dei diritti privati di ciascun cittadino», e perciò non poteva essere inserito in meccanismi superati dalla storia e dalla giurisprudenza. Allorché scoppiò la Rivoluzione francese diffuse la costituzione del ’91, e dopo la proclamazione della repubblica, il 21 settembre 1792, ebbe contatti con la delegazione transalpina in visita alla fine di quell’anno nella capitale borbonica (la flotta al cui seguito aveva condotto una dimostrazione navale al largo di Napoli) al fine di conseguire un riconoscimento internazionale del nuovo assetto postmonarchico dello Stato. Ghigliottinato Luigi XVI il 21 gennaio 1793, in Europa si formò un’ampia coalizione per muovere guerra alla Francia repubblicana composta da Austria, Inghilterra, Prussia, Russia, Spagna e da Stati italiani tra cui lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie (entrato nel conflitto il 12 luglio, il 6 giugno del ’96 stipulò una tregua). Le posizioni progressiste dei reali borbonici – inaugurate dal precedente re Carlo III e particolarmente coltivate, sulla scia del giuseppinismo, dalla regina Maria Carolina d’Asburgo (protettrice degli intellettuali illuministi anche iscritti alla massoneria) – avevano lasciato il posto a una preventiva condotta di conservazione antirepubblicana. Tale indirizzò trovò la de Fonseca sul versante opposto, di chi aveva appreso le notizie d’Oltralpe fiduciosamente con un sentimento di partecipazione. Il 16 ottobre 1793 Maria Antonietta venne giustiziata. E nel maggio del ’94 fallì a Napoli una cospirazione rivoluzionaria. Numerosi sospetti si addensarono su di lei: cosicché, perso il posto di bibliotecaria a corte nel 1797, un anno più tardi, il 5 ottobre, a conclusione di una perquisizione domiciliare l’arrestarono, traducendola al carcere della Vicaria, per averla trovata in possesso dell’Enciclopedia curata da Diderot e D’Alembert, e incolpandola di partecipare e di dar luogo nella propria abitazione a incontri sovversivi. Dalla galera provò a mettersi in contatto con il rappresentante diplomatico portoghese, ma il tentativo non andò in porto perché scoperto dall’inquisizione cattolica. Nell’agosto del 1798 si costituì una seconda coalizione internazionale antifrancese formata da Austria, Turchia, Regno delle Due Sicilie e Russia. Pochi giorni prima di Natale la corte borbonica, allarmata dall’avvicinarsi dei Francesi (impegnati militarmente in Italia già dal settembre del ’92), dopo aver invaso i Napoletani il 26 novembre la Repubblica romana, si trasferì su una nave dell’ammiraglio Nelson a Palermo. La de Fonseca riottenne la libertà (con tutti gli altri carcerati di ogni risma) quando il proletariato napoletano (composto dai cosiddetti lazzari) si sollevò nel gennaio dell’anno successivo, istigato dai monarchici e dagli ecclesiastici reazionari – e poi armato dal viceré Francesco Pignatelli (secondo le istruzioni del re) per resistere all’invasore giacobino – e assalì la prigione in cui era detenuta. Fu dunque ammessa nel comitato costituitosi a guida di un progetto istituzionale repubblicano appoggiato da borghesi e nobili progressisti che sollecitava l’intervento militare francese allo scopo di porre fine alla disordinata insurrezione popolare, la quale aveva obbligato l’arcivescovo della capitale a consentire una processione delle reliquie del santo patrono Gennaro, invocante protezione proprio dai Francesi in arrivo. I quali, superando l’esercito borbonico sotto il comando dell’Austriaco von Mack e la resistenza dei lazzari, giunsero a Napoli il 23, dopo che i repubblicani, fra cui la de Fonseca, tra il 19 e il 20 gennaio 1799 avevano preso la strategica fortezza di Sant’Elmo; di fronte al cui spiazzo il 21, piantato l’albero della libertà, fu solennemente proclamata la «Repubblica Napoletana una ed indivisibile» (circostanza nella quale lei lesse nella pubblica esultanza un suo “Inno alla libertà” – andato perso – composto nel corso della sua recente prigionia). Il 24 il generale Championnet, che guidava i Francesi, rese omaggio al patrono, che – si disse poi – aveva fatto un miracolo d’approvazione della loro presenza sciogliendo il suo sangue non appena questi erano arrivati. La de Fonseca giudicò inadeguato il disinteresse del nuovo governo verso tali risvolti religiosi degli eventi: non sostenne un abuso della credulità popolare di contro alla negativa critica illuministica della religione, bensì l’opportunità di innescare un meccanismo di avvicinamento tra la base proletaria e la nuova classe dirigente repubblicana favorito da una partecipazione personale di quest’ultima ai riti religiosi, che segnasse una discontinuità con la tradizione di assenza del monarca alla processione del patrono. Durante il periodo della repubblica diede vita al Monitore napoletano, un periodico a stampa che diresse, di cui furono pubblicati 35 numeri tra il 2 febbraio e l’8 giugno del ’99 (usciva di martedì e di sabato), che fu un obiettivo e indipendente veicolo d’informazione sopra le vicende della Repubblica partenopea. Benedetto Croce così si espresse al riguardo: «Il Monitore va rapido e diritto, tutto assorto nelle questioni essenziali ed esistenziali, che si affollarono in quei pochi mesi, i quali, per intensità di vita, valsero parecchi anni». Critica in merito agli eccessi della Rivoluzione francese (il cosiddetto Terrore), una delle sue aspirazioni fu quella di raggiungere a scopo pedagogico la base popolare ignorante e analfabeta (proponendo ad hoc l’uso del dialetto), soggetta all’azione di fattori ambientali e processi sociali dell’ancien régime che producevano reazioni favorevoli ai sostenitori della monarchia, effetti collaterali che a suo avviso erano da sradicare attraverso la diffusione di una corretta conoscenza degli avvenimenti. A servizio di ciò fu pure il suo sostegno a la sua partecipazione al progetto della sala d’istruzione pubblica (luogo e occasione di discussione). Lei, che posteriormente alla liberazione aveva voluto sopprimere la preposizione nobiliare “de” dal proprio cognome, nel Monitore in tal modo esprimeva la sua amareggiata riflessione: «Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi a’ vostri avoli de’ tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempj, quanti ora ne avete, diè Napoli le mosse, proseguirono i vosti avoli, insorsero da per tutto contra il dispotismo, gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo ragionevole istinto reclamarono i diritti dell’Uomo. Ora proclamano l’uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni!». Quasi tutti i soldati francesi presenti sul territorio napoletano nel maggio del ’99 furono costretti dal contesto delle movimentate vicende di quell’epoca a spostarsi in Alta Italia, di fatto abbandonando l’appena nata repubblica alla sua debolezza. Infatti di lì a poco, sostenute dall’azione inglese di bombardamento navale costiero, sopraggiunsero nella capitale il 13 giugno le rozze e selvagge milizie di popolo – denominate esercito della santa fede – raccolte dal «cardinale mostro (come lo definì la de Fonseca)» Fabrizio Ruffo di Bagnara che era stato incaricato di riprendere il controllo dei domini continentali. Alla marchesa repubblicana, che aveva trovato riparo a Castel Sant’Elmo, si era prospettata la possibilità dell’esilio: tuttavia col ritorno del governo dei Borboni (che avevano avuto modo di avere fra le mani il suo periodico) a luglio la parola data, pure nei confronti di altri al momento della resa dei repubblicani, non fu mantenuta, eccettuati i Francesi, a causa dell’ammiraglio Nelson e degli Inglesi che li appoggiavano (primo ministro borbonico era ormai da qualche anno John Acton). E, con questi, venne incarcerata: fu prelevata dalla nave che l’avrebbe portata in salvo. Nel processo intentatole fu emessa a suo carico il 17 agosto una sentenza di condanna all’impiccagione per tradimento, di cui ella chiese – iusto iure (di nobiltà, riconosciuto nel 1778), che le fu indebitamente negato – la commutazione della forma in decapitazione mediante scure. Intorno alle 14:00 del 20 agosto nella piazza del mercato di Napoli, preso un caffè e dette le parole di Enea «Forsan et haec olim meminisse iuvabit (Forse un giorno farà piacere ricordare anche questi avvenimenti; Eneide I, 203)», salì sul patibolo dove fu uccisa ultima insieme ad altri sette condannati (tra cui un principe, un duca, un vescovo e un sacerdote semplice). Il suo cadavere rimase esposto fino a sera al macabro scherno della bestiale ignoranza dei più, i quali avrebbero preteso che prima di morire inneggiasse al re e da cui provengono questi versi di dubbio gusto: «’A signora ’onna Lionora / che cantava ’ncopp’ ’o triato [=sopra il teatro], / mo’ abballa mmiez’ ’o Mercato. / Viva ’o papa santo / ch’ha mannato e cannuncine / pe’ caccià li giacubine. / Viva ’a forca ’e Mastu Dunato! / Sant’Antonio [scelto patrono alternativo al filofrancese san Gennaro] sia priato [=pregato]!»; versi ai quali replicò il cantante Eugenio Bennato, due secoli dopo, con un brano dal titolo “Donna Eleonora”. La salma fu infine tumulata in una vicina chiesa intitolata a Santa Maria di Costantinopoli, che verrà successivamente abbattuta facendo così perdere le tracce dei suoi resti. Vincenzo Cuoco la ricordò con parole di esaltazione nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”. È del 1986 un romanzo di Vincenzo Striano, “Il resto di niente”, da cui è stato tratto un film (2004), a lei dedicato. Ferdinando I dispose nel 1803 la distruzione di tutti gli atti dei processi contro i repubblicani del ’99, processi tramite i quali furono attuate 121 esecuzioni capitali.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Donne della libertà”
https://www.academia.edu/4355138/Donne_della_libertà

