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martedì 27 aprile 2021

PARRICIDIO DANTESCO – parte 3 di 4

di DANILO CARUSO

Il testo seguente è un estratto della mia monografia “Parricidio dantesco” edita nell’aprile del 2021 in formato cartaceo e in pdf (ebook), disponibile integralmente online qui:
1) pdf (possibile il download del saggio intero)
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
2) audiobook
https://www.youtube.com/watch?v=hs8sW1J3i6I
Sul blog è stata riproposta in quattro parti separate, il link della quarta è indicato in calce.


IN OCCASIONE
DEL VII CENTENARIO
DELLA SCOMPARSA
DI DANTE ALIGHIERI


prosegue da qui 
http://danilocaruso.blogspot.com/2021/04/parricidio-dantesco-parte-2-di-4.html

La terza cantica del “Paradiso” esordisce sotto il profilo distopico nel migliore di modi. Qual è la prima anima beata con cui interloquisce Dante dopo Beatrice qui? È quella di una sua conoscenza da giovane, Piccarda Donati, la quale fattasi clarissa era stata riportata a forza nella vita mondana da familiari. Ecco il modello di donna ideale agli occhi del sommo poeta: la suora (da non dimenticare che la figlia di lui si fece monaca). La triade dantesca “Francesca da Rimini / Pia da Siena / Piccarda Donati” mostra una logica weiningeriana. I soggetti di sesso femminile possiedono tre prospettive: desessualizzati possono diventare suore e sante, questa la via migliore in assoluto; non desessualizzati mantengono una liceità di congresso carnale agostiniano al fine di divenire madri (e in precedenza mogli sacramentali); la possibilità biasimata contempla un esercizio della sessualità liberalizzato (da in generale al di fuori del regime matrimoniale cattolico alla prostituta). Dante ha ricalcato alla perfezione le categorie di Otto Weininger, le quali in sostanza nel primo hanno radici patristiche. Nel suo colloquio con l’autore della “Commedia” Piccarda Donati espone un molto significativo manifesto di teologia distopica. Da un lato ribadisce le cose poco sopra spiegate sulla circoscrizione degli spazi di volontà e libertà: le anime beate desiderano soltanto ciò che vuole Dio, e in tale adeguamento risiederebbe la loro beatifica gioia celeste. Dall’altro chiarisce di conseguenza la normalità dell’esistenza di una gamma di collocazione dei beati per gradi: simile dettaglio mi ha ricordato la fortissima analogia con la gerarchia sociale in “Brave New World” e come allo stesso modo ognuno, in virtù di spirito indotto all’adeguamento, rimanga contento e soddisfatto del suo
posizionamento7. Poi, nel canto del “Paradiso” in questione, allo scopo di dare un suggello sessuofobico (antitetico a quel mondo huxleyano), Dante fa allontanare Piccarda mentre questa recita l’“Ave Maria”. Il poeta fiorentino nell’ultima cantica riprende i temi politici. Per lui l’Impero romano e la sua prosecuzione germanica medievale scaturiscono dalla volontà divina. Pertanto l’opposizione guelfa e francese è contro Dio. Vediamo che lo scrittore rimane molto politicizzato nel suo fanatismo religioso. Inoltre il suo atteggiamento contempla pure nel “Paradiso” la condanna di un incipiente moderno capitalismo. Fra i beati si trova Folchetto di Marsiglia, poeta e vescovo, accanito persecutore di catari albigesi (dunque uno responsabile di crimini contro l’umanità), a cui il sommo poeta fa pronunziare asperrime parole all’indirizzo di Firenze: creatura demoniaca per il fatto di aver introdotto una moneta in oro dal 1252, il fiorino, il cui uso di allora è paragonabile al dollaro dell’ultimo dopoguerra. Al di là della polemica dantesca anticapitalistica che bersaglia tutti quelli dimentichi dei tradizionali affari di Chiesa a vantaggio della speculazione terrena, voglio richiamare l’attenzione su un aspetto inerente a Folchetto. Dante pone in paradiso, tra la schiera dei beati i quali in vita furono in modo particolare sensibili all’amore, qualcuno che è paragonabile a Adolf Eichmann. Non appaia iperbolico l’accostamento poiché alla superficiale obiezione d’ufficio difensivo che le vittime delle persecuzioni cattoliche siano state quantitativamente molto inferiori rispetto a quelle causate da moderni totalitarismi rispondo con puntualità. A chi volesse farne una questione di contabilità, non deve sfuggire che all’epoca di Dante l’intera popolazione europea era dell’ordine della sola italiana oggigiorno e che per fare qualcosa in termini di Shoah sarebbe occorso ucciderne il 10% circa (cioè un’assurda esagerazione pratica). La Chiesa medievale a differenza dei nazisti, portò a compimento una soluzione finale antiereticale su vasta scala (ovviamente quella dei numeri di allora su base proporzionale in relazione all’insieme). Lo sterminio di catari, con l’ipotesi di un milione di vittime a detta dello storico tedesco Hans Wollschläger (1935-2007), si rivela un riuscito Olocausto medievale. Un milione di morti su 60 costituisce intorno allo 1,6%. In Europa negli anni della barbarica Shoah nazista c’era circa mezzo miliardo di persone, le vittime ebree circa lo 1,2%. Anche a dimezzare l’ipotesi di Wollschläger rimarremmo sul piano estensivo interessato al livello della qualità di “sterminio religioso in misura molto rilevante”. E Dante, il sommo poeta, mette un criminale in paradiso senza che la critica faccia notare le mie osservazioni precedenti. La cosa che mi preme sottolineare resta la qualità del reato, crimine contro l’umanità, non solo la sua problematica di estensione, cui non avrei fatto cenno se non avessi immaginato repliche storiografiche di natura fuorviante. Tra le cose che non piacquero a Papa Innocenzo III nell’avviare la campagna anticatara l’idea portata avanti da quegli eretici (estremisti rigoristi sessuofobici) che uomini e donne fossero uguali e non che il maschile si rivelasse superiore al femminile, tesi ribadita invece da quel pontefice facendo richiamo alle Sacre Scritture. Il sommo poeta aderisce al versante ortodosso tradizionalista cattolico avverso a uno spunto di modernità e di normalizzazione (il quale era già stato gnostico e rifiutato a suo tempo). A questo punto mi è lecito aprire una parentesi sulla questione linguistica del volgare in Dante. Alcuni al cospetto della mia disamina potrebbero evocare “il sommo poeta padre della lingua italiana”. L’uso che lo scrittore fiorentino ha fatto del volgare a beneficio della “Commedia” disvela un ideale né tanto patriottico né tanto nobile. I catari adottavano nel loro Cristianesimo alternativo testi biblici tradotti nella loro parlata. Mettiamo tale cosa in relazione con Dante e ricaviamone delle conseguenti conclusioni. L’autore di Firenze non propose mai l’idea luterana di tradurre la Bibbia in una lingua nazionale o regionale. E qui casca l’asino linguistico dantesco. Se per lui il volgare è così importante perché tra tutto il veleno che sputa a proposito delle devianze ecclesiastiche non inserisce la possibilità di una forma liturgica postconciliare novecentesca? Ovviamente perché lui è un cattolico ortodosso di allora, e non può e non vuole cestinare la lingua degli angeli. Ma dunque se al suo sguardo il latino ecclesiastico mantiene il primato filosofico e religioso, il volgare italiano che adotta allo scopo di rivolgersi alla gente comune non si rivela un codice linguistico di serie B? Al sommo poeta ergo il volgare non interessava quale fine, bensì esclusivamente come mezzo. Perciò non rientrava nelle intenzioni dantesche la promozione e la costruzione di una parlata la quale portasse alla traduzione delle Sacre Scritture in virtù di una sua nobiltà molto elevata: il latino è la lingua degli angeli, il volgare è la lingua degli uomini. Nel momento in cui lui vuol radunare attorno a sé quanta più gente possibile viene costretto dalle circostanze a scrivere il sommo poema non in latino virgiliano. Il poeta di Firenze quando si serve del volgare nutre simpatie pragmatiche: si mostra buono a usarsi poiché raggiunge un’estensione superiore rispetto al latino. Dante ha scritto il “De monarchia” e il “De vulgari eloquentia” in questa lingua, non in protoitaliano. Simile dettaglio denota il suo malcelato disprezzo di fondo nei confronti della massa incolta. Non gliel’ha offerti in volgare giacché non la riteneva all’altezza intellettuale. Si ribatterà qui: sì, ma il latino era il codice linguistico ufficiale della cultura. Vabbè, però come la mettiamo quindi con il volgare della “Commedia”: sta fuori del campo culturale? Risposta coerente: di quello nobilissimo sì. Allora, a cosa ambisce il sommo poeta (non trascuriamo pure mediante il “Convivio”) grazie alla sua innovativa forma linguistica vincolata alla sua sostanza poetico-ideologica? A uno strumento mediatico volto al condizionamento popolare. Da tale progettazione non credo sia legittimabile una felice paternità della lingua italiana. Il sommo poeta non mirava alla costituzione di una nazione italica indipendente, a lui premeva l’Impero germanico: auspica quel dominio politico nel quadro delle sue idee. Un concetto di “italianità” separato e autonomo dalla sfera politica germanica è assente in lui. Concepisce l’Italia nel ruolo di “provincia” imperiale (canto VI del “Purgatorio”). L’idioma unitario proposto da Dante guarda al contesto politico meridionale italiano coevo con un occhio di riguardo. Là Aragonesi e Angioini hanno da poco tempo privato l’Impero germanico del controllo sui territori dell’Italia del sud. Scontato che i nuovi dominatori portassero le loro parlate. L’italiano serve a Dante in funzione antiaragonese e antiangioina a vantaggio dello schema imperiale: lo scopo è creare una provincia omogenea per cultura cattolica ortodossa e per volgare comune laddove lui rilevò la presenza di decine di forme dialettali varie. Al Sommo poeta il gioco linguistico viene agevolato dal fatto che la scuola poetica siciliana era stata ripresa dal Settentrione stilnovistico: la cultura di epoca medievale sveva imperiale si proietta nel tempo verso di lui, e nello spazio verso il Nord comunale. La cagliata linguistica volgare che lui ha presentato nella “Divina Commedia” non sarebbe stata possibile se quel procedimento non fosse già stato iniziato dalle scuole poetiche siciliana e dello Stil Novo (come lui stesso ha ammesso). L’idioma comune italico teorizzato dall’autore di Firenze possiede radici imperiali. L’operazione linguistica dantesca allora gli appare lecita, gode dell’osservanza dell’ortodossia politico-ideologica da lui richiesta. Il successo dell’idioma di Dante proviene da un effetto secondario: l’imposizione del sommo poema nel panorama culturale italiano a partire dal Boccaccio che lo definì divino. Un principio d’inerzia ha perpetuato il mito e il modello linguistico della “Commedia”, un principio radicato nell’humus cattolico d’Italia in quanto sede pontificia e dunque centro di grande promozione e propagazione fideistica. Se il sommo poeta avesse scritto il “Decameron” e Boccaccio in seguito una “Divina Commedia” molto probabilmente sarebbe stato il secondo il padre della lingua italiana. Il primo sarebbe stato declassato al livello dei poeti siciliani e stilnovistici per quanto concerne il riconoscimento legato al valore della forma linguistica adottata. La materia dantesca ha congiurato a favore dell’autore di Firenze. Nel celebrare l’ideologo cattolico, si è portato avanti un discorso sulla formazione della lingua italiana, il quale secondo me a lui non importava così tanto al di sopra delle considerazione pragmatiche e politiche evidenziate. Egli vuole che la gente ascolti la liturgia in latino, quella è la lingua della patria celeste e in disuso in una patria terrestre degenerata. Non mi sembra che volesse nobilitare un aspetto della degenerazione al pari delle volture bibliche catare. Dante nel non proporre traduzioni delle Sacre Scritture ancora una volta manifesta il suo volto illiberale. Appare scontato che lui teorizzasse una sovralingua volgare italica raffinata giacché lo esigevano le materie letterarie (filosofia e teologia) da inculcare. L’italiano che ha inventato si trova a metà strada fra la scarsa acculturazione generale e la teologia cattolica ortodossa, rappresenta simile anello mirante a far calare i contenuti della seconda nei larghissimi spazi della prima. La nostra lingua in Italia si è consolidata in seguito ad accidenti non programmatici. L’obiettivo dantesco era apologetico ideologico, la lingua ne è stato il medium, rimasto valido per il motivo sopra chiarito. Il sommo poeta raffigura il padre accidentale dell’italiano: il suo poema appare come una mela di Newton caduta dall’albero cattolico in Italia. Nella storia letteraria italiana, Dante, il quale aveva avuto la notevole machiavellica intuizione sull’importanza politica della koinè linguistica in funzione di un disegno politico preciso, verrà contestato nella sua esemplarità nel ’500 da Pietro Bembo che indicherà come modelli da seguire il Petrarca e il Boccaccio. L’autore della “Divina Commedia” ritornerà in alta quota dopo l’Illuminismo grazie a critici encomiastici soprattutto imbevuti di essenze tradizionalistiche e/o nazionalistiche. È stato, così, grandiosamente e universalmente ripompato sino a noi. Ritorniamo comunque al cammino dantesco nell’ultima cantica. Fra i beati eccelsi per sapienza lo scrittore fiorentino parla con san Tommaso d’Aquino, teologo e filosofo nella realtà misogino e legittimante il sistema di servitù in vigore durante il feudalesimo. Giunto tra i premiati per aver combattuto in difesa del Cristianesimo, il sommo poeta esterna il proprio sadico compiacimento sulla pena infernale: «Bene è che sanza termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri / etternalmente, quello amor si spoglia». In questo pertinente cielo incontra il nonno di suo nonno (trisavolo), un crociato. Il personaggio di Cacciaguida, martirizzato nella lotta antislamica (secondo il generale ideale proposto da Dante attraverso il simbolico Catone Uticense), è rilevante per due ragioni. La prima: sino al tempo del sommo poeta sono state bandite sette crociate e costui non le disapprova, tutt’altro. Dante apprezza i conflitti armati quali strumenti di risoluzione delle contese politiche e religiose (auspica il ritorno del controllo cristiano sulla Terrasanta in vista del quale non esalta un’alternativa procedurale pacifica: nel “De vulgari eloquentia” sostiene che il valore militare sia un altissimo tema poetico). La seconda ragione inerisce alla critica di Cacciaguida sopra Firenze: ancora una volta vengono prese di mira le donne (per via di abbigliamento e trucco ricercati), le libertà sessuali, l’evoluzione sociale capitalistica. Il trisavolo (alter ego dantesco) nel suo manifesto reazionario e liberticida indica il posto ideal-distopico del gentil sesso: «donne al fuso e al pennacchio». Poi prosegue – non dimentichiamo che sta parlando uno in paradiso e quindi moralmente docente – con altre sconcertanti idee. Nella sua versione filoimperiale cesaropapistica, ostile ai deragliamenti inopportuni sul versante ecclesiastico (ingerenza politica diretta di stampo teocratico esplicito), il trisavolo ci spiega che le commistioni etniche – sta ragionando di Firenze e del circondario – sono pericolose nei confronti di una comunità in quanto potrebbero far perdere a uno status ideale originario la sua qualità alla volta di una degenerazione sociale e politica. Il che sarebbe accaduto, a di lui giudizio, alla città di Dante. Naturale che rimaniamo disorientati di fronte a simili aristoteliche considerazione evocanti l’ideologia nazista, e aventi ascendenze peraltro veterotestamentarie. Il paradiso dantesco rappresenta il ricovero di alcuni preoccupanti personaggi che l’autore indica quali esemplari e degni di imitazione. Il sommo poeta attraverso Cacciaguida propone de facto la laconizzazione di Firenze mirante al ripristino di una purezza etnica e spirituale avita. È chiaro il perché egli non possa mai essere contrario all’eliminazione anche fisica dell’avversario sino ad arrivare allo sterminio: le mele marce si devono togliere o con le buone o con le cattive maniere. E dove stia il marciume e dove l’integrità ce lo chiarisce mediante la “Commedia”. In quale angolo sia nel sommo poema quel presunto modernamente inteso amore evangelico rimane cosa da scoprire. L’anima beata di Cacciaguida si rammarica che Dio non abbia fatto morire anzitempo Buondelmonte Buondelmonti (uno di questi nuovi arrivati a turbare l’ordine sociale fiorentino) al centro di una vicenda di inizio del ’200 la quale portò alla divisione cittadina tra guelfi e ghibellini. Che cosa c’è di nobile, specialmente in paradiso, a rivangare rancore? Dante non è un pacifista, discrimina le donne, respinge la modernizzazione, odia. Cacciaguida addita simili aspetti della personalità del poeta. A testimonianza del valore positivo accordato dal sommo poeta alla pratica del conflitto armato, il trisavolo gli va a menzionare alcuni significativi beati combattente in vita (tra cui Giosuè e il crociato Goffredo di Buglione). Simile lista si segnala per il non positivo fatto di esprimere e spronare aggressività contro gli islamici, il che certamente non suona alla stessa maniera di un appello al pacifismo. Il passaggio dello scrittore fiorentino dal cielo di Marte dei filobellici a quello di Giove dei giusti offre una chicca dantesca misogina. Nel paragonare il cambio dei colori planetari visti dal rosso al bianco rispettivi egli si serve dell’immagine di un volto arrossitosi a causa della vergogna il quale quindi si schiarisce. E che cosa fa? Cala un paragone femminile di sgradevole gusto: a carico di un uomo generico sarebbe stato mortificante di genere. Poi notiamo che tale generico soggetto femminile nel recuperare un colorito naturale è diventato «bianca donna». Qual è il dietro le righe? La donna con vergogna – si tenga presente la mia spiegazione della dicotomia già illustrata nel saggio – appartiene alla dimensione del peccato, diventa rossa, è dunque “femmina”; allorché la catartica vergogna svanisce e torna il colorito bianco ella diventa “donna”, ossia soggetto conforme alle richieste teologiche cattoliche. Ecco perché Dante dice «bianca donna» e non “bianca femmina”: era sottintesa una “rossa femmina”. Le parole della “Divina Commedia” nel cielo dei giusti espongono altresì la dottrina sulla superiorità della Rivelazione davanti a tutte le forme di ricerca scientifica e puntualizza che al di fuori della fede nel Messia biblico non si dà via al paradiso: si tratta di principi cattolici allora canonici. L’abolizione del limbo da parte di Benedetto XVI – dettaglio già ricordato nella mia analisi – mette in crisi qui la teologia dogmatica sopra cui Dante si appoggia giacché non si richiederebbe la tomistica “fede implicita” premiante Traiano e Rifeo e discriminante le anime rimaste nel limbo dantesco: ora queste contrariamente alla separazione operata dal sommo poeta sulla base del tomismo, finiscono per ottenere l’accesso al paradiso così annullando l’insegnamento della mistica aquila dei beati giusti secondo il quale: extra Ecclesiam nulla salus est. A scanso di equivoci è da dirsi che un’implicita vocazione di fede in un non cristiano necessita un’interiore rivelazione divina (mancata alle anime del limbo). Di questa avrebbe beneficato Rifeo, a dire dell’Aquila, mentre era ancora in vita. Invece Traiano sarebbe stato resuscitato (ne parla anche Tommaso d’Aquino nella “Summa theologiae”) dalla sua condizione infera post mortem grazie alle preghiere di Papa Gregorio Magno, e in un rinnovato segmento si sarebbe fatto credente al pari di Rifeo (questo in Cristo venturo, quello in Cristo venuto). L’abolizione del limbo supera la dottrina tomistica sui tipi di fede indispensabili (esplicita e implicita). A chi volesse osservare che la naufragata ipotesi teologica sarebbe stata semplicemente assorbita in una più limpida idea di paradiso, faccio notare che l’obiezione creerebbe un’aporia dantesca di natura non soltanto letteraria, e un’aporia in toto teologica tomistica. Se ci sono anime che potrebbero andare in paradiso perché tenerle fuori con l’unica discriminante che morirono da non credenti nel Messia? Perché aspettare posteriori e isolati interventi della Grazia divina e non intervenire in qualche maniera in massa e subito? Tutto ciò non costituirebbe un’assenza di bontà e misericordia divina (perciò l’intervento di Papa Ratzinger a rimedio nella dottrina)? L’idea di fede cattolica nella concezione dantesca e medievale era nevralgica, e produceva conseguenze teologiche e pratiche non da poco. L’ancoraggio biblico veterotestamentario da parte di Dante fa sì che nel cielo degli spiriti contemplativi Beatrice ricordi a lui che Dio è uno che attua «vendetta» sopra gli uomini e che la compia con tempistica calma: «La spada di qua sù non taglia in fretta / né tardo, ma’ ch’al parer di colui / che disïando o temendo l’aspetta». I termini che adotta evocano una divinità bellica, poco evangelica. Le crepe ideologiche e concettuali dantesche non sono minimali. Dire che l’adesione dello scrittore fiorentino all’astronomia tolemaica accolta dalla Chiesa passata suscita ormai un effetto grottesco appare superfluo. Con tutto il resto di cose che lui reputava obiettivamente vere sui tre regni oltremondani, immaginarlo mentre viaggia nello spazio interplanetario in compagnia di Beatrice al pari di un supereroe dei fumetti fa ridere. Inoltre la sua simpatia nei confronti della tradizione aristotelica ne limita di parecchio l’orizzonte mentale a tutti i livelli. In una delle sue ultimissime comparse nel “Paradiso” Beatrice suggella il suo ruolo di theological Barbie doll. Dante le fa pronunziare un discorso molto violento contro il libero pensiero a difesa del principio dell’autorità biblica. Viene colpito al cuore il diritto a esistere della ricerca filosofica e scientifica. L’autore della “Commedia” condanna la diffusione di idee religiose non ortodosse presso la massa (il che costituisce il lato oscuro della lingua volgare, poco apprezzabile allora per lui in simili circostanze). Vorrebbe così uccidere alla base una possibilità socratica nel circolo delle idee. Egli si mostra a favore – nelle parole di Beatrice – di un pensiero unico e unidimensionale: le Sacre Scritture non vanno contestate, ciò rappresenta un peccato molto grave direttamente ispirato dal Demonio. Il sommo poeta si rivela così legato a un’interpretazione letterale e rigoristica della Bibbia da rifiutare ipotesi miranti a spiegazioni scientifiche (sempre contestuali alla fede) nei casi miracolosi raccontati. Cosicché lui appare più radicale ad esempio di Tommaso d’Aquino nel pretendere che alla morte di Cristo il Sole si sia spento nell’oscuramento narrato e non che ci fosse stata un’eclisse solare. L’antifilosofico manifesto che Dante fa proclamare alla guida paradisiaca sui generis Diotima è molto grave agli occhi non solo della modernità meglio laicizzata. Lui disprezza il fatto che si faccia filosofia sopra i testi biblici, lui non vuole libertà di pensiero. Si può dire che sia tra i mandanti ideali della futura uccisione di Giordano Bruno. Quanto pretendeva Dante era rendere impossibile il rendersi consapevoli che la Sacre Scritture contengono racconti mitologici anche mal volti dalle lingue originarie8. Egli parla delle distorsioni teologiche interpretative, però non si è reso per niente conto di essere stato intrappolato in una fantasiosa costruzione nevrotica a sua volta distorsione e deviazione della tradizione religiosa ebraica antica. Il principio dell’autorità ecclesiastica cattolica sostenuto, de facto, costituisce un’aporetica petizione di principio: si sconfina nel puro dogmatismo, alimentato di irrazionalismo e complessi nevrotici, e impediente un sano e corretto sviluppo scientifico in grado di metterlo alla prova e di verificarlo. La critica encomiastica celebra un Dante liberticida e fondamentalista. I temi politici continuano a sostanziare la “Divina Commedia” sino alla fine. Nella candida rosa dei beati l’autore del sommo poema riservo un posto, a venire rispetto al tempo narrativo, ad Arrigo VII del Lussemburgo, l’imperatore su cui Dante concentrò le sue speranze politiche durante l’esilio: purtroppo quello nella realtà storica morì precocemente senza dar corpo a quegli auspici. Si vede come nella “Commedia” la distribuzione delle anime nei tre spazi ultraterreni avvenga secondo criteri di simpatia/antipatia politica e religiosa. A conferma di ciò, in tal brano, le ultime parole in assoluto nel testo di Beatrice saranno usate allo scopo di comunicare che Papa Clemente V, avversario di Arrigo VII, finirà all’inferno a fare compagnia al suo predecessore Bonifacio VIII. E questo sarebbe l’esemplare poema? A me pare un romanzo in versi mirante a trasmettere odio partigiano. Non solo, alla fine lo scrittore fiorentino ribadisce il proprio antifemminismo della maturità. Nonostante abbia tramutato Beatrice in una bambola teologica, la forma femminile di lei non la rende degna di accompagnare il poeta sino alla visione divina. Qualcuno potrebbe dire: ma Beatrice non è una canonizzata, ci vuole a vantaggio dell’ultimo tratto una figura santificata. Vabbè: ma perché Dante mette proprio l’antiereticale e mariologo san Bernardo di Chiaravalle (sostenitore della crociata alla quale prese parte il trisavolo del sommo poeta) e non santa Lucia? Un uomo e non una donna? A me sembrano evidenti le ragioni politico-religiose, e quelle maschilistiche teologiche volte a celebrare il supremo modello femminile mariano desessualizzato (il quale appunto farà da mediatore): tra Dante e Dio ci volevano “un santo” e appresso non una “donna qualunque”. Le esigenze misogine della teologia medievale sono molto pressanti, e lui non può accantonarle. Beatrice deve uscire di scena: tale cosa costituisce allegoria di un femminicidio. Tutto sommato l’iniziativa a beneficio della salvazione dell’anima dello scrittore fiorentino era partita dalla Madonna, non da quella. Il sommo poeta si abbandona in toto all’irrazionalismo filoestatico di Bernardo (teorizzatore dell’intuizione di Dio, e non della possibilità di quella conoscenza dentro un quadro razionalistico). La teologia prevale sulla filosofia, e la nevrosi primeggia su tutto: tale l’ordine di importanza nella psiche dantesca. Bernardo di Chiaravalle, estrema guida di Dante, fra le anime beate della candida rosa non manca di rammentare l’antifemminista, omofobo, antisemita Agostino d’Ippona9. L’arco ideologico delineatosi lascia più di qualche semplice perplessità: offre invece molta preoccupazione notarlo in prossimità della divina presenza nel testo della “Commedia”. Bernardo espone inoltre a proposito della destinazione ultramondana dei bambini una dottrina sulla Grazia concessa da Dio ai nascituri la quale ricalca il principio gerarchico sociale di “Brave New World”: a chi più, a chi meno. Se morti in tenera età e soddisfacenti i requisiti allo scopo di andare in paradiso, in relazione a quei gradi avranno il corrispettivo posto nella scala della beatitudine celeste. Simile idea assunta da Dante in contrasto col pensiero tomistico, il quale in materia di Grazia intravede uniformità universale laddove operante, oltre a ribadire un impianto distopico contiene (pericolosi) spunti luterani. Se infatti pensiamo che per il sommo poeta i beni terreni sono amministrati da un’intelligenza celeste che lui chiama “Fortuna” (la quale a me evoca la smithiana “mano invisibile”) e che accoglie altresì il concetto di predestinazione, siamo portati a osservare il modo in cui il suo radicalismo contenga elementi poi dal Protestantesimo (e dalla sua cultura) sviluppati in altra direzione. Detti elementi posseggono la propria radice genetica nell’antipelagianesimo di Agostino d’Ippona. Max Weber poi studierà con attenzione il nevrotico attivismo protestante. Per quanto concerne Dante possiamo vedere che pure costui manifesti forme attivistiche e auspicio a esse (tuttavia non forme di natura economica): attivismi bellico e politico, nonché quello di scrittura propagandistica (le opere dantesche della fase matura), messi al servizio della fede cattolica. L’autore della “Divina Commedia” nel complesso riesce a rimanere saldamente nell’alveo della Chiesa medievale e si appaga in ultima istanza di una mistica contemplazione della Santissima Trinità (supremo dogma cristiano).

continua qui 
http://danilocaruso.blogspot.com/2021/04/parricidio-dantesco-parte-4-di-4.html


NOTE

7 https://www.academia.edu/14615660/Il_capitalismo_impazzito_di_Aldous_Huxley

8 A vantaggio di un approfondimento suggerisco di leggere i miei lavori di seguito ricordati:

https://www.academia.edu/6280171/Ermeneutica_religiosa_weiliana

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/03/lacqua-e-il-dio-biblico.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2014/06/antropogonia-e-androginia-nel-simposio.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2017/11/radici-sumere-di-ebraismo-e-capitalismo.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2013/07/simone-weil.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2019/12/cristianesimo-e-verita-in-simone-weil.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2014/10/lorigine-ideologica-del-cristianesimo.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/01/abramo-o-della-contraddizione-teologica_4.html

9  https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/nevrosi-e-irrazionalismo-in-agostino.html