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venerdì 12 maggio 2023

IL NEVROTICO E DISTOPICO IDEALISMO DI SPINOZA

di DANILO CARUSO
 
 
Io sono YHWH e non
sono uno in aggiunta.
Isaia 45,18
 
 
I miei studi sulla tradizione giudaicocristiana e quelli sulle distopie mi hanno condotto lungo un percorso concettuale, a ritroso nel tempo, che partendo da Hegel (e dal suo panlogismo) ha portato a quest’analisi spinoziana, dove i due suddetti motivi si incontrano. Ho scritto un saggio sul romanzo di Zamjatin intitolato “Noi”, in cui l’autore manifesta una posizione antipanlogistica. In quel mio testo ho esaminato i dettagli hegeliani con accuratezza, e pertanto rinvio là il lettore desideroso di cogliere un più approfondito prospetto sullo sviluppo dell’idealismo di Spinoza in quello romantico di Hegel1. Per quanto concerne invece i miei studi storico-letterari su Ebraismo e Cristianesimo, in relazione a questo scritto, indicherò in nota la strada dell’approfondimento in direzione di una migliore comprensione. Qui parlerò soprattutto di Baruch Spinoza, seguendo le due linee ispiratrici testé indicate, e volgendomi alla fine lungo l’asse stoico a recuperare contenuti eraclitei ricomparsi in Hegel. A mano a mano che esporrò le mie argomentazioni tutta l’analisi sarà più chiara nelle sue tappe e nella sua omogeneità di struttura. Cominciamo con l’esame del sistema filosofico spinoziano. Il pensiero di Baruch Spinoza è in bilico tra l’essere considerato una filosofia (e quindi una scienza laica che guarda alla religione) o una teologia (ossia, nel di lui caso, una costruzione di matrice religiosa edificata con mattoni razionalizzanti). Indubbiamente le due strade hanno trovato nell’elaborazione mentale spinoziana più volte delle tangenze, ma adottarne una nella veste di linea interpretativa del filosofo ebreo in maniera esclusiva mi pare possibile. Occorre dunque capire quale delle due sia stata la causa remota dell’edificio filosofico-teologico di Spinoza. La mia impressione è che predominante sia stata la mentalità religiosa acquisita nella prima fase quando ricevette un’educazione intellettuale nel suo ambiente originario. Perciò, secondo me, tutto partirebbe in primis da un ripensamento concettuale dell’Ebraismo. Il fatto che Spinoza sia accostato allo stoicismo ne è la riprova. In precedenza ho segnalato le analogie semitiche fra Giudaismo e pensiero stoico2, niente di strano dunque che la mentalità ebraico-semitica del pensatore giudaico lo abbia portato a riscoprire la sponda dello stoicismo fondato da Zenone di Cizio. La riflessione spinoziana ha ripercorso topoi in comune tra Ebraismo e visione stoica del mondo. Quindi ad esempio lo spirito del “Qoelet” veterotestamentario, con il suo più o meno amareggiato distacco dai beni materiali e mondani, che è d’altro verso l’atteggiamento tipico del saggio stoico, viene a riemergere in Spinoza in una guisa unificata, la quale dei due lati filosofico e religioso fa un tutt’uno nel modo appena spiegato. Io credo che l’autore giudeo sia partito da una base nevrotica. Più avanti, nel corso della mia esposizione, ne illustrerò i dettagli. Adesso comincerò l’esame sistemico filosofico. Spinoza mostra nell’ambito scientifico una posizione progressista: ha fiducia nelle scienze e giudica che queste possano migliorare la vita dell’uomo, e che quindi vadano coltivate e applicate. Se pensiamo all’oscurantismo scientifico cristiano che ha zavorrato l’Occidente per circa quindici secoli, cogliamo un aspetto di modernità la quale possiede nell’auspicio spinoziano un quid di attivistico (ho trattato nei miei scritti della rilevanza dell’attivismo nella storia occidentale quale fattore promuovente comportamenti caratteristici, di società e di personalità, sin dall’antichità, volti all’espansione e all’affermazione di sé3). Vediamo con precisione di esaminare sezioni peculiari del pensiero di Baruch Spinoza. Perché egli mette in cima a tutto Dio? E che cos’è il suo Dio? Ritengo che il teologo collochi al posto numero uno Dio per una questione religiosa, in seguito alla sua formazione di base personale. Gli è stato insegnato che in cima a tutto sta un Dio, ha assimilato quest’impostazione, dominante anche nel pensiero teologico cristiano, e da essa è partito in maniera spontanea come la più naturale delle cose. Il Dio spinoziano però non si ripresenta nella foggia tradizionale giudaica, non è una persona separata dal resto della realtà. Da cosa il filosofo ebreo sia stato influenzato e indirizzato nella creazione del suo monismo panteistico ho l’impressione di rintracciarlo nel prologo del Vangelo non sinottico (brano che ho studiato con attenzione4). Secondo me, Spinoza rileva quelle dinamiche e quelle categorie di Dio e Verbo, Theós e Logos, e da lì si riallaccia per un verso alla sponda semitica neoebraica e neostoica dell’epoca giovannea, la cui fusione di queste due momenti nella nuova prospettiva cristiana ha consentito poi al pensatore giudeo di toccare quest’altra sponda in virtù delle di essa radici. È il Dio cristiano a essere pervasivo, sulla falsa riga del Logos stoico, nei confronti della realtà materiale. Dio è in cielo, in terra, in ogni luogo. La riflessione spinoziana accomuna schietto stoicismo e idee cristiane sulla base di una loro comune radice, e marcia in una direzione di superamento razionalistico (in apparenza, almeno nella sua architettura dichiarata) della dicotomia Giudaismo/Cristianesimo. Spinoza, in parole povere, ci ha lasciato una nuova religione, secondo lui, elaborata in guisa scientifica. Per tal motivo sarebbe vera e inconfutabile. La verità è invece che il sistema filosofico-teologico spinoziano si mostra nevrotico. Il suo filosofo creatore pone a monte dell’attività divina il concetto di necessità. Poco sopra ricordavo l’importanza dell’attivismo nella mentalità semitica. Neanche il Dio di Spinoza ne rimane esente, a tal punto che il suo agire, quale evidenza delle sue primazia e affermazione ontologiche, viene presentato come obbligatorio, sebbene non subordinato ad altro. Il Dio spinoziano al fine di essere il non plus ultra, necessita di agire, di affermarsi sulla materia e di inglobarla: tutto è in Dio, come nel Cristianesimo, poiché Dio è ovunque e abbraccia tutto; Dio sta sopra e la materia sta sotto come nell’ordinamento ontologico immanentistico stoico; Dio è il principio determinante e il resto rappresenta il determinato come insegna la genesi biblica5. L’autore ebreo unisce varie specifiche visioni in una sintesi non tanto originale rispetto a idee pregresse. È apprezzabile la prospettiva di pacificazione religiosa occidentale che propone. Spinoza vorrebbe andar oltre il confronto Giudaismo/Cristianesimo. Il quale è stato funesto per gli Ebrei come lui. Il pensiero spinoziano influì in modo determinante su Hegel nella misura in cui nel filosofo giudeo sono rilevabili forme di idealismo romantico ante litteram. Spinoza prende in considerazione tutta la realtà nella veste di una singola totalità, e di simile rilevazione filosofica fa un caposaldo del suo sistema. Il Deus sive Natura che ne viene fuori è già qualcosa di hegeliano. Il meccanismo di dispiegamento interiore, della somma unità ontologica, l’unica sostanza (la quale possa dirsi spinozianamente tale), segue un meccanismo di necessità che procede dalla primordiale necessità che occorre a Dio, cioè quella di essere “attivo”, di agire, allo scopo di dare il segno del suo imporsi su tutto. Nel far questo Dio non può ammettere altro da sé, uno scarto ontologico di fronte a cui possa compararsi; la sua eccellenza ontologica comporta l’esclusività. Pertanto rimane l’unica sostanza, e fagocita la totalità del reale imponendogli una dinamica che deve confarsi a lui, e perciò dalla necessità del suo agire, una nietzschiana “volontà di potenza” obbligatoria al suo statuto ontologico, scaturisce la analoga necessità del dispiegarsi delle fasi del reale. Niente può andare diversamente da come la tutela dell’integrità sostanziale divina ha programmato, vale a dire che il Deus sive Natura segue una mappa logica in maniera estremamente scrupolosa, “matematica”, nello sviluppare la “razionalità del reale” funzionale al suo essere. Hegel è già in Spinoza, è il pensatore ebreo a teorizzare il panlogismo e il pensatore idealista tedesco a riprenderlo in virtù di fattori che lo avvicinavano a Spinoza. Costui è radicale nella sua teologia, non vuole creare il moderno idealismo tedesco, a lui interesse esaltare Dio al massimo grado. La conseguenza che ne vien fuori è che il Dio spinoziano ingloba tutto il reale, non lasciando altro da sé, cosicché in maniera involontaria questa elaborazione religiosa si trasforma nella costruzione di un modello idealistico tedesco. Hegel la riprenderà volentieri per due motivi:
1) l’aspetto religioso della filosofia-teologia di Spinoza col suo cardine attivistico-semitico si riallaccia all’attivismo della mentalità luterana hegeliana (a breve chiarirò meglio questo dettaglio);
2) l’aspetto filosofico del sistema spinoziano, come detto, configurantesi nella guisa di un idealismo di stampo formale fichtiano, dà l’opportunità di non uscire fuori del seminato idealistico romantico (e Hegel porrà un accento spinoziano, logico, all’idealismo tedesco: il sistema hegeliano risulta una “matematica” dell’Assoluto).
Quando i luterani criticheranno Hegel rinfacciandogli il fatto di essere filosofico-idealistico, non capiranno il fatto che costui ha sposato la radicalità monistica teologica del precursore giudeo. I filosofi, invece, comprenderanno il legame avito di Hegel col Luteranesimo. Perciò se Dio non crea l’universo con un libero atto amorevole, non c’è da stupirsi né in Hegel né in Spinoza: la perfezione dell’attivismo divino obbliga Dio a produrre (dal momento tetico-logico dell’in-sé a quello antitetico-negativo del fuori-di-sé, della Natura, dei modi “negativi” spinoziani) secondo “necessità” immanentistica. Il Deus sive Natura del filosofo ebreo rappresenta già l’Assoluto hegeliano (con le precisazioni sopra accennate). La predestinazione luterana è formalmente analoga al “fatalismo” stoico, e noi ritroviamo il fatalismo degli stoici estremizzato in Spinoza. Nel momento in cui l’autore giudeo dice che lo schema logico delle idee nella Sostanza e il suo dispiegarsi rappresentano la stessa cosa sul piano fenomenico del divenire mondano si pone quale anello di congiunzione fra Hegel e lo stoicismo (il quale concepiva la realtà sulla base della immanentistica dicotomia attivo/passivo). Spinoza guarda al mondo stoico per via delle affinità semitiche di ispirazione ebraica e inoltre per via delle suggestioni cristiane (giacché, come visto, il Cristianesimo si è rifatto allo stoicismo quando c’è stata la saldatura con il Giudaismo). Esiste quindi un asse che da Eraclito (l’ispiratore di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo) passando dal pensiero degli stoici giunge sino al Giudeo Spinoza e poi culmina in Hegel e nel suo idealismo assoluto. La triade hegeliana Idea-Natura-Spirito ricalca topoi spinoziani. Al primo posto c’è Dio, che in quanto sive Natura esce fuori-di-sé nell’attributo spinoziano della res extensa, e dunque ritorna in-sé, mantenendo così l’unità sostanziale salda senza dar luogo a emanazioni ipostatiche separate, nella dimensione dell’altro attributo noto, quello della res cogitans. Hegel non è poi così innovativo nei grandi termini del suo sistema, molto più apprezzabile e originale nei dettagli. Spinoza dal canto suo riscopre lo stoicismo, per i motivi chiariti, e visto che il suo Dio alla fine va ad assumere fortissime connotazioni appartenenti al logos stoico ripropone il vecchio ideale del “vivere secondo Ragione”. Come visto il Dio spinoziano costituisce una Ratio universale, pertanto è sommamente saggio vivere in modo razionale, abbandonando ciò che non sia lucida scelta non condizionata dalle passioni. Nonostante nel discorso su come neutralizzare le passioni il filosofo ebreo sembri precorrere l’idea freudiana legata alle “rimozioni” nell’inconscio della psiche, tutto sommato egli rimane legato a una prospettiva comportamentale semitica la quale subordina l’agire individuale umano a un primato ontologico superiore (Dio, Logos). Perciò laddove Spinoza appare moderno, non va dimenticato il suo background e il peso di esso in termini interpretativi. Cosicché, allorché ripropone l’“amor fati”, giacché tutto ciò che è reale è razional-divino, e dunque da giudicare positivamente, da accettare senza girarci attorno, egli non sta altro riproponendo che il modello di Giobbe, exemplum giudaico di saggio stoico nell’accettazione del corso degli eventi. Bisogna rassegnarsi alla volontà divina: è un’idea tipica della tradizione giudaicocristiana arrivata a Hegel con tutte le sue discutibili contraddizioni. Spinoza dal canto suo ad esempio chiariva che nel momento in cui comprendiamo uno stato di tristezza personale nel quadro dell’universale piano divino lo trasformiamo da passione (incompresa) in qualcosa motivo di allegria in virtù di simile illuminazione conoscitiva. Un’idea che lascia perplessi, e a me fa pensare al nevrotico Kierkegaard il quale spiegava che per stare bene bisogna stare male6. Vedere un quid di positivo nelle condizioni negative costituisce un pensiero contorto. È vero che, come recita il proverbio, non tutto il male viene per nuocere, ma anche qui “ragionevolmente” c’è un limite. L’essere umano nel sistema filosofico-teologico spinoziano non è libero. L’unico incondizionato è Dio, il quale tuttavia opera secondo necessità, come spinto da nevrosi ossessiva compulsiva, non sopprimendo peraltro gli aspetti di male nella realtà, i quali rimarranno anche un problema nella costruzione hegeliana. Questo Assoluto perché contempla le guerre e non le sopprime visto che c’è solo esso a stabilire la realtà? Il male dunque è “necessario” al divenire? Un problema non di poco che pone capo a pesanti considerazioni. specialmente quando Spinoza afferma che Dio ama se stesso. La sua spiegazione riporta suggestioni stoico-trinitarie, poiché dal primo grado rappresentato dalla Sostanza divina si transita al secondo del Logos progettante il reale immanente (la Natura, il fuori-di-sé hegeliano) per culminare al terzo grado dell’Amore: in parole povere questa è la dinamica trinitaria cattolica (Padre, Figlio e Spirito Santo) portata nel monismo panteistico spinoziano agli estremi dell’immanentismo ontologico. L’itinerarium mentis in Deum presentato da Spinoza ricomparirà in Hegel, dove pure l’unica libertà è quella del realizzarsi dell’Assoluto e nell’Assoluto. Tutto il resto non conta. L’Io empirico e la collettività costituiscono epifenomeni, “media” della totalità soggettiva (la quale il pensatore giudeo ha definito “Sostanza”). Spinoza parla di un “intelletto infinito”, un “modo” (ossia un accidente della Sostanza) infinito, intermedio tra l’“attributo” (qualità della Sostanza) della res cogitans e la singola mente umana (anima). Questa sarebbe, durante la vita corporea, puntualizzazione di una Mente universale eterna. La mente umana (anima) poggia il suo esistere, unito col corpo, sopra un’idea-essenza della res cogitans divina (pensiero pensante). Per Spinoza la mente umana è un momento ontologico (transeunte) dell’intelletto infinito di Dio (pensiero pensato nella sua totalità). L’anima di un singolo essere umano in virtù di ciò conosce specularmente la dimensione della res extensa giacché, come ricordato sopra, ordo idearum e ordo rerum sono due facce di una stessa medaglia divina. E vedere tutto in Dio costituisce il sommo, pacificatore delle passioni, ideale esistenziale del filosofo ebreo. Questo è il suo “amor Dei intellectualis” panacea di ogni male. Terminata questa mia prima tappa analitica dedicata ai capisaldi del sistema teologico spinoziano debbo dunque passare a quell’esame più puntuale di cui sopra ho anticipato contenuti: gli elementi di nevrosi nella mente di Baruch Spinoza. Si tratta di aspetti del suo pensare che non possono essere sottovalutati. Già abbiamo notato la maniera in cui il Dio-Sostanza spinoziano sia il prodotto di un’impostazione ricevuta in maniera kafkiana dall’autore ebreo, compresso nel credo religioso del suo ambiente formativo giovanile. Da simile cappa non si è liberato, e ne ha portato le evidenti tracce nella formulazione della sua nevrotica filosofia, la quale però sarebbe più giusto definire una teologia giudaicocristiana di stampo dogmatico. La vocazione matematica spinoziana costituisce in lui una forma nevrotica, il tentativo di dare una facciata quanto più convincente alla sua religiosità, e quindi un tentativo in apparenza vestito di razionalismo. Che Spinoza sia pseudorazionalista lo dimostrano vari contenuti delle sue posizioni sociopolitiche, in aggiunta alla sua nevrotica matrice teologica. Nessuno può ammantare misoginia, omofobia e xenofobia di razionalismo. Il Dio veterotestamentario, quello più specificamente ebraico, è misogino, omofobo e xenofobo7. E Spinoza ne ripropone i temi. Il filosofo giudeo usa nei suoi testi i termini “mulier” e “foemina” quali sinonimi, caricando entrambi dell’accezione spregiativa patristica posseduta dal secondo. Perlopiù adopera questo. In un piccolo paragrafo dell’“Etica” addirittura compare tredici volte. Nella mentalità spinoziana il concetto di “foemina” si contrappone a quello di “vir” (il cui significato si riversa nel sinonimo parimenti usato “homo”: in ossequio al suo sistema Spinoza non distingue molto il lato fisiologico da quello intellettivo, perché rappresenterebbero la medesima cosa vista da “attributi” diversi). La gerarchia umana stabilita da Dio risulta: viri, mulieres, pueri. Una donna per il pensatore ebreo sarebbe sotto il profilo intellettuale una via di mezzo tra un bambino e un uomo adulto. Dentro tale misoginia di ispirazione giudaicocristiana si rintracciano le prove di assenza di una sincera, autentica e vera vocazione razionalistica, poiché non si possono affermare assurdità che già Platone aveva dimostrato false. La partecipazione alla Ragione non ammette differenze di genere, tuttavia Spinoza permanendo nel reazionario solco antifemminista riecheggia bestialità, le quali lo qualificano come un uomo non soltanto chiuso in pregiudizi irrazionali (e non dunque aperto a un corretto uso della Ragione), ma anche (a dispetto di un sedicente status di pensatore razionalistico) affetto da nevrosi. Uno che pensa nella veste di filosofo non dovrebbe andare a impantanarsi in simili cose, anzi dovrebbe superarle. E lui non lo ha fatto: ha costruito un Dio onnivoro (alla maniera di Saturno) ponendolo addirittura nella qualità di garante di un simile ordinamento misogino, omofobico e xenofobico. Come detto, Spinoza disprezza le donne. Sono quelle che piangono. Ci sono poi le «mulierculae». Le spiegazioni spinoziane dei deficit femminili sono chiare e sconcertanti. Egli giustifica il fatto di una “foemina” che nell’Antico Testamento profetizzò perché la donna possiede una naturale carenza intellettuale, e dunque sarebbe più propensa all’immaginazione, la caratteristica connotante i profeti a dispetto della visione razionale. Il re Giosia si rivolse a una donna in luogo dell’indisposto profeta Geremia «quae ex ingenio muliebri magis apra erat». Cioè «in forza di [ex]» un difetto costitutivo Spinoza sta qualificando una capacità femminile, e non in seguito a una prerogativa che potrebbe essere denotata attraverso una forma positiva. Il filosofo ebreo è tanto sconcertante quanto sorprendente. Nel ribadire una sola forma lecita di congresso carnale, quella eterosessuale matrimoniale volta alla procreazione di figli (come i precetti giudaicocristiani esigono), egli, a sua insaputa, ha scoperto la “libido” freudiana e l’ha sotterrata sotto il suo pseudorazionalismo al posto di inquadrarla sul serio in un contesto di vera analisi razionale. Ha sovrapposto su tutto il suo campo d’esame le proprie credenze dogmatiche religiose, spacciandole per espressioni di una Ragione universale. A proposito del dettaglio appena evocato ricaviamo che Spinoza, oltre a non avere una matura lucidità psicanalitica, in quanto bloccato da nevrosi religiose, è altresì omofobo. Riguardo a Freud e misoginia, l’autore giudeo, nel suo antifemminismo radicale, cita un passaggio dello storico Curzio Rufo, il quale, nel rifiuto e disprezzo della possibilità che le donne possano partecipare al governo della res publica, prospetta il paragone foemina/castratus. In aggiunta alla rievocazione di una bestialità in funzione di diminutio, Spinoza ha qui vagamente intuito la freudiana teorizzazione del complesso femminile di castrazione. Il filosofo ebreo non nutre alcun riguardo verso le donne, le quali vuole decisamente fuori della politica amministrativa. Per lui il potere politico si declina solo al maschile. Il modello sociale spinoziano non è affatto improntato a uno spirito liberale completo. Accanto al lasciare le «mulieres […] in potestate virorum», ammette la schiavitù (servi in potestate dominorum), e l’esclusione dalla vita politica comune dei rei di «turpe vitae genus» (vale a dire, per esplicitare un esempio, degli omosessuali). La donna è agli occhi di Spinoza inferiore all’uomo per Natura riguardo a fortitudo animi e ingenium, ed egli rifiuta con fermezza una possibiltà di parità di genere. Ritiene inconcepibile donne intellettuali, mentre le declassa a soggetti di mera generica rilevanza sessuale8. Spinoza la spara veramente grossa quando afferma che la partecipazione della donna alla vita politica della comunità possa costituire un magnus pacis detrimentum. Questi elementi antifemministi del pensiero spinoziano costituiscono punti imprescindibili di estrema gravità, tra l’altro. A Oudewater, cittadina olandese sotto il dominio cattolico spagnolo (Spinoza visse nell’Olanda indipendentista e liberale del suo tempo), all’era dell’autore ebreo, si praticava la pesatura delle donne allo scopo di stabilire, in caso di “leggerezza”, l’appartenenza alla categoria delle streghe. E lui prende posizione contro il gentil sesso in luogo di avanzare proposte sostanzialmente liberali. La libertà di cui parla Spinoza non rappresenta un concetto genuino e limpido, bensì una libertà orwelliana: quella dell’animal farm, dove tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono alla fine più uguali di altri. Egli non indossa i panni di un illuminato equo liberalismo, rivendica solo lo spazio, toltogli da un antisemitismo in generale sempre deprecabile, per poter attuare un suo modello totalitario, una androcrazia omofobica, addirittura informata da razionalità divina (a suo modo di vedere). Spinoza eredita tutti i limiti della visione sociopolitica e antropologica veterotestamentaria (rinnovati con vigore dal Cristianesimo) e non se ne rende conto, prigioniero nel suo kafkiano recinto mentale. Egli pone sullo stesso piano di valutazione la misericordia muliebre, la parzialità e la superstizione. Giudica che le donne siano più fonte di penosa gelosia a pensarle fedifraghe, che non di normale benessere, a causa di loro inconstantia et fallax animus. Lui fu vicino al matrimonio e venne lasciato da lei – oserei dire, fortunatamente – a vantaggio di un altro più facoltoso. Non so quanto c’entri la motivazione economica in tale abbandono di questa, comunque, avveduta precorritrice di Regine Olsen, tuttavia per Spinoza la donna è ancora la porta dell’inferno che introduce alla perdizione della retta via. Se pensiamo che il filosofo ebreo accoglie la validità normativa in termini morali della Scrittura ci rendiamo conto con chiarezza in quale circolo di idee si sia andato a impelagare senza scampo9. Egli reputa i Giudei un popolo eletto da Dio ma non in maniera esclusiva. Nutre una concezione weiliana in ciò. La patologia nevrotica spinoziana proviene dalla sua personalità, non dagli insegnamenti religiosi che ha ricevuto, poiché poteva essere più equilibrato facendo uso di quella ragione che lui ha invece distorto e piegato verso i suoi interessi speculativi di stampo appunto nevrotico-religioso. Spinoza crede che sia l’odio antisemita a tenere in vita il popolo ebraico, che la circoncisione sia lo strumento atto a contrassegnarlo in questa lotta per la sopravvivenza, la quale a suo avviso potrebbe terminare con la costituzione di uno Stato giudaico moderno se Dio vorrà di nuovo accordare agli Ebrei una nuova forma di predilezione. Spinoza adotta la Bibbia cristiana e accetta la validità neotestamentaria. Gesù Cristo sarebbe per lui un interprete razionale, il quale ha visto nella Sostanza-Dio le verità divine nitidamente, a differenza di limitati predecessori veterotestamentari. Il pensatore giudeo distingue chiaramente filosofia e teologia, e pensa di poterci parlare dal primo campo in virtù di un presunto esercizio di razionalità, ma in verità ci parla sempre da teologo nevrotico. A suo modo di vedere, Scrittura e filosofia, fides et ratio non sono in contrasto. L’inclinazione freudiana di Spinoza si trova di nuovo nel punto in cui chiarisce la nascita del diritto positivo dalla limitazione del diritto naturale inteso quale lecita possibilità assoluta di agire al fine di assecondare la propria personale natura, qualsiasi essa sia (Es) e cioè priva di una posteriore inquadratura razionalistica (principio di realtà): è preferibile, allo scopo di tutelare la propria integrità, approdare a una condotta ragionevole la quale mantenga la coesione sociale in luogo di una generale originaria anarchia hobbesiana. Spinoza chiama potere democratico (democrazia) il potere assoluto di uno Stato Leviatano hobbesiano. Simile forma di sovranità statale spinoziana è incondizionata, subordina tutti i componenti sottostanti al centro rappresentativo di essa. Il filosofo ebreo postula uno Stato etico dal momento che esso ha rilevato dal basso il requisito della razionalità delegata in modo universale (in parole povere qui c’è già Hegel). E tale Stato, stando all’avviso spinoziano, va sempre comunque seguito, pure se sbaglia. L’auspicio dell’autore giudeo è ovviamente quello che il potere sovrano possa evitare, in previsione della propria conservazione, gli errori. Egli parla di una comunità di uguali deleganti, tuttavia, a ben guardare, la sua non rappresenta una vera e propria democrazia di uguali dacché ha escluso, sulla base di assurdi pregiudizi, tutto il genere femminile della popolazione e gli indegni per, a volte discutibilissimi, motivi morali. Il pensiero politico di Spinoza ci prospetta una forma di borghese apartheid misogina, omofoba e xenofoba. La distopica liberaldemocrazia spinoziana si mantiene peraltro in linea con la veterotestamentaria ebraica xenofobia10. Spinoza, il quale possiede una contorta idea di pacifismo (per lui vale il “si vis pacem para bellum”), ci spiega (irrazionalmente) che, se una città nemica occupata non offre la sicurezza di una stabile e tranquilla gestione degli sconfitti, è meglio raderla al suolo e deportare la popolazione. Il pensatore ebreo ha teorizzato un modello di democrazia borghese (anticipante uno schema preso di mira da Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”), dove stabilità e quiete sociali (di huxleyana memoria11) costituiscono dei cardini, e dove il distacco dello Stato da problematiche teologiche divisive viene più apprezzato di un intervento dirimente. Secondo Spinoza, al fine di creare una società coesa, non è bene lasciare la proprietà immobiliare nelle mani della molteplicità dei cives, poiché il frazionamento proprietario sarebbe movente di divisione. Preferibile demandare a un ente pubblico la proprietà di case e terre, il quale provvederà ad affittarle. Il ricavato andrà speso in parte nel settore della difesa militare, in parte destinato al soggetto detentore della sovranità statale. Spinoza lascia alla singolarità del civis a più ampia libertà nel campo delle attività finanziarie, bancarie e commerciali, la cui fluidità e la cui diffusione reputa causa di corresponsabilizzazione. Dai prestiti bancari o personali a interesse bisogna, a suo avviso, escludere gli stranieri. Questo gli ha ispirato il suo nativo mondo olandese (essendo nato ad Amsterdam nel 1632), il quale gli ha garantito un migliore spazio di vita. Spinoza osserva che un essere umano non può essere giudicato in tribunale sulla base delle idee religiose bensì sulla base di quel che fa. Allorché c’è «Charitatis et Aequitatis exercitio» da parte del singolo non ci sono problemi di sorta in ambito religioso, come anche in generale. Il filosofo giudeo, però, nel suo argomentare in merito produce altresì un significativo esempio legato al suo modello sociopolitico, ed elogia la società liberal-borghese nel momento in cui si mostra incurante degli aspetti religiosi, ma attenta in banca ad esempio a guardare solo il grado di ricchezza della gente e la affidabilità comportamentale. L’autore ebreo, in vita, fu vittima di emarginazione da parte dei suoi originari correligionari, uno dei quali cerco persino di ammazzarlo. Spinoza, il quale non poteva disprezzare giustamente un ideale di pacifica e libera coesistenza sociale, non seppe elevarsi a posizioni di superamento della misoginia, della omofobia e dello schiavismo insiti nella tradizione giudaicocristiana. Alla fine egli rimane un pensatore di impostazione religiosa, alla ricerca di una libertà i cui benefici non ripartisce con “carità ed equità”. Rimane parziale. Mi chiedo se lui possa considerare eversive le pari opportunità di genere in politica e nella società, e l’accettazione degli omosessuali, giacché la sua presunta razionalità divina si manifesta misogina e omofobica. In mezzo a queste perplessità, la libertà che Spinoza teorizza, con pertinenti forme argomentative, in abstracto pregevoli e raffinate, sembra in fondo apparire soltanto la propria. Esiste dunque un velo di ipocrisia nella sua esaltazione (riservata non a tutti) della libertà di pensiero e di opinione? Egli è in grado di dire che le credenze astrologiche dei magi evangelici fossero non scientifiche (ma prodotto di una fantasia ad hoc indicativa), però i suoi limiti di vedute non li sa affatto notare, intrappolato nel nevrotico recinto teologico biblico. Se visse appartato, ciò non potrebbe essere stato in seguito a un calcolo di convenienza autoconservativa? Spinoza visse in quelle epoche in cui i cristiani, come scrisse, si scontravano ferocemente inter se avendo fatto scadere la religione al livello di un’estetica di potere. Disprezzava altresì l’antico mondo pagano, a testimonianza del suo sostrato religioso più che schiettamente filosofico. La richiesta di libertà spinoziana pare in primis mirare alla soppressione (lecitamente richiesta e richiedibile, nonché auspicabile) dell’antisemitismo cristiano. Ora, però, il sistema filosofico di Spinoza si rivela aporetico: se tutto si svolge secondo un piano divino all’interno dalla Sostanza, che senso ha andare opporsi contro l’ineluttabile corso del reale? Nell’ottica filosofica spinoziana l’antigiudaismo non dovrebbe essere un momento storico imprescindibile e inevitabile? So che si tratta in pratica di domande assurde, però scaturiscono dalle aporie spinoziane. Dal momento in cui il filosofo giudeo spiega che pure il peccato originale di Adamo nella prospettiva di Dio era razional-hegeliano, non era un male, ma che anzi il male in assoluto non esiste perché lederebbe la perfezione divina; che senso ha lamentarsi per problemi secondo lui visti dalla prospettiva inferiore, umana, limitata? Contestare l’antisemitismo non equivale a contestare i progetti di Dio per la storia umana? Se il male esiste soltanto a causa dell’incapacità di valutare tutto l’insieme del reale in divenire, perché Spinoza si concentra su cose che reputa dettagli minori allo sguardo di Dio? Perché non trova quella pace interiore prevista dal suo sistema nel contemplare il tutto in Dio? Perché nella tragica tristezza dell’antisemitismo non si rallegra più e si ribella de facto al liberticida Dio giudaicocristiano (il quale ha preteso invece di esaltare maniera assoluta)? Le contraddizioni nella testa di Spinoza sono pesantissime, denotano nevrosi kafkiane e non uso di razionalità genuina. Il pensatore ebreo, come visto, si rivela in ultimo più un teologo nevrotico e dogmatico, un costruttore di uno pseudofilosofico sistema di pensiero, messo in crisi dal creatore stesso, artefice di aporie radicali e insuperabili, le quali dimostrano l’orizzonte nevrotico spinoziano e un finto richiamo alla razionalità autentica. Spinoza ha ricevuto una formazione educativa giovanile connessa al mondo ebraico, e questa impronta ha indirizzato la sua mentalità in maniera stabile. Quando il filosofo giudeo puntualizzò le cose seguenti che riporterò in sintesi, non va trascurato che il suo elogio della libertà discrimina le donne (ritenute dotate di scarsa razionalità), gli omosessuali (per motivi di morale religiosa biblica) e gli schiavi. Sebbene qui Spinoza dica cose condivisibili e apprezzabili, dobbiamo ricordare che sono unicamente riservate a una parte del genere maschile della società. La presunta razionalità del patto fondativo sociale spinoziano è maschilista (e ritroveremo la tara maschilista in Hegel). Il Deus sive Natura si mostra misogino, omofobo e schiavista, nonché legittima la pena capitale. L’autore ebreo parla di una facultas libere ratiocinandi dell’individuo la quale il potere politico non può né praticamente, nonostante metodi repressivi, né lecitamente sopprimere. La verità e la falsità non possono essere stabilite e imposte per legge. La ragione umana abita in uno spazio interiore, che non costituisce uno spazio pubblico (al pari dell’intera psiche del singolo). Perciò questa dimensione privata non può essere campo di censura statale. Finis Reipublicae revera libertas est, precisa Spinoza. Il modo in cui raggiungere la devotio erga Deum non è materia di deliberazione pubblica rivolta alla collettività. Esiste nei confronti della politica un diritto personale di critica libera, pacifica, intellettualmente onesta. L’ordinamento giuridico vigente va comunque rispettato. Spinoza non approva spiriti eversivi e rivoluzionari. Per lui vale il principio: salus reipublicae suprema lex esto. Non va dimenticato che lo Stato nelle concezioni del filosofo giudeo nasce storicamente in seguito alla delega comunitaria di porzioni di razionalità individuali, le quali assommate generano una razionalità super partes e vincolante in quanto tale. La macrorazionalità statale prevale in ogni caso sulla microrazionalità personale, a prescindere da chi abbia realmente ragione. Lo Stato, in quanto tale non può essere oggetto di contestazione senza rompere il patto comunitario di delega della razionalità. Tuttavia da parte del potere statale «quae prohiberi nequeunt, necessario concedenda sunt, tametsi inde saepe damnum sequatur». La facultas libere ratiocinandi non può essere messa a tacere, essendo anche la base del progresso scientifico. L’impossibilità dello Stato a mettere a tacere la ragione individuale, nel caso di repressione della libertà di pensiero e del diritto di critica, comporterebbe una deriva di ipocrisia. I depositari di «bona educatio, morum integritas, et virtus» resterebbero sempre intolleranti verso un regime liberticida. Spinoza reputa controproducente per lo Stato fare martiri fra i liberi pensatori (in ciò si riscopre in linea con un ragionamento dell’orwelliano O’Brien), meglio lasciare un’aperta dialettica di punti di vista (la cui pericolosità comunque nei riguardi dello Stato liberal-borghese si trova limitata da azioni possibili di censura e repressione antieversive e antirivoluzionarie: bisogna evitare dialettiche violente, neanche gradite allo huxleyano Brave New World). Da questo confronto pacifico dovrebbe emergere una maggioranza nel caso della politica la quale, in seguito al patto fondativo della razionalità condivisa, possiede il diritto di esprimere la norma vincolante (pur sempre emendabile o abrogabile in futuro). Le chiare, evidenti, contraddizioni del pensiero sociopolitico di Baruch Spinoza ci rivelano una personalità molto legata e vincolata al suo tempo e alla sua tradizione culturale familiare. Più che un difensore della libertà, mi pare l’edificatore di una distopica (capitalistica) visione del mondo, dove da un lato il suo onnivoro Dio non lascia nessuna altra libertà che quella di adeguarsi a un preciso schema teologico misogino, omofobico, schiavistico, e dall’altro Spinoza cerca di sdoganare un concetto di libertà borghese, laicizzante e tendente a spegnere i violenti scontri religiosi non molto favorevoli a un regime di vendite mercantili. L’autore ebreo mi sembra in particolare un teorico e promotore del primato della finanza speculativa bancaria. Nella sua nevrosi egli non è un ateo, come gli fu rimproverato. È invece più vicino al protestantesimo attivistico. Dio predilige Abele, cioè l’attività imprenditoriale a rischio, e non Caino, curatore della più sicura rendita immobiliare proveniente dalla terra. Dio predilige la manifattura e lo strumento del denaro. Il teologo giudeo postula perciò non soltanto un Deus sive Natura, ma anche un Deus sive Capitalismus. L’attività divina, realizzante il suo essere in interiore, non si ferma staticamente di fronte alla Natura. Detto fuori-di-sé, in termini hegeliani, già prodotto attivistico di Dio, viene ulteriormente sottoposto ad attività, la quale smonta la materia (l’immobile) in direzione del bene mobile grazie alla manifattura, e procede infine alla volta dell’astrazione finanziaria (il denaro). L’azione divina sulla Natura mediante l’uomo costituisce una techne, cioè una conoscenza universale messa in pratica; e in tal senso si profila un dominio della tecnica sulla Natura (componente quindi dell’amore del Dio spinoziano per sé). L’attività umana rappresenta un riflesso dell’attività divina. Dio è il primo tecnocrate (sia in ordine cronologico che gerarchico). Il Deus sive Capitalismus di Spinoza rappresenta l’archetipo filosofico del “distinto crociano” dell’economia”. Scremate da tutto il resto sostanziale, le parole del filosofo ebreo dedicate alla libertà sono formalmente molto belle e condivisibili, ma se poi mettiamo a fuoco rimaniamo delusi a scoprire che si tratta di uno specchietto per le allodole, e per giunta discriminante una grande fetta del genere umano. Se egli avesse distinto gli esseri umani ponendo come riferimento il possesso effettivo del Logos (QI), senza farsi trascinare da idee reazionarie, sarei stato d’accordo con lui12: ha sbagliato a non seguire una via platonica. L’attivismo teologico di Spinoza va altresì a sfociare in un’esaltazione della libertà la quale possiede un risvolto economico. Gli Ebrei, per tradizione esilica (conseguenza di irrazionale condannabile antisemitismo), erano dediti al commercio e alla finanza (lecite attività in ogni caso). Che egli vada a sposare un ideale liberal-borghese non è un caso: ciò costituisce de facto un conveniente matrimonio per affinità di interessi ideologici e anche materiali. La famiglia di Spinoza era coinvolta in attività imprenditoriali, andate fallite. Egli è vicino all’idea di predestinazione luterana, la cui radice prossima è agostiniana, ma quella remota è stoica. Nel pensatore giudeo compare quella mentalità attivistica del protestantesimo, e ben rilevata da Weber, in Spinoza presente grazie ai suoi propri canali a latere. È stato proprio costui in un illuminante e significativo esempio a chiarirci che nella sua liberal-democrazia (borghese) il denaro posseduto e l’affidabilità a gestirlo costituiscono cose importanti. Tutto il resto viene declassato, dalla religione alle pari opportunità di genere, a roba che non deve assurgere a intralcio del sistema liberal-capitalista. È evidente che pure in Spinoza l’elezione divina si rende riconoscibile nella forma del “successo attivistico”. Il filosofo ebreo non esalta la ricerca della ricchezza (effetto), la quale verrebbe dunque da sé (premio), come nel caso di Giobbe, esalta esclusivamente il momento attivistico in sé (causa). Ricercare la ricchezza rappresenta una passione nell’accezione spinoziana, un impulso non lucido, il quale farebbe smarrire l’ideale supremo di riscoprirsi in Dio e nei suoi progetti. L’attivo impegno (nevrotico) dev’essere questo: conformarsi al pensiero e alla volontà divine. Il rifiuto di una prospettiva di diretta ricerca delle ricchezze avanzato da Spinoza non abolisce il valore di segno di elezione divina nella sua teologia. Tale ragionamento di rifiuto di intenzione ad agire è comprensibile: l’essere umano nella concezione spinoziana deve concentrarsi sulle cause e non sugli effetti. Esiste un parallelo nelle analisi weberiane sull’etica protestante di quest’atteggiamento di repulsione da parte dell’autore giudeo circa la ricchezza desiderata in quanto tale (e non attesa invece in premio per l’attivismo). Si tratta del caso dell’accumulazione capitalistica: Weber nota che i grandi detentori di capitali tendano a non sprecare il denaro, come se non esistesse nelle loro mani. Spinoza dice la stessa cosa: agisci, come se il denaro e le ricchezze non esistessero. Quel che conta è unicamente l’agire (nevrotico compulsivo). Il filosofo ebreo sarebbe potuto vivere di rendita grazie a un considerevole estraneo lascito, però preferì fare l’ottico. Sarebbe potuto andare a fare il docente in seguito a una prestigiosa proposta, ma preferì il lavoro manuale. Pare che il Dio-Sostanza-Attività spinoziano apprezzi molto il lavoro della manifattura per realizzarsi. Alla mia esposizione manca in conclusione quella parte dedicata a Eraclito nella veste di ispiratore del semita Zenone di Cizio, dal cui stoicismo sorse poi il Cristianesimo. Allo stoicismo si riagganciò l’Ebreo Spinoza per via delle parentele concettuali semitiche. Ecco quindi quell’asse che dal pensatore presocratico di Efeso passa dallo stoicismo e dal Cristianesimo per giungere a Spinoza e infine a Hegel. L’esame della sezione riservata a Eraclito nell’opera di Diogene Laerzio offre ottimi spunti di riflessione circa una rilettura spinoziana e hegeliana del filosofo di Efeso. Alcuni brani del biografo greco costituiscono preziosi spunti in tale direzione. Per Eraclito il fuoco costituisce l’immagine del principio determinate, sempre esistito, un principio di forma; dunque, un contenitore, che al suo interno sviluppa una continua dialettica di alterità nella processione dei suoi elementi, un insieme il quale nel complesso mira alla stabile permanenza ontologica della forma-logos (determinante il divenire continuo del suo contenuto-materia): in parole povere questo rappresenta l’embrione della Sostanza di Spinoza e dell’Assoluto di Hegel. Nelle parole del biografo greco a proposito di Eraclito, in aggiunta a intravedere le analogie stoico-semitiche col monismo spinoziano (a sua volta tra le fondamenta hegeliane), possiamo ritrovare la teorizzazione del “negativo” quale motore universale. Senza il “negativo” (“modo” spinoziano, “fuori-di-sé” hegeliano) non c’è divenire: l’Assoluto ante litteram eracliteo poi si ricompone; e il determinato viene sussunto nel determinante, la materia-divenire nella forma armonica. Il contenitore, che Eraclito dal canto suo chiama Logos, esce fuori-di-sé dal momento tetico (formale), cioè dal suo stretto essere un principio determinante di forma. Ecco così recuperati, dopo il chiarimento del “negativo”, i termini canonici della dialettica hegeliana. A Eraclito non sfugge neanche il problema del “cattivo infinito” giacché afferma che l’universo sia limitato (un’affermazione a questo punto da intendersi più riferita al suo interno e alle sue interiori dinamiche di opposizione: il cosmo si limita in primis in interiore). E infine il filosofo di Efeso supera pure la problematica di hegeliana di una sola chiusa crescita dialettica storica parlando di macrocicli rigenerativi. Tale idea di Eraclito sarà ripresa dallo stoicismo, il quale in generale attraverso Spinoza, sarà di spunto a Hegel: il Logos egemonico e le ragioni seminali sono idee stoiche di derivazione eraclitea.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Distopie occidentali”
 
1 “L’antipanlogismo di Zamiatin” (2015).
 
2 Si veda in particolare il mio studio Gesù stoico e dionisiaco contenuto nella mia pubblicazione Partita a scacchi (2022).
 
3 Per approfondimenti indico miei lavori: 1) dentro la mia opera Note di critica (2017) la sezione intitolata Radici sumere di Ebraismo e capitalismo; 2) la monografia Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016).
 
4 Si veda lo studio segnalato nella nota 2.
 
5 Suggerisco un approfondimento grazie a questo mio scritto: Radici egizie, contenuto nella mia monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013).
 
6 Ho dedicato una analisi al teologo danese: L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard, nel mio saggio Filosofie sadiche (2021).
 
7 Al fine di approfondire consiglio due miei scritti: 1) Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi, dentro la mia opera Considerazioni letterarie (2014); 2) Aristotele e il pericoloso regno di Dio, dentro il mio saggio Teologia analitica (2020).
 
8 Per approfondire indico un mio studio: Sul biblico “Cantico dei cantici” e su Gn 1,1, all’interno della mia pubblicazione Radici occidentali (2021).
 
9 Si veda il punto 2) di nota 7.
 
10 Vedasi nella nota 7 il punto 2).
 
11 A “Brave New World” di Aldous Huxley ho dedicato una monografia: Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley.
 
12 Allo scopo di possibile approfondimento indico un mio scritto in merito: Le implicazioni filosofico-politiche del mio schema psicanalitico, contenuto nel mio saggio Storia e pensiero (2023).

giovedì 11 maggio 2023

LA LIBERTARIA CRITICA AL CAPITALISMO SELVAGGIO DI ROBERT ANSON HEINLEIN

di DANILO CARUSO
 
Nel 2003 dopo l’imprevisto ritrovamento del testo inedito, risalente alla fine degli anni ’30, il romanzo intitolato “For us, the living”, opera di Robert Anson Heinlein (1907-1988), fu dato alle stampe. In origine non raccolse l’approvazione dell’editoria negli USA alla vigilia della seconda guerra mondiale. Le ragioni saranno evidenti non appena esporrò la mia analisi critica del romanzo: quelle idee rappresentate dallo scrittore americano non avrebbero avuto una facile via di pubblicazione allora. Perciò il testo finì accantonato e sepolto dal suo creatore, sino al suo inaspettato recupero post mortem. Ritengo “For us, the living” un romanzo molto rilevante perché ci mostra un qualificato punto di vista dell’assetto sociopolitico statunitense cronologicamente ruotante attorno al 1939. L’autore guarda al suo recente passato, cogliendone gli aspetti contraddittori, ma soprattutto guarda al futuro manifestando delle aspettative per l’immediato e degli auspici idealistici nei riguardi del futuro remoto (il quale nel romanzo si spinge al 2086). Questo prolungato sguardo di un secolo e mezzo circa incrocia il nostro al principio del XXI secolo. La cosa risulta proficua nel confronto storico (sin dove ci è possibile) poiché simile operazione ci restituisce spunti storiografici. Ciò che Heinlein, si attendeva, posto accanto a quello ch’è realmente avvenuto, ci dà una misura del periodo anteguerra negli Stati Uniti. Possiamo intuire un senso di delusione dell’autore nel dopoguerra, il che contribuì al sotterramento a tempo indeterminato di “For us, the living”. Il suo creatore fu prima della redazione del romanzo politicamente impegnato nelle file del Partito democratico in California, dove fu candidato, senza conseguire l’elezione, al Parlamento statale nel ’38. Quantunque egli avesse coscienza della torbidità della politica, pare di intravedere, a posteriori, dalla lettura della sua pregevole opera, qualche strato di ingenuità (poi sicuramente rimosso). Sulla base di tutte queste premesse ci possiamo addentrare nel romanzo, il quale ha come protagonista un uomo morto nel 1939 negli USA risvegliatosi dall’oltretomba grazie a un procedimento scientifico negli Stati Uniti del 2086. Il testo heinleiniano sviluppa un paragone tra quei due mondi collegati da un arco storico venturo immaginato. Viene ricordata la non tanto florida situazione economica della nazione alla fine degli anni ’30 a causa dei deficit di bilancio, della considerevole presenza di disoccupati e dell’alto debito pubblico. Heinlein evidenzia l’ipocrisia borghese della società statunitense della sua era (impantanata nelle sperequazioni, nella povertà e nel disagio dei proletari), un sepolcro di corruzione imbiancato, un castello di falsità e di ricchezze disoneste, pervasi a ogni livello da una volontà di sopraffazione e di raggiro a svantaggio dei semplici, dalla politica marcia alla religione e ai capitalisti che si intromettevano nello spazio della prima servendosene per i propri obiettivi. In simile clima, che rammenta gli effetti collaterali dell’attivistica etica protestante, lo scrittore americano sottolinea altresì la maniera in cui venga apprezzato il successo personale nella società a prescindere da un’adeguata valutazione morale. Quel che conta è il segno dell’elezione divina alla salvezza ultraterrena, non il suo modo di raggiungere questi segni visibili di benessere terreno. Perciò l’onestà non rappresenta più un altissimo valore, dal momento che il privilegio divino non si ottiene mediante essa e che questo costituisce un a priori a prescindere (predestinazione). In ossequio a una tale visione le forme assistenziali statali vengono considerate bestemmie: chi sta male, chi è privo di cibo, e non possiede i mezzi per rimediare non rappresenterebbe un problema “pubblico”. Le vicissitudini di costoro sarebbero questioni “private”, di cui non occuparsi attraverso lo Stato. Heinlein non manca inoltre di condannare il maschilismo dell’uomo americano di allora. Da lì in poi l’autore immagina la storia a venire rispetto a lui cominciando col dare la Casa bianca nel 1940 ai repubblicani. Costoro abbandoneranno i provvedimenti di assistenza ai disoccupati, il che inasprirà le tensioni sociali, e indurrà il Congresso a praticare di nuovo le politiche assistenziali. Il creatore del romanzo inserisce la morte dell’ex presidente Roosvelt nel ’44, un dettaglio immaginario evidentemente poco gradito, tra l’altro, quando lo scrittore propose la sua opera per la pubblicazione. In quegli anni ’40 immaginati è scoppiata la guerra in Europa (e non era così difficile prevederlo, o vederlo direttamente alla fine del reale 1939): Heinlein ci dice che a vincere saranno Francia e Regno Unito a scapito di Germania nazista e Italia fascista, Hitler si suiciderà e Mussolini rimetterà il suo mandato nelle mani del re. Gli USA non parteciperanno alla guerra a fianco di Francesi e Inglesi. L’autore di “For us, the living” ci mostra simile cosa quale un motivo di vanto del presidente F. D. Roosvelt, desideroso di tenere gli Stati Uniti fuori di un possibile secondo conflitto mondiale (la storiografia della realtà storica ha elaborato pareri divergenti). La seconda successiva presidenza americana immaginaria repubblicana aveva scaricato sugli Europei l’origine dei problemi socioeconomici interni, i quali non era stata in grado di risolvere. Aveva chiesto che gli sconfitti nella Grande guerra saldassero i loro debiti. E altresì aveva intrapreso una politica interna autoritaria, reazionaria e nazionalista. Questo piano comportò l’emarginazione di donne e stranieri parallelamente alla messa in atto di un radicalismo moralistico rivolto ai giovani e alle famiglie. Tale presidente Malone, del partito dell’elefantino, arrivò a instaurare una dittatura reprimendo le manifestazioni di dissenso della popolazione con la forza, dopo aver proclamato uno stato di emergenza nazionale. Lo iron heel terminerà nel 1950 in occasione dell’uccisione del presidente despota, consentendo il ritorno alla normalità, in seguito alla quale Fiorello La Guardia (il sindaco di New York) terra la White house per otto anni. Costui proseguirà la politica di disimpegno internazionale roosveltiana evidenziata nel romanzo (Heinlein considera una mossa sbagliata l’intervento statunitense nella Prima guerra mondiale). All’operato di La Guardia si deve la creazione di una banca pubblica allo scopo di superare i limiti imposti dagli interessi di parte e dallo spirito affaristico delle banche private (difetti a sua volta proiettati sulla privata Federal Reserve, la quale concede il suo denaro solo ad altre banche). Heinlein a proposito espone ragionamenti economici che condivido. Egli sottolinea il fatto che la moneta sia diventata una merce e che non venga ritenuta uno strumento di crescita della comunità: qui ricorda la pertinente critica di Marx. La banca pubblica di la Guardia prestava il proprio denaro calcolando il tasso d’interesse sulla base dei costi di gestione bancaria, sommando un aspetto di assicurazione equivalente in pratica a coprire eventuali perdite di erogazione. Alle banche private fu altresì impedito di prestare denaro al di fuori di una propria copertura prevista e concretamente esistente, allo scopo di evitare l’indiscriminato aumento della massa monetaria attraverso passaggi fittizi celanti in realtà scopertura di reale liquidità. Simili connotati costituiscono i pregi della società americana del 2086, la quale il creatore di “For us, the living” vuol elogiare nella sua utopistica prospettiva finale evolutasi da stadi distopici. Nonostante i progressi apportati dalle riforme laguardiane, poco più di un secolo prima, al principio della terza guerra intestina europea, negli Stati Uniti rimaneva un problema di sovrapproduzione, la cui via di soluzione fu trovata nell’America Latina. Simile riversamento di merci e tale invasione commerciale però produssero enormi effetti collaterali, poiché detta iniziativa indebitò gli Stati sudamericani al punto di renderli incapaci di pagare. Questa situazione, la quale urtò in primis l’Argentina (grande esportatrice agricola) sfociò in un conflitto fra gli Stati Uniti e i debitori insolventi iniziato nel 2002, allorché la marina americana attaccò infruttuosamente Buenos Aires. Dopo questo significativo successo (ottenuto grazie all’appoggio di Brasiliani e Cileni), gli Argentini conseguirono un secondo successo bellico di rilievo grazie al devastante attacco provenuto dal mare su New York nel 2003. Tale evento indirizzò le sorti della guerra perché durante esso perirono importanti dirigenti della finanza americana, ai quali Heinlein addebita l’intervento militare statunitense contro gli insolventi debitori stranieri sudamericani. Quel vuoto lasciò aperto il cammino alla volta della pace panamericana nel 2004. La spiacevole e tragica esperienza bellica indusse gli USA all’adozione del XXVII emendamento, il quale stabiliva che gli Stati Uniti per entrare in guerra dovessero passare, a meno di essere invasi, attraverso un referendum popolare approvativo in cui aventi diritto di voto sono gli abili al servizio militare. il creatore di “For us, the living”, comunque, continua a esprimere pensieri contro le partecipazioni belliche da parte esterna americana. Conseguenza di questo nuovo clima di idee la nazionalizzazione dell’industria militare statunitense: ciò rappresenta in generale un’ipotesi che apprezzo allo scopo di mantenere la pace internazionale più salda (meno produttori di armi privati, come ci dice Heinlein, meno finestre rotte di Bastiat e meno casus belli). Con la cessazione delle ostilità belliche riemerse negli Stati Uniti incalzante la questione della sovrapproduzione. Tuttavia fu reinterpretata in un nuovo modo: non come merce da smaltire all’estero, bensì da indirizzare al mercato interno. In quale maniera? Fornendo, con oculatezza, mediante la banca di Stato creata da La Guardia moneta gratis, stampata e distribuita ad hoc nella quantità occorrente. I prezzi al dettaglio furono calmierati al fine di evitare l’aumento inflazionistico, e scontati di un 10% riscattabile presso la suddetta banca nazionale degli USA. Detto piano non fu forzoso, ma ebbe la spontanea adesione degli esercenti. L’economia statunitense ne risentì positivamente. L’industria rifiorì riassorbendo la crisi e la disoccupazione. L’inflazione non crebbe anche perché parecchio di quel denaro aggiunto rimase figurato dentro le banche, depositato in conti correnti di esercenti cui veniva versato. Il nuovo modello socio-assistenziale americano esperito nel 2086 del romanzo contempla una universale sanità gratuita per i cittadini e provvede a erogare un “reddito di cittadinanza”, vale a dire una quota di denaro non soltanto utile alla sopravvivenza delle categorie di persone non occupate o non stipendiate, ma altresì funzionale all’acquisto di prodotti commerciali in maniera tale da allontanare la vexata quaestio della sovrapproduzione, problema derivante da mancanza di capacità d’acquisto della base sociale. Il merito di questo nuovo regime sociale risiede nel fatto che alla moneta non è stata fatta corrispondere più una convertibilità con l’oro bensì con prodotti di concreta utilità o con attività parimenti utili. Heinlein qui è molto filosofico, a prescindere dai ragionamenti di schietta impronta economica (risalenti a Clifford Hugh Douglas), e rievoca la distinzione epicurea dei bisogni umani: alcuni sono naturali, altri no; e fra tutti quelli naturali non tutte le possibilità sono necessarie. Tenendo d’occhio tale criterio si può costruire una società giusta ed equilibrata, sulla scia anche del pensiero aristotelico che respinge l’esistenza della povertà e di una soglia di arricchimento esagerato e controproducente. L’autore del romanzo indica la causa di tutti i mali di una società capitalistica, quale quella statunitense, nel denaro che rimane bloccato dalle accumulanti speculazioni all’interno delle banche private. Dunque lui ha esaltato il ruolo rivestito dalla banca pubblica di La Guardia e l’emissione statale di denaro coperta da beni concreti. La meccanizzazione della produzione, le nuove tecnologie emancipano dal lavoro nella catena produttiva sempre più persone, e non c’è motivo a fronte di una ricchezza reale (PIL) di lasciare nella povertà gente a causa della semplice ragione di non emettere moneta nella lecita misura (de facto avvalorata) e di offrirla gratis a chi ne avesse bisogno. Il sistema statale non crollerebbe, mentre entrerebbe in crisi progressiva davanti a sovrapproduzione non assorbita e disoccupazione dilagante nel momento in cui ulteriormente prendesse prestiti di denaro o vendesse titoli pubblici a vantaggio di banche private, nei confronti delle quali si ritroverebbe in una condizione finale di insolvibilità e costretto al default per via, appunto, della mancanza di liquidità a propria disposizione. Garantire quindi a tutti, sin dall’infanzia, la disponibilità e il diritto a una quota personale di denaro, con un PIL all’altezza, nel romanzo – come ben rimarcato dall’autore – ha reso i cittadini degli USA i padroni dell’apparato riguardante la loro economia, e non i prigionieri di una oligarchia capitalistica. Se il denaro diventa un mezzo di crescita, e non un fine alla volta dell’accumulazione e dell’arricchimento irragionevole, un modello liberal-capitalistico moderato può sopravvivere a vantaggio delle imprese. Le quali subiscono nel capitalismo selvaggio le manovre di speculazione bancarie: se le banche private non danno crediti le attività imprenditoriali possono rischiare di fallire e nello stesso tempo i tassi di disoccupazione crescere per un motivo o per un altro. In seguito a tutte queste considerazione a me sembra positiva la soppressione di tutte le banche private e la sopravvivenza di soli istituti di credito pubblici. Heinlein critica il peso di una possibile eccessiva pressione fiscale a carico delle imprese, giudicandolo un intralcio al circuito economico. Tuttavia al fine di evitare l’accumulazione capitalistica, che egli ugualmente disapprova, non ha manifestato favore all’idea di una partecipazione ai dividendi d’impresa da parte dei dipendenti in aggiunta allo stipendio fisso: potrebbe essere, secondo me, un ottimo canale per aumentare la facoltà d’acquisto a una determinata categoria di gente senza far ricorso al di là della sommatoria di reddito di cittadinanza standard e di stipendio a ulteriore conferimento di denaro gratis da parte statale. Va evitato ovviamente un rilassamento nell’inattività in seguito al minore coinvolgimento di persone nel settore produttivo favorito dalla tecnica, e il creatore di “For us, the living” suggerisce a chi non si dedicherà assiduamente ai lavori stipendiati extra reddito di cittadinanza di concentrarsi su attività intellettuali o di volontariato (non meno importanti nello sviluppo sociale del lavoro perlopiù manuale retribuito). Sono perfettamente d’accordo con lui che il tempo individuale vada liberato non per sprecarlo inutilmente ma per capire il mondo e contribuire in un modo o nell’altro al suo miglioramento. Circa le possibili attività intraprese in forma professionale con ritorno di lucro Heinlein fa menzione del caso dei medici: più medici, nel settore pubblico o privato, potrebbero contribuire a una migliore tutela della salute dei cittadini. Anche gli intellettuali sono apprezzati dallo scrittore americano, specialmente nel caso in cui non impiantano la loro attività legandola all’idea di guadagno. Tutti sono liberi di contribuire come meglio credono al benessere comune. E se poi ci fossero soggetti scarsamente attivi nella popolazione, il creatore di “For us, the living” rammenta che in ogni caso i lavoratori ufficiali, come visto, guadagnerebbero di più rispetto ai percettori di semplice reddito di cittadinanza, anche in virtù del fatto che una minore quantità di prestatori d’opera sul mercato comporterebbe, stando alla legge domanda/offerta, un costo di assunzione non certamente basso. L’autore del romanzo non ha simpatie marxiste e rifiuta il criterio marxiano del valore di scambio di una merce collegato ai parametri di tempo e lavoro necessari a produrla. Per Heinlein il valore di scambio del prodotto deriva dalla “desiderabilità” di esso e dalla moneta a disposizione dei potenziali acquirenti: La somma di tali due fattori poi giocando nel meccanismo domanda/offerta determina il prezzo di vendita reale, la quale avviene allorquando il produttore riscontri praticamente una differenza positiva tra costo di produzione e prezzo di vendita della singola merce. Lo scrittore americano attribuisce molta importanza all’intraprendenza imprenditoriale e alle innovazioni tecnologiche nella produzione, per lui la qualità del prodotto costituisce il requisito fondamentale in direzione della messa in commercio: i prodotti scadenti, in virtù della concorrenza, causano fallimenti. Non sono in disaccordo nei riguardi di simile modo di apprezzare la libera intraprendenza commerciale, però non posso far a meno di rilevare l’eventualità di derive. Si potrebbero indurre gli acquirenti, come rammentato da Marcuse, a desiderare le merci che comprano per ragioni in sostanza stupidissime (ad esempio lo status symbol). Non credo che il desiderio di una merce determini il suo effettivo valore, giacché si possono desiderare cose inutili o rese costosissime unicamente dal marchio. Campagne promozionali e disinformazione potrebbero addirittura impreziosire prodotti inutili, o addirittura nocivi, inducendo al loro consumo, a danno non solo della tasca ma altresì della salute. Una produzione onesta, come converrebbe Heinlein, sarebbe alla base dei prezzi di vendita. Quindi finiremmo sempre su posizioni ricardiano-marxiane: il tempo e l’energia coinvolte determinano i valori, e se ci volesse poco e niente a produrre, oltre a regalare i soldi, si potrebbero regalare pure i prodotti uscenti da catene meccanizzate a bassissimo costo. Però sfamare un’intera popolazione, ad esempio, per quattro soldi, in termini economici, riveste un valore di gran lunga infinitamente superiore a tutta la quantità di denaro che si possa emettere o accumulare. Alla fine non avremmo neanche più bisogno di usare molta moneta. Se il secondo decennio del XXI secolo negli Stati Uniti fu caratterizzato dalla problematica della sovrapproduzione, il terzo fu caratterizzato dal radicalismo religioso cristiano. Un nuovo movimento puritano e il suo leader avevano infatti catturato la scena. Costui ritenendo vicino il neotestamentario tempo apocalittico mise in piedi un’organizzazione integralistica grazie al concorso di adepti. Heinlein coglie l’occasione di rammentarci che gli Usa, sin dall’epoca coloniale, erano stati ricettacolo anche di due differenti tipologie di persone per quanto concernesse la categoria dell’opposizione dentro la società: i moralisti fanatici e i pacifisti anarchici. E, a proposito dei primi, ricorda altresì che, sebbene l’originaria carta costituzionale statunitense sia a favore della libertà di culto, gli estremisti religiosi hanno invaso sempre e condizionato la vita sociale e politica americana, e non sempre con metodi incruenti. Dalla morale sessuale a tutto il resto, molte idee religiose hanno conformato il sistema normativo americano nel tempo, restringendo i margini di libertà con il pretesto a volte integralistico e non proprio adeguato di sanare e correggere. L’errore sta nel considerare alcuni storicizzati principi provenienti dalla religione non come incrostazioni tradizionalistiche sedimentate dall’ossequio acritico dei più, bensì quali formulazioni di una illuminata ragionevolezza. Cosicché una buona parte degli Americani ha scambiato una nevrosi per buonsenso. Il progresso medico-scientifico del XXI secolo grazie all’introduzione di migliori metodi anticoncezionali e di cura delle malattie veneree radicalizzò lo scontro tra questo movimento religioso reazionario e integralista puritano e gli autentici liberal-democratici. Dalla sessualità allo svago tutto ricadde in questa battaglia pseudomoralistica molto estremizzata. Non si salvava pressoché niente in detta crociata mirante al sovvertimento dell’ordine costituito. La seconda metà degli anni ’20 divennero un regno del terrore inquisitorio, perché il movimento aveva ottenuto in seguito a manifestazioni progettate ad hoc l’acquiescenza e la disponibilità della classe politica. Tale patristico regno di Dio negli USA fu sconfitto infine sul piano politico elettorale da uno schieramento genuinamente e sinceramente liberale, non senza che si passasse da un confronto violento. Il ritorno della pace sociale e della tranquillità istituzionale fu sancito dalla nuova Costituzione statunitense del 2028, pietra angolare del futuro benessere, tangibile in quel 2086 della narrazione di “For us, the living”. Più in particolare nel testo del romanzo viene riportato il rinnovato principio costituzionale libertario: nessuno può essere privato della personale libertà se non è stato accertato un comportamento a detrimento di un’altra persona fisica, giacché le persone giuridiche sono state declassate e considerate rilevanti soltanto nella circostanza in cui siano immagine di un danno subito da persone fisiche. Quest’ultima cosa ha soppresso le possibilità di abusi, a scapito della collettività, compiuti da grandi organizzazioni (persone giuridiche) finanziarie e capitalistiche. Una qualificata formazione politica dei cittadini permette inoltre di esprimere scelte elettorali non superficiali. Il sistema giudiziario nel 2086 si mostra molto evoluto. La vecchia forma mentis sociale weberiana è stata dismessa, e tutti ragionano secondo schemi mentali non viziati da quelle tare nevrotiche attivistiche. Heinlein ha impostato il problema della devianza da una sana e normale condotta sotto il profilo psicanalitico. La nuova giustizia interviene sulla psiche dell’imputato, indagando le cause di deragliamento comportamentale. La prima cosa da fare adesso è rendere consapevole l’accusato del fatto che ha compiuto un eccesso (tipico, e magari approvato, soltanto nel passato). Esiste dunque un iter di correzione psichica cui un criminale può essere sottoposto, oppure costui può optare per il confinamento dentro gli USA, o anche per l’esilio, se non accetta il primo. Le parole dello scrittore americano sull’argomento inerente alla correzione sono profonde poiché colgono l’aspetto di incidenza delle nevrosi a carico del singolo in una guisa lucida; l’obiettivo dell’emendamento psicocomportamentale è proprio quello di curare alla radice il difetto. Bisogna evitare eventuali crimini nella società rimuovendo la possibilità di ripetere una dannosa induzione nevrotica. Il discorso del romanzo si fa molto interessante allorché capiamo che in esso entra l’intellettualismo etico socratico, perché il male è il frutto dell’ignoranza della propria nevrosi. Allorché v’è coscienza nitida e matura di essa, questa svanisce quale movente efficace di deviazione. Altresì si rivela pertinente a questa parte del testo esaminato il collegamento con la Legge morale kantiana: il soggetto, illuminato e edotto del suo sbaglio, viene portato ad agire in maniera universalmente esemplare volendo evitare un potenziale ritorno negativo legittimato dalla sua possibile prassi. Alla fine il nuovo sistema giudiziario americano mira attraverso una platonica indicazione dell’errore (ossia del malevolo sopravvento del cavallo nero della biga alata) a dimostrare razionalmente all’imputato che cosa sia “bene” e “come” perseguirlo. Il tutto passa dalla demolizione di nevrosi e passioni allo scopo di guidare al meglio la libido e di superare eventuali ricadute in un vecchio relativismo socioculturale di gruppo (dove ad esempio si possono alimentare e coltivare forme di maschilismo patologiche). Nel mondo statunitense del 2086 il concetto di privacy ha informato marcatamente e sostanzialmente l’ordinamento sociale e la vita dei cittadini: è infatti illegale violare la riservatezza individuale al di là dell’ambito lavorativo per tutte le possibilità extragiudiziarie. Nel caso del matrimonio si nota una sua totale privatizzazione. La procedura di sottoscrizione di un contratto pubblico è sparita. Il legame coniugale ora viene creato sulla parola, sulla base di un semplice reciproco assenso alla convivenza more uxorio. Tutto il resto, tradizionale, non è più necessario. Il poliamore è moralmente lecito, e quindi poliandria e poligamia sono diventati legali (e fatti esclusivamente privati). Il creatore di “For us, the living” non crede alla favola dell’amore romantico (il quale sarebbe un’illusione, nevrotica, passeggera). Gli eventuali figli sono liberi di scegliere il loro destino, giacché vengono assistiti dallo Stato. Nel caso di “divorzio” la crescita di costoro potrebbe essere demandata a questo grazie ad apposita istituzione educativa, nelle circostanze in cui fosse presente una lacuna genitoriale. L’opzione statale è comunque universalmente aperta alla richiesta del fanciullo. Circa l’argomento coniugale non condivido l’idea di abbandonare il contratto matrimoniale pubblico, tuttavia sono del parere che si debba concedere la facoltà di stipularlo a tempo determinato (ad esempio quadriennale) con opzione di rinnovo. Il completamento della mia analisi mi richiede due cose nella mia ottica critica: riportare l’immaginaria storia europea di cui non ho più fatto cenno dagli anni ’40 del romanzo alla terza guerra europea, e mettere in evidenza le ombre di “For us, the living”. Cominciamo colla prima cosa. In Europa alla fine del periodo bellico era sorto uno Stato federale (una sorta di UE all’ultimo stadio), strutturato nella forma di monarchia costituzionale con a capo dal ’44 l’ex re inglese Edoardo VIII (quello che abdicò per via della sua relazione con Wallis Simpson). La rinnovata Europa unita si distinse in virtù dell’adozione di una moneta unica, della creazione di una libera rete commerciale interna, e dell’adozione di un sistema di difesa unitario. La floridezza comune europea crollò nel 1970 quando morto l’imperatore Edoardo gli successe nel governo l’Americana imperatrice Wallis. Il Regno Unito, che non l’aveva mai gradita, uscì dall’Europa unita, innescando un quarantennale scontro bellico nel quale gli USA non prenderanno parte. Accanto alla distruzione di un efficiente apparato sociale a sostegno dei cittadini europei coinvolti, Heinlein riporta nella sua opera quale causa del calo demografico, in aggiunta a varie patologie (ad esempio la sterilità dei maschi provocata da radiazioni), aborti spontanei. Chiuso questo quadro, passo all’altro su citato. Un lato oscuro del romanzo è rappresentato dall’attuazione nella società americana del 2086 di procedure eugenetiche correttive e soppressive (in senso intensivo, ma teoricamente pure estensivo per ragioni demografiche): si tratta di una prospettiva inquietante, soprattutto se vista con l’immediato sguardo post-bellico dei reali anni ’40. Lacune discutibili provengono d’altro lato in “For us, the living” dal non aver tematizzato alcune pesanti materie. La pratica della pena di morte e il suprematismo bianco dei discendenti dei coloni europei. Heinlein ha trovato lo spazio per parlare di razzi (e di approdo americano sulla Luna), però non l’ha trovato per affrontare l’argomento del razzismo nella maniera dovuta. La sua immaginaria evoluzione degli USA da distopia a utopia ha ignorato la sinofobia, la discriminazione dei neri, l’emarginazione degli Indiani. Sono dettagli di enorme peso ai quali non riserva né discussione né tantomeno soluzione utopica. Mentre è stato capace nel testo di riformare il comune senso del pudore dal momento che gli Statunitensi utopici vanno in giro, a casa e fuori, più o meno nudi (ha operato una sorta di reviviscenza antico-egiziana estremizzata sfruttando la laicizzazione illuministica della società, liberata da invadenti e condizionanti tare religiose). A conclusione di questo mio lavoro critico e analitico sopra “For us, the living” non posso omettere di segnalare la vicinanza delle teorie economiche henleiniane a quelle poundiane1. Appare plausibile come pure le traversie vissute da Ezra Pound, a causa delle sue posizioni politiche, abbiano indotto in vita Robert Anson Heinlein a tenere costantemente sepolto questo suo romanzo. Ritornato alla luce al principio del XXI secolo (un po’ sulla falsariga del protagonista letterario), è stato giudicato pubblicabile nell’era successiva all’attentato alle Twin Towers.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Distopie occidentali”
 
1 Per approfondire consiglio la lettura di un mio precedente scritto, Attualità di Ezra Pound, che ho inserito in una mia pubblicazione del passato del 2014 intitolata Considerazioni letterarie.

mercoledì 10 maggio 2023

DISTOPIA E PSICHE IN JEFF SUTTON

di DANILO CARUSO
 
La lettura che ho svolto di “Whisper front the stars”, un romanzo fantascientifico uscito nel 1970, e creato da Jeff Sutton (1913-1979), mi ha rivelato la presenza di idee che avevo sostenuto in passato. È stato un po’ sorprendente aver rintracciato un simile coagulo di ricchezza concettuale in comune. La prima tangenza riguarda l’origine dell’umanità sul nostro pianeta, la quale io ritengo pure il risultato di un’emigrazione interplanetaria dall’esterno del sistema solare di cui fa parte la Terra1. Io ho parlato in particolar modo della possibilità di insediamenti altresì su Marte e Venere. Si tratta di ipotesi che nel tempo ho visto già pensate concretamente prima di me, e, come sto spiegando, ogni tanto rinvenute appunto qua e là in più autori a me precedenti. “Whisper front the stars” attribuisce l’ipotesi emigratoria a un immaginario Krado Fromm, e inoltre menziona probatori rinvenimenti archeologici su Marte: il che è tutto precisamente in linea col mio modo formale di vedere la cosa nella realtà scientifica. Anch’io credo che possano trovarsi reperti sopra Marte (o altrove) a testimonianza dell’emigrazione e della colonizzazione umana in seguito a partenza da altro sistema solare. Il romanzo suttoniano è ambientato all’inizio del XXIII secolo, sulla Terra esistono ancora gli USA (da dove partono le vicende raccontate) e l’umanità ha raggiunto e sfruttato altri luoghi del sistema solare. Non ci sono state più guerre dal XXI secolo, in Europa e in Asia governano delle unità amministrative continentali centralizzate. Il governo americano descritto, sotto il profilo sociale, è alquanto sui generis: è infatti parecchio assistenziale. D’altro canto tale misericordia è stata bilanciata da un’atmosfera orwelliana dopo che lo Stato ha assunto uno spirito tirannico antiliberale e antidemocratico, giacché ogni cittadino viene inserito in un rigorosissimo meccanismo di controllo e di capillare monitoraggio. Tutti finiscono schedati in vista dell’ottenimento di tutti i benefici possibili, e a chi avesse atteggiamento contestatorio nei confronti del governo viene negato il diritto di accedere a quasi tutte le opportunità di sopravvivenza e di assistenza. In parole povere ciò equivale al rilascio di una abilitante tessera di partito in una società totalitaria, dove chi rimane senza resta in grosse difficoltà. Esiste un dipartimento governativo denominato Ufficio di salute pubblica, parente orwelliano del Ministero dell’amore, il quale toglie dai piedi i soggetti manifestanti opposizione e dissenso all’indirizzo del regime oppressivo. La seconda delle tangenze concettuali fra me e il testo di Sutton, tangenze di cui accennato in apertura, riguarda il mondo psicanalitico. L’autore di “Whisper front the stars” non è stato estraneo a questo campo, e io ho colto lo spunto mostrato da alcune impostazioni narrative del romanzo e le ho interpretate alla luce della mia critica di carattere junghiano. Voglio anticipare alcune cose poiché prima di leggere tale opera suttoniana avevo pubblicato un mio scritto nel quale parlavo di viaggi nel tempo2. E a proposito del passato ho inquadrato la cosa come un viaggio nell’Inconscio collettivo junghiano. Questa sarà la mia chiave di lettura del testo di Sutton. Testo nel quale ho trovato altresì qualche cammeo filosofico e letterario (Kant e pascal, cielo stellato e canna pensante; Sylvia Plath, la campana di vetro). Circa le presenze junghiane posso cominciare a dire che nelle parole di Ann Willett (lei simbolo dell’“anima junghiana” nei confronti di Joel Blake) c’è un elogio della “solitudine” e dei benefici che concede. Più in là lo scienziato Mark Randall (simbolo dell’archetipo del “vecchio saggio”) si immergerà in una serie di considerazioni fisiche e metafisiche nelle quali mi sono trovato a perfetto agio perché sono formulazioni di idee che ho espresso in passato esponendo più volte il mio modo di concepire l’Universo. Randall critica il comune e semplicistico realismo ingenuo dei più, e attraverso un passaggio schopenhaueriano (dove demolisce le concezioni di esistenza di spazio e tempo autonomi) approda a un orizzonte cronologico e metafisico eleatico in cui i diversi tempi non scorrono come lungo una retta distinti progressivamente in senso unidirezionale, bensì si collocano distinti, ma contemporaneamente – per così dire –, sullo stesso piano. Questa rivisitata dimensione temporale mantiene la diversità logico-concettuale di un “prima” e di un “dopo”, nonché di un “presente”, però relativizza tutto e lo pone metafisicamente sotto un regime di sincronicità. Il “presente” viene dunque declassato a frutto dell’autocoscienza attuale, una dimensione di consapevolezza pertanto interiore la quale non penetra la cosa-in-sé al di là di noi, al di fuori dello spazio e del tempo categoriali. Nel mio scritto citato poco sopra ho parlato proprio di tale sincronicità junghiana. Jeff Sutton, dal canto suo, fa introdurre al protagonista narrante Joel Blake (simbolo del complesso psichico dell’Io) di conseguenza l’idea di un fato stoico, di una sorta di preordinazione del corso della vita e delle rappresentazioni fenomeniche. Ci sono “cause di forza maggiore” (gli input archetipici e i meccanismi fenomenici di causa-effetto in secondo piano), ma Randall chiarisce che esse non sono inderogabili (da cui l’estrema difficoltà affrontata dall’astrologia junghiana3). Prosegue lo scienziato, sempre con tono junghiano, discutendo di una possibilità di correzione del passato e di viaggio temporale per mezzo della mente. In particolare di quest’ultimo argomento avevo esplicitamente posto il tema, come detto. Non è una letterale time machine a consentirci di viaggiare nel tempo, e poi noi non viaggeremmo nel tempo fenomenico bensì nell’Inconscio impersonale dentro a cui siamo immersi. Randall, il quale parla da seguace di Schopenhauer in pectore, allude con lucidità alla voluntas-libido. Ontologia e psicologia analitica qui si fondono, e l’unità emersa pone il quesito: che cosa s’intende per “correzione del passato”? Puntualizzato che non esiste tempo e suo scorrere a prescindere da una categoria schopenhaueriana, possiamo ulteriormente approfondire il discorso in senso junghiano, e mettere in campo il “processo di individuazione” teorizzato da Jung. È Ann a farlo nel romanzo davanti a Joel allorché costei propone un fine esistenziale di compimento del proprio destino, idest raggiungere il Sé junghiano nel processo appena menzionato e diventare sé stessi nell’ottica positiva della propria natura personale. Quindi sul finire del romanzo tocca poi a Randall ammaestrare Blake al riguardo parlando di processo mentale e di correzione degli errori del passato. Nelle pagine conclusive di “Whisper front the stars” comprendiamo la maniera in cui quel governo americano orwellianamente tratteggiato assurga a simbolo dell’Ombra junghiana, nemica del benessere individuale, ostacolo della felicità personale attraverso la sua tentacolare nevrotizzante azione. Il processo di individuazione junghiano deve in primis far prendere coscienza dell’Ombra, la quale sebbene induca suggestioni negative rientra nell’ambito delle possibilità di libertà. Ora, non va mutilata la possibilità, il che è impossibile senza menomare la facoltà di libertà in sé, va destrutturata e perciò depotenziata l’Ombra in sé. Cioè bisogna condurre un cammino antitetico a quello di Joe Goldberg in “You” di Caroline Kepnes, dove il protagonista realizza nevroticamente l’Ombra, mostrandosi alla fin fine meno libero di quanto si possa credere, poiché libertà è libertà di rifiutare da sé l’Ombra dopo averla vista e riconosciuta. Sopprimere a priori illiberalmente la figura potenziale dell’Ombra risulta pericolosissimo, in quanto comporta l’incapacità di gestire una presenza scomoda e sconosciuta. Per concludere la mia analisi debbo spiegare cosa sia la “correzione del passato” di cui tratta il romanzo suttoniano. A mio modo di valutare essa possiede un significato psicanalitico, e, a prosecuzione della mia linea critica junghiana, la ricollego alla dicotomia “fase naturale / fase culturale”. Nella riconsiderazione del proprio passato che ciascuno ha facoltà di azionare a pro dell’individuazione junghiana, quel “nuovo sguardo culturale junghiano” proiettandosi sul passato illumina e “corregge” i difetti e le inclinazioni perniciose e nevrotiche, possibilmente ereditate, a beneficio di un presente ottimizzato.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Distopie occidentali”
 
1 Per approfondimenti indico un mio primo lavoro (con i suoi ulteriori rimandi) intitolato Scoperte stellari e contenuto nel mio saggio Partita a scacchi (2022).
 
 
3 Allo scopo di approfondire suggerisco un mio piccolo studio: Astrologia e tarocchi nella visione di Jung nel mio saggio Percorsi di analisi umanistiche (2018).

martedì 2 maggio 2023

LA DISTOPIA DELLA SCIOCCHEZZA DEI FRATELLI STRUGATZKY

di DANILO CARUSO
 
“L’ultimo cerchio del paradiso” (titolo in italiano non coincidente con l’originale russo) dei fratelli Strugatzky, romanzo del 1965, è un testo che mi ha prospettato l’opportunità di aggiornare il mio schema degenerativo storico distopico1. E in particolare, attraverso il concetto dello “sleg” (слег) di porre un ponte fra i temi dell’interfacciamento neurale e dell’edonismo (v. in calce). Tale testo di fantascienza russa presenta una precisa società, al cui interno il protagonista si trova a investigare, i cui dettagli ai miei occhi sono risultati molto rilevanti nella direzione succitata. Lo Stato in cui si trova Ivan Zhilin vive all’insegna di una ideologia collettiva improntata al divertissement. Gli uomini ampiamente emancipati da lunghe giornate lavorative, sono, appunto, dediti al soddisfacimento edonistico. L’obiettivo di simile regime di vita è bandire il pessimismo e il malumore, e mantenere alti l’ottimismo e il buonumore. La diffusione di una comune e condivisa sensazione di benessere viene demandata anche all’intervento della scienza medica mediante la neurostimolazione (ad esempio per indurre sogni piacevoli). Pare di capire, in un elogio da parte di un personaggio secondario del romanzo, che la “filosofia del neo-ottimismo” contempli l’esistenza di qualcosa paragonabile al Viagra. Di questo dottor Opir, fautore e sostenitore, di fama, della spensieratezza, più avanti nella narrazione, si approfondisce di nuovo e un po’ meglio il “pensiero ottimistico”. Per lui tutti dovrebbero rimanere o ritornare allo stadio mentale di fanciulli senza inquietudine, nella ricerca di detta ottimale condizione – nell’articolo attribuito al filosofo Opir – si sottolinea l’importanza dei trattamenti attraverso onde elettromagnetiche al fine di indurre quei gradevoli sogni. Non dovrebbero esistere frustrazioni in ambiti sociale e sessuale, la strada va perciò spianata a scapito di forme ansiogene. Si parla di un “generatore di sogni” operante per mezzo di radiazioni. Il dottor Opir condanna le critiche di coloro che avversano, a di lui detta, i benefici della scienza apportati dal progresso: la neurostimolazione descritta salva da dipendenze tossiche (come droga e alcol) e offre il modo di vivere una vita sana in mezzo agli altri. Al che gli autori Strugatzky replicano mediante le riflessioni di Ivan, il quale constata la sciocchezza assorta a sommo ideale di vita: lo sciocco è diventato il tipo giusto e apprezzabile inter homines; al di sopra di costui si colloca un’egida mediatica che lo protegge e lo plasma, a difesa dai contestatori della benefica (?) scienza; gli sciocchi sono tutelati dalla scienza (?) a differenza di estremisti sovversivi. A quest’ironia si aggiunge la rilevazione di inusuali inspiegabili (in apparenza) decessi sopra cui la macchina mediatica stendeva il suo obliante rassicurante velo. Cosicché tutti gli sciocchi di ogni livello si persuadessero della bontà della scienza ufficiale e dell’immutato ottimo andamento delle cose. Il pericolo a un siffatto regime che rincoglionisce il popolo proviene dall’effetto della noia sulla gente, una peste pericolosissima al cospetto del divertissement. Infatti, se da un canto c’è una sorta di carboneria la quale ricerca il risveglio sociale con metodi che potremmo definire “terroristici”, dall’altro c’è uno sviluppo della ricerca del divertissement il quale è sfuggito di mano alla scienza ufficiale. Gli Strugatzky, andando più in là nella narrazione, a premessa della chiara spiegazione della natura dello слег (evocato nella mia apertura d’analisi), tengono a evidenziare alcuni concetti nevralgici nella società capitalistica: l’educazione intellettuale degli individui non richiede altro sale che quello sufficiente a inserire l’essere umano nei meccanismi di produzione e consumo. Pertanto questo vuoto automa viene definito dagli autori del romanzo esaminato “homo illitteratus”. In un simile elemento frizza autenticamente soltanto una bestiale libido freudiana2: in lui latita il piacere intellettuale. D’altro lato Gramsci ci rammenta che gli studi classici insegnano a pensare, a ragionare (una forma, oltre che una sostanza). Gli homines illitterati vivono una piattezza mentale, concepiscono il mondo sotto il loro sguardo invariato e invariabile rispetto a così com’è: non esiste qualcosa di diverso nel passato e lontano dal loro naso, l’analfabetismo funzionale costituisce poi un grande loro limite. Nella finzione narrativa si fa menzione del pericolo della tecnica neurostimolatrice mediante onde elettromagnetiche, tema sollevato da qualche, più assennato, scienziato. Si sottolinea che quel rincoglionimento di massa rischia di portare l’uomo fuori della realtà esistenziale vera, imprigionandolo in uno spazio virtuale non positivo. E all’assuefazione in questo stadio “scientifico” di virtualità indotta fa seguito l’introduzione clandestina dello слег. Che cos’è? L’ultima parte del romanzo ce lo spiega bene. Si tratta di una nuova tecnica di immersione della coscienza personale in uno stadio neurostimolativo più intenso. È stato scoperto dagli sciocchi per caso: adopera un paio di aggeggi comuni (manomessi ad hoc) e un prodotto chimico pure comunemente diffuso. Si mettono quattro pasticche di questo in una vasca d’acqua (calda in bagno, perlopiù), se ne ingerisce una, ci si beve sopra un alcolico, e si aziona quell’apparecchio ottenuto indicato testé. Probabilmente, dicono gli Strugatzky ancora, nelle parole di Ivan, il dottor Opir legittimerebbe e sdoganerebbe lo слег, amato e temuto, conosciuto e sottaciuto dalla massa. È infatti esso a causare le misteriose morti ricordate. A questo punto della mia disamina posso ricollegarmi col mio menzionato schema degenerativo e puntualizzare che lo слег è uno strumento e rappresenta una prassi costituenti un medium fra gli estremi dell’edonismo (Brave New World) e dell’interfacciamento neurale. Ovviamente sotto il profilo tecnologico non è all’altezza degli strumenti presenti nei romanzi da me in passato menzionati (ed esaminati), i quali per giunta si trovano in gradini inferiori. Ma noi dobbiamo tenere conto di due cose: 1) la possibilità degenerativa scientifica a tratti; 2) il fatto che il “concetto” di слег (non tanto la sua occasionale tecnologia descritta) rappresenta un ponte, appunto, concettuale fra interfacciamento neurale e edonismo. Lo слег porta a vivere esperienze virtuali, stati della coscienza, in direzione edonistica. Attraverso di esso possiamo abbandonare la tappa delle sex doll, nei miei due primi gradini, intercalando quella nuova dello слег, la nuova terza. L’ultimo cerchio paradisiaco strugatzkyano raffigura un’anticamera dello huxleyano Brave New World. Le analogie di collegamento ci sono. Senza soffermarmi su dettagli, mi basti dire che pure quello di Huxley è un mondo di sciocchi ottimisti, prodotto da articolate manipolazioni personali e collettive3. Altra cosa la quale infine mi ha spinto a inserire lo слег nella mia teoria storica distopica è il richiamo preciso che nel romanzo viene fatto della libido freudiana allorché si evidenzia che tale tecnica libera le pulsioni più animali, più basse, dell’essere umano. Al di là della tangenza immediata huxleyana ho pensato ai successivi gradini sadisti4: la linea concettuale dunque può andare più avanti e dimostrare saldo e pertinente il mio nuovo terzo gradino.
 
 
LA CRONOGRAFIA AGGIORNATA DELLA MIA PSICOSTORIA
 

 

NOTE
 

Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Distopie occidentali”
https://www.academia.edu/101566960/Distopie_occidentali

 
1 A tal riguardo consiglio un approfondimento seguendo il filo conduttore a ritroso, iniziando dal mio saggio Partita a scacchi (2022) e seguendo via via le note di rimando all’indietro.
 
2 Circa questo dettaglio mi sembra utile invitare a leggere, a proposito della libido freudiana, il mio scritto intitolato L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard e contenuto nella mia monografia Filosofie sadiche (2021).
 
3 A questo romanzo huxleyano ho dedicato un saggio: Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015).
 
4 In relazione a questo argomento generale suggerisco un approfondimento sadiano per mezzo di una mia analisi dal titolo La tanatolatria di de Sade la quale si trova all’interno del saggio indicato nella nota 2.