venerdì 1 luglio 2011

“COCÒ” NICOLOSI, BANDIERA DEL CATANIA

di DANILO CARUSO

Nicolò Nicolosi nacque a Lercara Friddi il 9 agosto 1912. Si formò calcisticamente presso le squadre giovanili della Lazio. Dalla Lazio, dove giocò due partite in serie A segnando due goal nei campionati 1930-31 e 1931-32, andò in serie C al Catania a partire dal 1932-33. In questo torneo il Catania si classificò quinto. Nel seguente del 1933-34 la formazione fu promossa in serie B, e nel 1934-35 lottò sino alla fine per la serie A contendendola al Genoa. Nell’incontro diretto, nella terzultima partita del girone di ritorno, gli Etnei conducevano alla ripresa per 2-0 (goal di Nicolosi), al termine il Genoa pareggiò sembra agevolato dagli stessi Catanesi che vollero evitare la A per questioni di bilancio. Nel 1936-37 il Catania della stella Nicolosi (noto col vezzeggiativo di “Cocò”) retrocesse in C. Dopo un mini girone di spareggi con Messina, Venezia e Vercelli, in cui tutte le squadre si erano accordate per fare gli stessi punti allo scopo di indurre la Lega calcio a non far retrocedere nessuno, la società rossoazzurra aveva lasciato liberi i giocatori per le ferie. Ma furono disposti nuovi spareggi e al Catania finì male. “Cocò” Nicolosi, che con gli Etnei aveva conseguito 56 marcature in 105 partite, disputò i due successivi tornei rispettivamente nel Napoli (serie A, 9 presenze e 2 goal) e nell’Atalanta (serie B, 23 presenze e 7 goal). Le sue segnature con i Bergamaschi gli guadagnarono una convocazione nella nazionale universitaria. Ritornò al Catania, che aveva riconquistato la B, nel 1939-40 (totalizzando 23 presenze e 3 goal). A causa della guerra la compagine catanese era posta in campionati di serie C. Successivamente giocò singole stagioni nell’Atalanta (serie A, 5 presenze e 1 goal), nel Vigevano, nel Saronno, nel Rovigo e nella Frattese. Nicolosi fece ritorno definitivamente nella squadra etnea nel 1946-47 concludendovi la carriera di giocatore nel 1948-49, campionato in cui fu ottenuta una promozione in B a tavolino dopo lo spareggio perso sul campo con l’Avellino: con un escamotage, di cui lo stesso Nicolosi con un altro calciatore rossoazzurro fu protagonista, in una birreria catanese si riuscì a far rivelare a un giocatore avellinese notizie di illeciti a carico della sua società sportiva mentre rappresentanti delle forze dell’ordine nascosti ascoltavano. “Cocò” Nicolosi proseguì la sua carriera nel mondo del calcio come allenatore: già nel 1947-48 da calciatore era subentrato a Giovanni Degni nella guida tecnica del Catania classificatosi poi primo in serie C. Allenò varie squadre: il Ragusa, nel 1951-52 tra i dilettanti vincendo il campionato; l’Acireale nel 1955-56, nella promozione siciliana, gli subentrò Jozsef Banas; la Salernitana, nel 1958-59, 18ma nel girone B di serie C; l’Enna, vincendo il torneo di 1a divisione; il Pisa; il Modica; il Gela. Ridivenne allenatore del Catania un’ultima volta nel 1957-58 in B (fu il terzo di quattro in quell’annata). Si occupò in seguito del settore giovanile della società rossoazzurra per più di un decennio. “Cocò” Nicolosi morì a Catania il 3 maggio 1986.


 
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domenica 5 giugno 2011

MAURO PICONE

STORIA DI UN MATEMATICO (E DI UN LICEO) LERCARESE

di DANILO CARUSO

Mauro Picone nacque il 2 maggio 1885 a Palermo. A causa della crisi del comparto zolfifero siciliano, con la famiglia – i genitori (l’ingegnere Alfonso Picone e Anna Bongiovanni) e le due sorelle – abbandonò Lercara Friddi nel 1889 per Arezzo, dove il padre – precedentemente impegnatosi nel settore estrattivo – ebbe un incarico di docenza. Mentre era studente delle elementari aretine, considerata la sua sensibilità per l’arte, il padre lo mandò a studiare disegno artistico in uno studio, e grazie alla sua bravura ottenne un riconoscimento in occasione di una mostra in un’accademia cittadina. Da bambino il suo profitto scolastico non fu tanto eccellente, ebbe bisogno di lezioni private di recupero. Alla maestra incaricata di ciò, con esito più o meno infelice, giocò una volta uno scherzo (da lui in età adulta poi definito «primo sequestro a scopo scolastico») allorquando questa, venutala a trovare una sarta, fu da lui chiusa a chiave nella stanza in cui le due donne si erano recate. Egli se ne andò via e le poverette poterono uscire a sera al ritorno del marito della maestra. Terminata la scuola elementare fu iscritto a un istituto tecnico. Nel III anno, in cui ebbe come professore di matematica per un breve periodo il padre, a causa di un suo critico giudizio raccolse una bocciatura. Ma dallo sprone dell’ingegner Picone datogli verso lo studio della matematica trovò lo spunto per passare dalla sua vocazione estetica per il disegno a un vivo interesse anche per altre discipline scientifiche quali la fisica e la chimica. All’istituto tecnico fu suo professore per due anni Michele De Franchis, con il quale, dopo la promozione di costui a un ruolo d’insegnamento accademico, intrattenne un rapporto di studio. Ottenuto il diploma a Parma, dove assieme ai familiari si era ulteriormente trasferito, studiò all’Università di Pisa (1903-1907), laureandosi – lasciato il corso di fisica durante il III anno – in matematica: qui svolse poi il ruolo di assistente universitario fino al 1913. Passò quindi all’università e al Politecnico di Torino, con lo stesso compito, fino al 1919. Dal 1914 fu anche libero docente. La prima guerra mondiale gli impedì di esercitare l’insegnamento poiché ad aprile del 1916 fu chiamato alle armi col grado di sottotenente. Mise come Archimede al servizio della nazione il suo ingegno. Nel ’23 il generale Armando Diaz, ministro della guerra, risponderà al suo invio di un trattatello così: «Mentre ringrazio dell’opuscolo inviatomi sull’Artiglieria italiana nella guerra mondiale mi compiaccio vivamente per l’interessamento che la S. V. conserva per gli studi tecnici militari, ai quali già durante la guerra, e con tanto profitto per l’esercito, dedicò tutto il suo intelletto ed il suo nobile entusiasmo». Per questi meriti nel ’16 fu promosso prima tenente e poi nel ’17 capitano d’artiglieria, e nel ’18 gli fu conferita la croce al merito di guerra e la croce francese di guerra. Infatti il contributo a lui richiesto e sollecitato di elaborare efficaci schemi balistici era stato determinante nel migliorare la capacità di precisione delle armi italiane in Trentino: prima venivano utilizzate delle tavole di tiro che non erano adeguate alla morfologia alpina, con conseguenze anche gravi come colpire con i pezzi d’artiglieria dei propri militari. Il suo intervento fu così apprezzato che gli dedicarono questa canzone: «Il 24 maggio la guerra è dichiarata / Ancora Senigaglia fu presto bombardata / Bin Bun Bon / Al rombo del cannon / Il General Cadorna ha scritto alla Regina / Se vuol veder Trieste la guardi in cartolina / Bombardier / Mitraglier / Il cannone sempre sbaglia / E su noi vien la mitraglia / Il nemico solamente / Se la ride allegramente / Bombardier / Mitraglier / A guerra finita faremo una gran festa / Agli imboscati tutti gli taglierem la testa / Bombardier / Mitraglier / Vedi questa è l’atmosfera / Che sul fronte ovunque impera / Ma che son questi pastrocchi / Rosso strilla il gran Baistrocchi / Bin Bun Bon / Al rombo del cannon / Lei insegnava matematica / Della guerra non ha pratica / L’ha mandata qui il buon Dio / Lei fa proprio al caso mio / Bombardier / Mitraglier / E Picone il tenentino / Fa la faccia da bambino / Creda proprio non so fare / Ho paura di sbagliare / Bombardier / Mitraglier / Se di guerra non sa niente / Tutto andrà perfettamente / In un mese cocco bello / Lei mi trovi il Macchiavello / Se ne vada cosa aspetta / Non capisce che abbiam fretta / Bombardier / Mitraglier / La sua scienza matematica / Il tenente mette in pratica / E ti trova l’equazione / Che risolve la questione / Bin Bun Bon / Al rombo del cannon / Spara il cannone infuria la battaglia / Anche di notte un colpo più non falla / E l’astrusa matematica / È dovunque messa in pratica / Ogni colpo di cannone / È un colpo di piccone / Bin Bun Bon / Al rombo del cannon / Il nemico più non ride / La vittoria a noi sorride / È finita la scarogna / È finita la vergogna / Bin Bun Bon / Al rombo del cannon / Gli daranno la medaglia / Perché ha vinto la battaglia / E stringendogli la mano / Lo faranno capitano / Bombardier / Mitraglier / E così con molta gloria / È finita questa storia / Ti saluto dolce amata / Con la solita baciata». Mauro Picone insegnò a Catania (’19, ’21-’24), Cagliari (’20), Pisa (’24-’25), Napoli (’25-’32), Roma (’32-’55), L’Aquila (anni ’60). Nel 1923 ritornò a Lercara, che aveva lasciato a quattro anni, per una visita ai parenti e al paese con i genitori e la consorte Maria Jole Agonigi (1889-1979; di famiglia borghese pisana, sposata il 30 ottobre 1913). Nel 1927, nonostante la disapprovazione dell’Unione matematica italiana, fondò con un finanziamento del Banco di Napoli, primo assoluto a livello mondiale, un Istituto di calcolo nell’Università di Napoli (il secondo di questo tipo comparirà nell’Università di Harvard nel ’38). Nel ’32 il Consiglio nazionale delle ricerche (presieduto da Guglielmo Marconi), visti i pregi negli studi (l’istituto si occupava anche di fisica nucleare), lo dislocò a Roma trasformandolo in Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo. Mauro Picone rimarrà direttore fino al 31 luglio 1960 (anno del collocamento a riposo dalla cattedra romana, nel quale fu proclamato professore emerito): il 23 luglio gli sarà conferita una medaglia d’oro di commiato. L’INAC diede i suoi notevoli contributi nel settore civile e in quello bellico: apprezzato da Enrico Fermi e ammirato all’estero, fu imitato oltre che dagli USA dalla Germania nazista, che nel’41 a Braunschweig fondò il Luftwaffen-Institut für Mathematik. Nel dicembre del 1951 Mauro Picone divenne direttore del Centro internazionale per il calcolo meccanico, la cui sede definitiva fu posta a Roma. Nel 1955 l’INAC fu dotato di un calcolatore elettronico proveniente da Manchester, il primo prodotto nel vecchio continente, e il secondo per un ente in Italia. Per il suo collocamento fuori ruolo dall’insegnamento il 15 gennaio 1956 l’Università di Roma gli rese ossequio: gli furono donati da parte di 55 matematici (di cui 21 stranieri) un volume dedicatogli che raccoglieva scritti di argomento scientifico, e da parte degli allievi del passato una medaglia e un loro album fotografico. Il Comitato promotore per le onoranze a Mauro Picone fu presieduto dal discepolo preferito Renato Caccioppoli (1904-59): il maestro durante il Ventennio fu fascista e poi democristiano, il secondo sempre comunista (l’anarchico russo Michail Bakunin era suo nonno). Caccioppoli, che soffriva di problemi d’alcolismo, morirà suicida: un film di Mario Martone, “Morte di un matematico napoletano (1992)”, narra della sua vicenda. Il Consiglio comunale di Lercara Friddi dal canto suo dietro proposta del’anatomopatologo Alfonso Giordano (1910-1990) deliberò all’unanimità per acclamazione il 21 marzo 1964 il conferimento della cittadinanza onoraria all’insigne studioso. Il 25 ottobre di quell’anno il paese accolse il grande matematico per una giornata celebrativa predisposta da un apposito comitato. Durante la mattina il luminare partecipò alla celebrazione eucaristica nella chiesa di sant’Alfonso in suffragio dei defunti genitori sepolti a Torino, visitò quindi l’attiguo ricovero, poi andò alla Scuola media (alloggiata a quei tempi nel Plesso Borsellino) e al Liceo scientifico che prenderà il suo nome (allora sezione distaccata del Cannizzaro di Palermo, aperto dal 10 ottobre del ’62). Fece pure sosta all’istituto delle suore terziarie. Infine si recò al Plesso Sartorio, nella cui grande sala al primo piano erano previsti cerimonia e rinfresco. Qui alla presenza di molte personalità e delle locali autorità civili, religiose, e militari, Mauro Picone ebbe in dono una medaglia in oro (con la dicitura Lercara e Mauro Picone, 25-10-1964) e una pergamena. Diversi furono gli interventi in suo onore, ma colpiscono le sue parole di congedo: «Alla mia età non posso, miei cari concittadini, promettervi un’altra visita! Non posso accomiatarvi con un arrivederci ma devo farlo con un malinconico addio augurando a questa amata città di Lercara di perseverare sempre più e meglio sulla via del progresso che dal 1923 ad oggi, ha percorso, come ho potuto constatare, con vistosi, grandi risultati». In occasione del suo novantesimo compleanno, il 21 maggio 1975, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, gli rese onore per la sua attività intitolandogli l’INAC: in una cerimonia, con la partecipazione di Giovanni Leone, Presidente della Repubblica, e di varie personalità, come nel ’56, l’università della capitale gli regalò una medaglia e dei libri a lui dedicati, e l’Accademia dei Lincei una pergamena. Il Capo dello Stato ebbe a dire in tale evento: «È per me motivo di profonda soddisfazione rendere onore, in nome della Nazione, a uno dei suoi figli migliori e dei suoi più grandi scienziati. Non si tratta soltanto di un debito di riconoscenza verso un uomo che ha dedicato tutta la vita agli studi scientifici, ma anche un auspicio: perché fino a quando un Paese può ritrovarsi in altissimi valori, come quelli che Mauro Picone ha professato e professa tuttora, con giovanile vigore, dimostra di avere ancora profonda vitalità, nella quale può trovare conforto nei momenti difficili e stimolo per superarli. […] Grazie al professor Picone che circa cinquant’anni fa fondò l’Istituto per l’applicazione del calcolo la matematica, che appariva in Italia una scienza dimenticata, si è riaccostata alla realtà ed ha offerto i suoi strumenti per la soluzione di problemi concreti, al superiore servizio dell’umanità. Il grande matematico siciliano costituisca oggi, per noi tutti, il simbolo di una nuova fase nel progresso scientifico: la applicazione della scienza alle necessità della vita, la sintesi tra studio e ricerca scientifica, tra pensiero e realtà». Mauro Picone si spense a Roma l’11 aprile 1977, all’età di quasi 92 anni. Il Liceo scientifico di Lercara Friddi, dal 10 ottobre 1973 non più dipendente dal Cannizzaro di Palermo, ma ente scolastico autonomo, fu il 15 maggio 1982 rinominato in onore e in memoria del grande uomo di scienze Liceo scientifico statale Mauro Picone. Nella sua carriera, in cui ricevette numerosissimi titoli, scrisse tre centinaia di libri sulla matematica.
Pubblicazioni più importanti di Mauro Picone: Teoria introduttiva delle equazioni differenziali ordinarie e cal­colo delle variazioni (Catania, 1922); Lezioni di Analisi infinitesimale (Catania, 1923); Lezioni sulle equazioni differenziali e ai differenziali totali (Roma, 1939); Appunti di Analisi superiore (Napoli, prima edizione 1940, seconda edizione 1946); Fondamenti di Analisi funzionale lineare (Roma, 1943); Teoria moderna dell’integrazione delle funzioni (Pisa, 1946); Lezioni di Analisi funzionale (Roma, 1946); Lezioni di Calcolo per gli allievi d’Ingegneria (prima edizione, Napoli, 1925; seconda edizione Roma, 1946); Lezioni di Algebra per gli allievi d’Ingegneria (Roma, prima edizione 1942, seconda edizione 1946); Lezioni sulle serie per gli allievi d’Ingegneria (Roma, 1945); Esercizi di Analisi matematica (in collaborazione con Carlo Miranda – Roma, prima edizione 1942, seconda edizione 1946); Trattato di Matematiche generali (in collaborazione con Paolo Tor­torici) (Roma, 1947); Introduzione al calcolo delle variazioni (Roma, 1951); Lezioni di Analisi matematica per gli allievi d’Ingegneria (Roma, prima edizione 1949, seconda edizione 1951); Lezioni sulla teoria moderna dell’integrazione (in collaborazione con Tullio Viola – Torino, 1952); Trattato di Analisi matematica (in collaborazione con Gaetano Fichera – Roma, vol. I, 1954, vol. II, 1955); Licoes sobre una tèoria das equacoes integrais lineares e suas aplicacoes, segundo a orientacao de Jordan-Hilbert (in collabo­razione con Ennio De Giorgi – Sao Paulo, 1945); Criteri necessari per un estremo di alcuni funzionali (Roma, 1959).
Riconoscimenti e onorificenze conferiti a Mauro Picone: Professore emerito dell’Università di Roma (1960), Direttore onorario dell’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo Mauro Picone, Dottore in Matematica honoris causa delle Università di San Paolo in Brasile e di Bucarest, Amministratore dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Cavaliere di Gran Croce OMRI, Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia, Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto, Colonnello d’Artiglieria, Cittadino onorario della città di Lercara Friddi; Accademico dell’Accademia Pontificia delle Scienze, dell’Accade­mia Nazionale dei Lincei, dell’Accademia Nazionale dei XL, della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti e della Pontaniana di Napoli, dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell’Accademia Gioenia di Catania, dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena; Socio onorario dell’Accademia delle Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo, dell’Istituto italiano degli Attuari e dell’Istituto di Studi metodologici di Torino, Socio emerito dell’Istituto di incoraggiamento di Napoli, Socio corrispondente dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Accademia Petrarca di Arezzo, dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna e dell’Istituto di Storia della Scienza della Accademia delle Scienze di Buenos Aires; Membro della Società di Scienze e Lettere di Varsavia, dell’Acca­demia polacca delle Scienze, dell’Accademia reale di Scienze esatte di Madrid, dell’Accademia delle Scienze della Repubblica socialista di Romania, della Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi, del Comitato editoriale onorario dell’Enciclopedia Matematica Applicata compilata dal Massachusetts Institute of Technology; Associato onorario straniero dell’Accademia delle Scienze, Iscri­zioni e Belle Lettere di Tolosa.
Premio Reale dei Lincei per la Matematica (1938); Premio Tenore della Società Reale di Napoli; Premio Severi dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica; Medaglia d’oro dei benemeriti della Cultura e dell’Arte; Medaglia d’oro della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma; Medaglia d’oro del Consiglio Nazionale delle Ricerche; Médaille d’or de la Société francaise d’encouragement pour la recherche et l’in­vention; Medaglia Fermat dell’Accademia delle Scienze, Iscrizioni e Belle Lettere di Tolosa; Medaglia d’oro ricordo del 50mo Anniversario della Vittoria.
Matematici discepoli di Mauro Picone: Luigi Amerio, Giovanni Aquaro, Ferdinando Bertolini, Renato Caccioppoli, Domenico Caligo, Lamberto Cesari, Gianfranco Cimmino, Antonio Colucci, Fabio Conforto, Ennio De Giorgi, Sandro Faedo, Gaetano Fichera, Walter Gautschi, Aldo Ghizzetti, Giuseppe Grioli, Wolfango Gröbner, Wolf Gröss, Gabriele Mammana, Demetrio Mangeron, Carlo Miranda, Mario Salvadori, Benedetto Pettineo, Carlo Pucci, Giuseppe Scorza Dragoni, Carlo Tolotti, Paolo Tortorici, Tullio Viola.

Stralcio di un’intervista, comparsa sulla pubblicazione Lettera matematica PRISTEM - n.52, alla studiosa Emma Castelnuovo.
*   *   *

- Il nostro Istituto (gli intervistatori si riferiscono all'Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo, n.d.r.) è intitolato a Mauro Picone. Mi sembra naturale cominciare da lui. Che ricordo ha di Picone, come persona?
- Ecco, allora, Picone come persona. Forse è il ricordo più sentito che ho di lui. Mio padre è morto nell’aprile del ’52. Picone, che non veniva spesso a casa, dopo quel momento iniziò a venire ogni tanto con la moglie – la signora Iole – per trovare la mia mamma. La mamma, che è stata paralizzata per una decina di anni. L’anno in cui è morto mio padre, una di quelle volte che era venuto a casa, m’ha domandato “ma quest’estate non va via un po’ da Roma?”. Gli ho detto: “beh, l’agosto lo devo passare qua”. Vivevo con mia mamma e una sorella e questa sorella lavorava e aveva di permesso solamente l’agosto. Quindi l’agosto tornavo a Roma. “Ma in luglio – gli ho detto – vado con un mio nipote un po’ nelle alpi francesi e dopo vogliamo vedere un po’ la Provenza, Arles, Nimes, così”. Allora, Picone mi dice subito “ma allora, senta, lei per tornare a Roma poi cosa fa? la linea di Genova?”. Ho detto sì. “Guardi che cosa deve fare. Noi proprio in luglio siamo a Portofino vetta”, dove andavano ogni anno. “Lei deve scendere a Camogli, io la vengo a prendere, passa uno o due giorni da noi qui” su in albergo a Portofino. Ecco questo è il ricordo più caro che ho.
- A livello umano era una persona simpatica, facile alla mano, oppure era molto rigido, come appare nel ritratto che abbiamo di lui in Istituto?
- Io lo conoscevo, come dire, fuori dell’ambiente matematico e non era rigido per niente. Solo questo fatto di avermi invitata e di avere insistito perché passassi uno o due giorni con loro, solo questo fa capire la persona che era. Forse era austero, ma io non ho avuto rapporti altro che come studentessa universitaria. Nel terzo anno ho seguito il suo corso di Analisi superiore ma, niente, era un normale rapporto tra professore e allievo. […]

*   *   *

Dopo trent’anni nel 1997 la sede del Liceo scientifico di Lercara Friddi si è trasferita dall’edificio in cui alloggiava in via papa Giovanni XXIII nei nuovi monumentali locali alle porte del paese. Oggi questo liceo ha delle sedi distaccate ad Alia (istituto tecnico-commerciale), Prizzi (istituto tecnico-commerciale e per geometri), Valledolmo (liceo classico), Vicari (istituto tecnico per geometri).



Inno al Liceo
Mauro Picone
di Lercara Friddi

scritto dal Preside
Giuseppe Ficano
(anno scolastico 1988-89)


Tra monti e valli
Sei Tu Lercara,
Che tien sì cara
La Gioventù !

Nell’Alma terra
Ogni studente
Sa certamente
Le tue virtù !

Ed il Liceo
Mauro Picone
La tradizione
Vuol rinnovar,

E la Cultura
Di quei valori
Che son tesori
Di civiltà:

La fe’ dei Padri,
Che ha tramandato
E consacrato
La Libertà!