Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

giovedì 8 dicembre 2016

IL SEVERO MONITO DI SENECA

di DANILO CARUSO

Non si sa con esattezza quando Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) abbia scritto il “De brevitate vitae”: forse alla fine degli anni 40 (finito il suo esilio), forse al principio degli anni 60 (dopo aver abbandonato la corte neroniana). Quest’opera senechiana, dove l’autore si rivolge a Paulinus, un prefetto dell’annona di Roma, riporta la riflessione del celebre maestro di Nerone sopra un particolare tema dell’esistenza: l’uso fatto dagli uomini del tempo a loro disposizione. L’autore di tale dialogo ricorda in apertura di trattazione una lamentela comune a più epoche: la ritenuta brevità della vita. Però subito ribadisce: «Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto. Ci è stata concessa una vita sufficientemente lunga […]. Dopo che l’abbiamo lasciata trascorrere nel lusso e nell’ignavia, dopo che non l’abbia­mo impegnata in nessuna impresa degna, quando, alla fine, si presenta la neces­sità ineluttabile, ci accorgiamo che è passata senza che ne avvertissimo il trascor­rere. […] Uno è prigioniero di un’avarizia insaziabile, [...] chi è intorpidito dall’inerzia; questo è spossato da un’ambizione [...], quello si fa condurre [...] dalla frettolosa passione per il commercio e dalla speranza di guadagno [di tangenze marxiane dirò meglio più avanti]; c’è anche chi si logora di volontaria schiavitù nell’ingrato ossequio a chi sta in alto [una laboetiana considerazione1]; [...] i più non hanno propositi ben definiti e si lasciano sballottare tra l’una e l’altra decisione della loro irriflessività vagabonda, inconstante e sempre insoddisfatta; ci sono anche quelli che non scelgono mai una direzione di marcia, e la morte li sorprende tra gli sbadigli, disfatti dalla noia: insomma, sono sicuro che è vero quel che disse, a mo’ d’oracolo, il più grande dei poeti: “È ben piccola la parte di vita che viviamo”. Certo, l’intero arco della vita non è vita, è tempo [omne spatium non vita sed tempus est]». Il filosofo stoico romano ha appena colto una verità di fondo di sempre: tanti presunti umani de facto non vivono, fanno trascorrere i giorni a guisa di ignari animali da macello allevati in una fattoria. Un tratto di vita più o meno lungo di per sé non dice niente. Nella nostra era sembra perdersi pure uno dei valori della società passata il quale attribuiva ad anziani e adulti un compito di guida e di esempio al cospetto delle nuove generazioni. Un detto di un non remotissimo passato sottolineava la forza nei giovani e la saggezza nei vecchi. Nel mondo contemporaneo si avvera la preoccupazione senecana che la somma degli anni si tramuti in un inutile computo aritmetico. Seneca prosegue la sua argomentazione dicendo: «Ora ho voglia di pigliare uno dalla folla dei più vecchi: “Vediamo che sei giunto all’età massima per un uomo: hai cent’anni o qualcosa di più. [...] Cerca di ricordare [...] che cosa ti risulta realizzato in tanti anni, [...] quanto ti ha portato via [...] una letizia stolta, una cupidigia avida, una conversazione leggera, quanto poco t’è rimasto del tuo: ti renderai conto di morire prematuramente”. Ed il vero motivo, qual è? Voi vivete come se doveste vivere sempre, non vi si prospetta mai la vostra fragilità, non considerate quanto tempo è già passa­to, lo perdete, come se attingeste ad una scorta completa, abbondante [...]. Voi temete tutto da mortali, ma desiderate tutto come se foste immortali». Molti seguono lo stile del “Brave New World”: inconsapevoli vuoti gaudenti sul modello della distopia huxleyana, i quali alla fine della propria esistenza andranno a schiantarsi contro il muro finale presentato dall’edonismo. I distopici personaggi del romanzo di Huxley vivono l’intera esistenza da trentenni grazie ai progressi scientifici di quel futuro. Possiamo osservare il modo in cui nel “Mondo Nuovo” scompare la visibilità della saggezza, la quale nella realtà quotidiana aveva simbolo nella vecchiaia2. Affinché non venga meno siffatto modello comportamentale (archetipo junghiano) Seneca attua un richiamo: «Il saggio [...] se è l’uomo della libertà integra ed indistruttibile, se non ha vincoli, è padrone di sé, è al di sopra di tutti». E boccia il cattivo esempio degli edonisti: «La corruzione di chi s’è avvilito nella gola o nella libidine è degradante. […] L’arte di vivere si deve continuare ad impararla durante tutta la vita, anzi, e questo forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire». L’autore del “De brevitate vitae” sottolinea delle sfumature, nella sua valorizzazione del tempo a disposizione di ognuno (il quale dovrebbe essere strumento di crescita e non di esclusivo pascaliano divertissement) che lo avvicinano, come anticipato, a Marx. Chiarito che l’anzianità possa svuotarsi del suo peso pedagogico tradizionale, a causa di pratiche appartenenti alle pagine di decadenza, all’inizio del cap. VIII abbozza una, non tanto nebulosa, connessione fra la rilevanza del tempo individuale e il lavoro umano svolto: «Mi stupisce sempre il vedere gente che chiede ad altri il loro tempo ed i richiesti accogliere prontamente la domanda; tutti e due guardano al motivo della richiesta di tempo [illud uterque spectat propter quod tempus petitum est: valore d’uso], nessuno bada al tempo in quanto tale [ipsum quidem neuter: valore di scambio]: lo si chiede e lo si dà, come fosse una cosa di nessun conto [quasi nihil petitur, quasi nihil datur]. Giocano con il bene più prezioso di tutti, un bene che li inganna, perché non ha corpo [re omnium pretiosissima luditur; fallit autem illos, quia res incorporalis est], non cade sotto gli occhi e perciò è valutato pochissimo, anzi, non gli si dà quasi nessun prezzo [vilissima aestimatur, immo paene nullum eius pretium est]. Gli uomini accettano volentieri pensioni e largizioni e, per averle, appal­tano la loro fatica, il loro lavoro, la loro attenzione, ma il tempo nessuno lo conta, lo impiegano molto alla buona, come se non costasse nulla [annua, congiaria homines carissime accipiunt et illis aut laborem aut operam aut diligentiam suam locant: nemo aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito]». In questo brano il precettore di Nerone è marxiano. Il sostantivo neutro latino pretium (la cui gamma semantico-concettuale indica: valore, costo, denaro, paga, ricompensa, premio) ha una radice mercantile in senso lato: “pret-” = idea di scambio, dello scambiare. L’autore de “Il capitale” non potrebbe affermare di Seneca l’identica cosa sostenuta a proposito di Aristotele, giacché Seneca sta tematizzando un tempo-lavoro legato all’immateriale (senza dubbio non di esplicita natura economica, dato che siamo in epoca precapitalistica): nelle parole senechiane il nesso tra un’attività volta a produrre ricchezza-benessere e il suo aspetto di fine da un lato, e il lavoro operato in un dato periodo nella sua dimensione astratta (gelatinosa) dall’altro, è evidente. Notiamo che Seneca intuisce cose di un altro ambito, socioeconomico, di cui non si rende conto. Tuttavia, al contrario del filosofo greco, non ha i di lui limiti d’analisi, poiché il primo parla da un punto di vista esistenziale: ciò gli consente di superare il difetto aristotelico sorto dal legame con una società schiavista (il quale di per sé non consentirebbe una prospettiva di astrazione analitica in simile materia di esame). Pertanto la concezione di un lavoro pressoché gratuito, in quanto frutto di costrizione, non impedisce al filosofo stoico di associare, in una notevolissima intuizione, il tempo e l’attività umana al di là di soggetti e oggetti specifici, e di intravedere che è in astratto il lavoro (l’opera generica dell’uomo) ad avvalorare i prodotti in virtù di una spesa di tempo e di energie manuali e intellettuali. Sia per il maestro di Nerone che per il filosofo di Treviri tanti individui non sono concentrati sulla verità, ma rimangono distratti (a seguito di un movente o di un altro). La possibile multiforme alienazione trasforma gli uomini in vittime di un’esistenza più animale che umana: «Quando la vecchiaia li coglie, hanno mente ancora infantile: vi sono giunti impreparati, disarmati; nulla è stato previsto. [...] Come una conversazione, una lettura, un pensiero profondo ingannano il viaggiatore, al punto che s’accorge d’essere arrivato prima d’aver notato l’approssimarsi della meta, così questo viaggio della vita [...] non è avvertito dagli occupati, se non quando finisce». Qual è la causa di questo svuotamento di autentica umanità? Seneca spiega la ragione dello scadere di costoro in dettaglio: «Per poter loro rinfacciare il loro errore, bisogna anche istruirli, non basta deplorarli. [...] Non hanno tempo di pen­sare al passato e, se il tempo c’è, non trovano nessuna soddisfazione nel ricorda­re cose incresciose. [...] Nessuno, se non colui che ha sempre agito sotto censura propria, la sola infallibile, si volge volentieri al proprio passato; chi ha bramato molte cose con ambizione, chi ha disprezzato con alterigia, vinto con prepotenza o insidiato con inganno, rapito con avarizia o profuso con prodigalità, deve inevitabilmente temere i propri ricordi». Il trascorso che però tali individui non prendono in considerazione non è solo quello personale, è altresì un passato più ampio scaturente dallo studio e che guarda a tutto il versante cronologico alle spalle: la storia e quanto di eccellente in essa è stato generato. Seneca ha un’altra considerevole intuizione quando sembra avvicinarsi a un, più o meno confuso, concetto di inconscio collettivo junghiano. Non si rendeva conto in precedenza di parlare dell’archetipo del vecchio saggio, né tanto meno qui di seguito sa di parlare di inconscio collettivo e di archetipi: «Questa parte della nostra vita è ormai intangibile come le cose consacrate, è sfuggita a tutte le umane contingenze, sottratta al dominio della sorte, [...] non può essere sconvolta né rubata; il suo possesso è perpetuo, sicuro». Esseri umani, solo presunti, non patiscono soltanto la mancanza di un decoroso trascorso personale: sono vacui, avendo spento e rigettato il logos, della conoscenza dell’umanità tramite la sua storia. Del loro insignificante insieme, estraneo a una positiva possibilità di cogliere gli archetipi, resta al massimo un anonimo rammarico: «È prerogativa di una mente serena e tranquilla il ripercorrere tutte le parti della propria vita; gli animi degli occupati, come gli animali a giogo, non possono girare il collo per voltarsi indietro. I loro anni, perciò, finiscono sotto terra: come non giova a nulla versare nel vaso grandi quantità di liquido, se non c’è un fondo che lo riceva e conservi, così non importa la quantità di tempo che viene loro concessa, se non trova dove depositarsi: filtra attraverso animi scon­nessi e sforacchiati». Dedicare una fetta della propria esistenza al sapere, accanto all’azione, rientra nello statuto ontologico del genere umano. Chi trascura i compiti essenziali contribuisce all’imbarbarimento della società. Costui va, vuoto, verso il nulla heideggeriano, il quale, nell’angoscia descritta da Seneca, lo annichilirà, giacché, non essendosi elevato, grazie al logos, alla nobiltà umana, passerà inosservato e dimenticato nel cammino dei secoli. La fuga dei vigliacchi e degli edonisti dal mondo vero, dalle preoccupazioni, dall’idea della morte, porta rispettivamente in direzione dell’alienazione e del divertissement (si tratta di quelli che diventeranno Morlock ed Eloi wellsiani3): «C’è gente la cui vita privata è un essere occupati [...]. Non è il caso di parlare di vita ritirata, ma di occupazione inattiva. [...] Non elencherei, per Ercole, tra i momenti di tempo libero, i conviti di costoro [...]: [...] da tutto questo si ricava nomea di eleganza e sontuosità, ed i loro mali li accompagnano a tal punto, in ogni angoluzzo della vita, che non riescono più a mangiare e bere senza ostentazione. [...] So che un tale di costoro che vivono in delizie (se delizia si può chiamare il disimparar vita ed abitudini umane), una volta che fu tolto dal bagno e portato a braccia sulla sedia, chiese: “Sono seduto, adesso?”. Pensi che costui, che non sa se è seduto, sappia se è vivo, se vede, se è disimpegnato? Non mi sarebbe faci­le dire se mi fa più compassione la sua ignoranza o la sua simulazione di ignora­re. In realtà, finiscono per non accorgersi di molte cose, ma di molte altre fingono di non accorgersi. Certi vizi li dilettano come fossero segni di felicità [...]. Costui non è un uomo disimpegnato; dagli un altro nome: è un malato, un morto. È disimpegnato chi è anche cosciente del proprio disimpegno. Ma codesto mezzo vivo, che ha bisogno di un altro per conoscere la posizione del proprio corpo, come può essere padrone di un solo attimo di tempo?». Non poche immagini senecane, di cadaveri ambulanti, regala la realtà, aventi ruolo di comparse, più che di protagonisti, in esibizioni e processioni nichilistiche. Seneca rivolge un insegnamento similare a un pensiero di Umberto Eco nel momento in cui rammenta che, «tra tutti, i soli che davvero dispongono del loro tempo sono coloro che attendono alla saggezza; sono i soli che vivono e non si limitano ad amministrare bene i loro anni, ma aggiungono tutte le età alla loro. Tutti gli anni trascorsi prima che essi esistessero fanno parte del loro patrimonio. [...] Nessuna epoca ci è vie­tata, in tutte ci sentiamo accolti e, se vogliamo uscire mediante la magnanimità dalle strettoie della caducità umana, abbiamo molto tempo in cui spaziare. Ci è possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, dominare la natura umana con gli stoici, oltrepassarla con i cinici». Lo studio conduce all’umanità, l’azione conseguente contribuisce alla costruzione di una società migliore. Chi devia dalla strada maestra esce fuori dei margini di circoscrizione della natura umana. Alienazione e divertissement non sono accidenti inseparabili dell’agire, non rappresentano una vita ideale specialmente se il loro livello di esercizio diventa esclusivo e integrale: soggetti alienati, divertiti, non costituiscono esempi di successo. Agli occhi di tutti, fatti salvi il diritto/dovere nei confronti del lavoro che procuri in maniera onesta un lecito “avere esistenziale (Fromm)”, e il diritto a un sano svago, in aggiunta al rispetto di sé e del prossimo (famiglia, società, et cetera), Seneca dice al destinatario del suo discorso: «Sono occupati nel giusto ossequio coloro che vorranno tenersi ogni giorno in strettissima familiarità con Zenone, Pitagora, Democrito e con tutti i sacerdoti della scienza, con Aristotele, con Teofrasto. Nessuno di costoro risponderà che non riceve, nessuno mancherà di rendere più felice, più amico, il visitatore che congeda, nessuno lo commiaterà a mani vuote. A costoro, tutti possono far visita, di notte e di giorno. [...] I geni più insigni hanno formato delle famiglie: scegli quella cui vuoi associarti. Con l’adozione, non condividerai soltanto il nome, ma anche i beni, e non dovrai custodirli con avarizia o gelosia, perché aumenteranno quan­to più li distribuirai. Quegli uomini ti avvieranno all’eternità e ti eleveranno ad una dignità dalla quale non si può essere deposti. Questo è il solo modo di allungare la tua vita mortale, anzi, di mutarla in immortalità. [...] La vita del saggio è dunque molto spaziosa; egli non è prigioniero del limite che racchiude gli altri, è il solo esente dalle servitù dell’umana schiatta; le età gli sono tutte soggette come sono soggette a Dio. Un tempo è passato? Lo abbraccia con il ricordo; è presente? Lo utilizza; è futuro? Lo pregusta. La sua capacità di unificare tutti i tempi gli fa risultare lunga la vita. La vita più breve e più tormentata è quella di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente e temono il futuro: quando giungono alla fine, quei miseri s’accorgono troppo tardi d’essersi impegnati per tanto tempo a non far nulla. [...] Neppure si può dedurre una loro longevità dal fatto che spesso le giornate sembrano loro interminabili o che, mentre attendono l’ora fissata per la cena, si lamentano che il tempo scorre lento. In realtà, nei pochi casi in cui vengono loro meno le occupazioni, si arenano nel tempo libero e restano perplessi: non sanno come ordinarlo per venirne a capo. Perciò puntano su un impegno e risulta loro pesante tutto il tempo dell’attesa [...]. Qualunque attesa di una cosa desiderata risulta loro troppo lunga, eppu­re il tempo che amano è breve, è un istante, esageratamente accorciato dal danno che essi stessi s’infliggono; in realtà, passano da una cosa ad un’altra e non riescono a sostare su un solo piacere». A conclusione del “De brevitate vitae” il suo autore torna a fare cenno di una forma di alienazione, la quale a posteriori e con uno sguardo particolare potremo di nuovo ricollegare a un ambito analitico marxiano, sulla cui soglia Seneca si colloca in maniera inconscia tramite le sue intuizioni di matrice esistenziale. Egli non vive, come già detto, in una società capitalistica, tuttavia trattando del tempo e dell’uomo va al nocciolo di cose che matureranno in futuro e che Marx potrà esplicitare meglio. Afferma il filosofo stoico: «La condizione di tutti gli occupati è miserevole, ma la più misera è quella di coloro che non sono impegnati in fatti propri, ma regolano il loro sonno su quello degli altri, camminano secondo il passo degli altri e provano a comando amore e odio, i due sentimenti più spontanei di tutti. