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martedì 27 aprile 2021

PARRICIDIO DANTESCO – parte 2 di 4

di DANILO CARUSO

Il testo seguente è un estratto della mia monografia “Parricidio dantesco” edita nell’aprile del 2021 in formato cartaceo e in pdf (ebook), disponibile integralmente online qui:
1) pdf (possibile il download del saggio intero)
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
2) audiobook
https://www.youtube.com/watch?v=hs8sW1J3i6I
Sul blog è stata riproposta in quattro parti separate, il link della terza è indicato in calce.


IN OCCASIONE
DEL VII CENTENARIO
DELLA SCOMPARSA
DI DANTE ALIGHIERI


prosegue da qui 
http://danilocaruso.blogspot.com/2021/04/parricidio-dantesco-parte-1-di-4.html

Lo sviluppo dell’impianto ideologico dantesco prosegue sulla stessa falsariga nella seconda cantica del “Purgatorio”, dove troviamo subito qualcuno che sembra (in apparenza) stonato e disarmonico rispetto al quadro cattolico via via costruito: il custode del secondo regno oltremondano, Catone l’Uticense. Perché Dante conferisce a simile personaggio storico un compito che in teoria non potrebbe né assumere né svolgere? La motivazione si rintraccia nel campo delle preoccupazioni e delle riflessioni politico-religiose del sommo poeta. Egli è sostenitore, come già detto, di un cesaropapismo teodosiano (“De monarchia”), non ambisce a un modello teocratico diretto che unisca sostanzialmente i poteri religioso e politico. Si riaggancia pure al modello statale ebraico veterotestamentario, in cui il potere politico e quello religioso erano formalmente separati. L’obiettivo dantesco si rivela il conseguimento di simile rigido assetto. Perciò a lui non bastava un personaggio di schietta natura religiosa laddove ha voluto indicare l’esempio ideale del martire funzionale alla sua ideologia. Aveva bisogno, in un’adeguata ricerca di milites christiani, di proporre una figura significativa con i piedi in politica. Catone l’Uticense gli serve a ciò, a spronare sino al martirio religioso con contenuti politici. Il Fiorentino rileva la necessità di uomini pronti a tutto pur di realizzare quell’ideale cesaropapista, e in quanto progetto politico abbisogna di usare una figura da esaltare a scopi emulativi che sia adatta allo scopo. Per far vincere i guelfi bianchi ci vogliono parabalanoi, gente pronta a combattere. Notiamo, in generale come il sommo poeta della “Divina Commedia” possieda un diffuso spirito
veterotestamentario3. Nel caso di Catone, della celebrazione del martirio, dell’esaltazione del martire, pensiamo al biblico Sansone. Tali ragionamenti danteschi me ne rievocano altri somiglianti erasmiani4. Proseguendo nel mio esame, debbo dire che, per altro canto tematico, Dante continua a non essere migliore del misogino Erasmo da Rotterdam. Nei pochissimi versi dedicati all’imprecisata Pia senese, dove i critici estraggono soltanto il succo di un’artata delicatezza, il Sommo poeta costruisce un piccolo monumento di tolleranza dell’uxoricidio. A questa anima penitente mette in bocca parole accomodanti nell’ottica di un maschilistico regime matrimoniale: a carico dell’assassino non si dice niente come se il marito, in quanto maschio e dunque superiore alla donna (sulla base della teologia medievale), potesse spingersi lecitamente alla volta di forme repressive, anche violente, contro la ianua Diaboli, motivato appunto dal fatto di essere un uomo, pertanto portatore di una razionalità genuina. Nel precedente caso di Francesca da Rimini, ella, non Dante, si scaglia contro il femminicida. In tale secondo caso le parole di una dannata non possiedono rilevanza di condanna formale, tanto meno generale. Il significato del discorso di Pia da Siena è questo: una donna cattolica devota, e “pia”, deve accettare e perdonare il consorte che la maltrattasse o la uccidesse a ragione (?) o a torto (nel primo caso perché giustificato nella sua azione correttiva, nel secondo poiché la donna inferiore deve fare professione d’amore). Il pensiero cattolico medievale di Dante si mostra siffatto: è inutile ricamarci attorno, addolcirlo, aggraziarlo. Se vogliamo comprendere il senso delle cose che scrive dobbiamo applicare un’ermeneutica contestuale al redattore. Se interpretiamo, con giochi di prestigio critici, ogni epoca gli potrà far dire ciò che le aggrada. Per spirito di onestà intellettuale debbo riconoscere a Dante che il suo biasimo inerente agli interessi mondani della Chiesa aveva formale validità: l’ingerenza ecclesiastica diretta negli affari politici non portava altro che un peggioramento nel panorama europeo già compromesso dalla diffusione dell’intollerante Cristianesimo. Una poco encomiabile e poco evangelica acredine dantesca viene fuori nel passaggio in cui invoca la maledizione divina a scapito degli imperatori germanici del suo tempo, secondo lo scrittore colpevoli di disinteressarsi della pacificazione italiana. E questi non rappresentano toni da sommo poeta (equilibrato) bensì da fanatico esacerbato. L’estremistico pensiero dantesco tocca un picco molto significativo in occasione del sogno da parte di Dante, mentre dorme sulla montagna del Purgatorio, riguardante la “femmina” balba (balbuziente) e tutta fisicamente malandata. Qui siamo di fronte a un manifesto misogino molto grave, sottaciuto dalla critica celebrativa. In detto sogno compare una dicotomia la quale non è stata ben approfondita agli occhi dei discenti. Da un lato sta questa tutta malmessa, simbolo di peccati (quelli delle ultime tre cornici purgatoriali), la quale vista nel contesto onirico dal poeta fiorentino ex abrupto gli diventa molto attraente e incantevole. Dall’altro si trova a comparire nella narrazione una “donna” santa e presta (premurosa che richiama un contestuale sognato Virgilio a intervenire in difesa di un Dante ammaliato. Cominciamo a far chiarezza. In relazione a questi due simboli (peccato e rimedio) pone una dicotomia semantica (femmina/donna) la quale si rivela nevralgica. Notiamo che il versante di alcuni precisi peccati viene declinato al femminile (mi riferisco a un livello ontologico e antropologico): si tratta in particolare di avarizia/prodigalità, gola, lussuria. Sul piano rappresentativo letterario possiamo osservare che tale megasimbolo va a connotare in modo negativo la sua ascendenza di genere. La peccaminosità viene raffigurata mediante una donna, in seguito a cattoliche patristiche ragioni. Le quali impregnano l’autore della “Commedia” sino al midollo. Infatti egli quando parla di “femmina” balba e non di “donna” balba ha compiuto una precisa operazione semantica e concettuale: ha usato un invalso e spregiativo termine di genere (in latino “femina”) adottato nella teologia cattolica dalla Patristica in poi. La donna quando è ianua Diaboli è femina, non donna/mulier. Il simbolo della femmina balba va a colpire l’universo delle donne sulla base di un pensiero, allora dominante, molto antifemminista (Tommaso d’Aquino spiega l’inferiorità della donna rispetto all’uomo riecheggiando le consolidate radici patristico-agostiniane5). Un soggetto di sesso femminile può assurgere al rango di “donna” in quel mondo cattolico solo se desessualizzata, e quasi mascolinizzata per ciò che concernerebbe il possesso della Ragione (naturalmente fin dove potrebbe, dato che questa viene data da Dio in misura integrale al sesso maschile). Tant’è che alcuni critici nella donna santa e presta hanno intravisto uno strano clone virgiliano. Dante nell’allegoria di questo sogno descritto sta disprezzando molto pesantemente le donne: tale l’effetto della dicotomia femmina/donna. E come se ciò non gli fosse bastato rincara la dose misogina con un finale sconcertante coperto dalla critica con un velo pietoso. Virgilio incalzato dalla santa donna, nelle parole del Fiorentino: «L’altra prendea, e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre; quel mi svegliò col puzzo che n’uscia». Il Mantovano ha usato violenza su una donna allo scopo di denudarla e il suo protetto ci informa di essere stato risvegliato da una vagina male odorante (sic!). Che la puzza venisse da là non c’è dubbio, se pensiamo all’espressione “fructus ventris”. Dopo l’episodio di Barbariccia il sommo poeta ha qui toccato il fondo. Egli riflette un’idea della donna, in quanto soggetto biologico di genere, assurda (appresa dal Cattolicesimo medievale). Il brano esaminato, circa specifici spunti di suggestione presso Dante, mi ha fatto pensare a Oddone di Cluny, canonizzato, il quale definì la donna un sacco di merda. L’autore della “Divina Commedia” nel simbolo della femmina balba ha generalizzato specifici peccati, i quali nel mio primordiale tentativo di una lettura psicanalitica del testo ho intravisto connessi a una dimensione pulsionale libidica di grado freudiano. Parlo di lussuria e gola. In più l’avarizia ricollegabile a un impantanamento dello sviluppo psichico personale a una fase del carattere anale. Pertanto scopriamo che le ultime tre cornici del purgatorio (e gli speculari cerchi infernali) sono freudiani. Dove sta l’errore cattolico-dantesco? Nel pensare che la libido freudiana sia una prerogativa femminile e nel declinarla quale tale, allorché soltanto all’uomo dovrebbe spettare la guida della società in virtù della sua pura razionalità, messa a rischio a causa di debolezza davanti alla porta del Demonio. A questo punto del mio esame posso aggiungere il mio pensiero sulle tre iniziali fiere infernali. La lonza assieme alla lupa rappresenta i fattori freudiani testé evocati: quindi le fiere femminili sono equivalenti alla femmina balba nella sua facciata gradevole. La lupa indica la vocazione capitalistica e la relativa tendenza all’accumulazione di ricchezza. Il leone, maschile, mi è parso simboleggiare qualcosa di politico: il machiavellismo. Tornando alle ultime cornici purgatoriali vediamo che Dante riconferma omofobia e sessuofobia nell’ultima: c’è soltanto speranza di salvezza eterna a beneficio di chi in vita si pente. A ulteriore testimonianza della nevrotica concezione dantesca a detrimento dell’immagine femminile rileviamo il tendenzioso ricordo della zoofilia di Pasifae. Nella cornice terminale troviamo un illustre pentito: il lussurioso ghibellino bolognese Guido Guinizelli, padre dello Stil Novo. Che Dante ha salvato per spirito di reverenza giovanile, ma la di lui poetica è rimasta all’inferno in compagnia di Francesca da Rimini. L’uscita del Fiorentino dall’area purgatoriale riservata ai lussuriosi ci riserva nel testo della “Commedia” alcune altre sconcertanti notazioni. I critici, allorché ritenuto utile, hanno rammentato i lati deteriori del Medioevo. Però mi sembra che non abbiano sviluppato a dovere i nessi di circostanza con Dante, come se costui avesse la qualità di un alieno venuto «da cielo in terra a miracol mostrare». Egli fa parte di quel mondo, e per giunta ne rispecchia il peggio. il sommo poeta in quell’atto descritto di transizione ci comunica che ha assistito a delle esecuzioni al rogo: «In su le man commesse mi protesi, / guardando il foco e imaginando forte / umani corpi già veduti accesi». Tale cosa è gravissima per ovvi vari motivi. Lui ci sta parlando di crimini contro l’umanità come se quelle nefandezze fossero così lecite, così scontate, così normali da poter essere ricordate in funzione di paragone positivo. Infatti non le disapprova, si compiace anzi del loro effetto letterario. Un dettaglio scandaloso, anticipato nel testo dantesco dalla rievocazione di un’altra prassi esecutoria capitale sempre in funzione di paragone: finire interrati vivi a testa in giù (propagginazione). Questa, per inciso, la punizione infernale nella “Divina Commedia” a danno dei simoniaci. Il sommo poeta fa paragoni sadici considerando quei procedimenti giusti. Risiede qui un nocciolo critico molto importante: non si può far finta di niente al cospetto di uno scrittore con simile forma mentis. È come se ci dicesse di essere andato in giro dentro un campo di concentramento nazista mentre era operativo nelle sue tragiche attività, e non aggiungesse altro mirante a disapprovare. Dante è un estremista medievale cattolico, ragiona e parla da tale, mostra gli effetti della sua collocazione ideologica. Il gusto sadico infernale si è protratto sino alla fine del purgatorio. La sua guida Virgilio, la maschilistica Ragione, mi è sembrata una versione dell’orwelliano O’Brien in veste di pedagogo in docenza positiva. Dante avalla l’arcaico e barbarico sistema giudiziario della propria era ripresentandone spirito e sostanza nelle prime due cantiche. Nel XXIX canto del “Purgatorio”, d’altro verso, appare ancora una volta possibile mostrare l’aderenza dantesca alla cultura e alla teologia cattoliche medievali in generale attraverso un nuovo poco encomiabile uso della dicotomia concettuale e semantica femmina/donna più sopra già da me illustrata. In 20-30 lo scrittore si rammarica con mentalità misogina del peccato di Eva, e a costei attribuisce la qualità di “femmina” non di “donna”. L’antifemminismo dantesco anche qua presso i critici benefica del fatto di far del Fiorentino e del sommo poema un sepolcro imbiancato. Egli ci dice che le donne sono state create per stare nella nicchia dove certo maschilismo vorrebbe relegarle: a loro spetterebbe adeguarsi e obbedire alla voce maschile (da Dio agli uomini). Dante incolpa Eva di averlo privato di godere un’esistenza edenica a causa del cosiddetto peccato originale (sic!). In tutto il sommo poema il suo autore rispetta il cliché semantico dicotomico femmina/donna. Esistono però pochissime ma apparenti, e dunque non definibili infine tali, eccezioni. Necessario dunque un approfondimento a difesa e a ulteriore dimostrazione di quanto ho sostenuto. Allorché Dante ha incontrato nel purgatorio il suo giovanile dissoluto amico Forese Donati gli ha fatto recitare uno dei suoi manifesti antifemministi. Tale anima purgantesi elogia la moglie, ancora in vita, molto dedita a pregare in favore dell’anima di lui defunto. Il che tradotto vuol dire che se a una muore il marito dovrebbe starsene indefinitamente a rimpiangerlo immersa in una prassi nevrotica. Ma come già visto allo scrittore fiorentino non basta costruire ideologiche e patologiche proposte di stampo religioso volte a colpire una lecita libertà. Ama gettare il fango misogino cattolico-patristico sulle donne. Compare allora nelle parole del testo un dispregiativo «femmine» contrapposto alla moglie di questo penitente, figura femminile additata quale esempio in una Firenze di cui vengono represse le «sfacciate donne» responsabili di avere abiti scollati mostranti i seni (ci sarebbe da ridere se non fosse che a suo tempo grazie ad assurdità del genere la Chiesa ha provocato torture e femminicidi). L’autore della “Commedia” in simile brano, sempre attraverso interposta persona, apprezza la copertura fisica nell’abbigliamento delle donne islamiche e minaccia castighi severe sulle Fiorentine non osservanti. A questo punto chiediamoci quanto in passato la celebrazione di Dante abbia potuto influire a vantaggio delle persecuzioni religiose cattoliche in generale nel momento in cui è lui il primo a invocare repressioni. Non direi che il testo della “Divina Commedia” dipinga l’esortazione all’equilibrio e alla tolleranza. Qui troviamo le peggiori idee della Patristica, pensiamo al “De cultu feminarum” di Tertulliano. Comunque, torniamo alla quaestio semantica rilevata: «sfacciate donne», e non “sfacciate femmine”. Dov’è il trucco retorico dantesco? Lo andiamo a scoprire nella sottigliezza creativa, letteraria e concettuale, di tale scrittore. Se lui avesse usato “femmine” avrebbe generalizzato in toto a proposito delle Fiorentine. Un fattore estensivo lo obbliga a usare “donne”. Simile scelta però riporta la delimitazione dell’estensione nell’aggettivo attribuito “sfacciate”. Doveva creare lo spazio semantico abitativo a beneficio delle donne conformi al suo vedere (la madre, la figlia, la moglie di quell’amico, Beatrice, etc.). E non ha potuto fare a meno di scegliere il termine di accezione positiva, negativizzato dall’aggettivo (è successo qualcosa di analogo a un numero positivo moltiplicato per uno negativo al fine di produrre concettualmente “femmine”). Un’altra mina dantesca che mi è doveroso disinnescare si trova all’“Inferno”. Dante è nel cerchio dei lussuriosi e ci dice: «… ebbi ’l mio dottore udito / nomar le donne antiche…». È lampante che quello è un girone pieno di “femmine”. Come è lampante che «donne» sia latinismo stricto sensu (domina, signora di potere). Pensiamo a Purgatorio VI, 77 («… donna di province…»). Le «donne antiche» sono le antiche regine (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena…). Ma ammettiamo pure che il latinismo possa essere sfumato, giacché la cosa non mi preoccupa a livello analitico. Quanto si rileverebbe qui sarebbe la tendenza dantesca all’ossequio formale verso il cosmo globale delle donne figlie e consorti di monarchi: si veda l’esempio della superba Mikal/Micòl, figlia di Saul, la quale è designata «donna». La preoccupazione del sommo poeta in ultima istanza sarebbe uguale a quella del caso precedentemente illustrato: dare margine estensivo ed evitare la preclusione totale. È chiaro che il Fiorentino non possa qualificare tutte le regine e le principesse “femmine”, è controproducente verso il sistema di governo monarchico filocattolico. Altresì qui è costretto all’uso del termine positivo “donne”. E che di queste non faccia parte Francesca da Rimini lo specifica l’aggettivo attribuito «antiche». Francesca gli è temporalmente vicina, tale espediente cronologico-retorico ricrea la dicotomia spregiativa femmina/donna. Colei che parlerà a Dante è “femmina”, e lui con certosina cura semantica narrativa lo fa intendere benissimo a chi sappia leggerlo obiettivamente. Degno del miglior romanzo distopico il finale del “Purgatorio”. L’autore narra di bere le acque del Letè e dell’Eunoè. Le prime rimuovono la memoria del Male, le seconde rafforzano quella del Bene. Dove sta la distopia? Essa si manifesta nell’intento illiberale di quelle allegoriche operazioni. Infatti privare l’intelletto della possibilità di pensare la dimensione (teorica) del Male equivale a restringere la libertà. Non sto dicendo che sia lecito attuare il Male. Ma che impedire di concepirlo in abstracto toglie margine di spazio alla riflessione. A mio avviso chi ha matura consapevolezza astratta (non pratica) del Male è più in grado di non concretizzarlo rispetto a chi non ne abbia idea alcuna (intellettualismo etico socratico). Dante rimpiange l’ingenuità edenica, la quale è condizione distopica. La catarsi aristotelica attraverso media di apprendimento mi sembra rimedio più efficace che non il relegare gli uomini in una culla. L’intenzione dantesca è opposta, si mostra unidimensionale nei confronti del pensare. La teologia cattolica propone infatti di irrigidire la libertà umana dentro un ristretto campo concettuale teologico. Tutto quanto si troverebbe al di fuori sarebbe aberrazione dalla Verità (principalmente di Fede). Tale lo schema di letterarie e filmiche rappresentazioni distopiche. Voglio ricordare in particolare “Noi” di Zamjatin per la somiglianza dinamica con i pertinenti tratti della “Commedia”6. Sulla cima del purgatorio una desessualizzata Beatrice rimprovera Dante di aver indulto alle seduzioni mondane: lui sviene, come accadde a udire Francesca da Rimini, a riprova che là aveva in mente analoghi contenuti inerenti al rimprovero di Beatrice. Il protagonista zamjatiniano D-503 alla conclusione di quel romanzo è simile al sommo poeta sessuofobico cattolico che nella “Divina Commedia” si appresta a salire in paradiso assieme alla nuova guida. Il Fiorentino si è sbarazzato della mistica sensualità stilnovistica di Beatrice. Quella che gli è comparsa rappresenta un surrogato simbolico e teologico della Madonna (della quale ormai pare quasi un’emanazione ipostatica: la Vergine, santa Lucia, Beatrice). Nell’ultima cantica Dante sarà guidato da una theological (non dark bensì) blond lady.

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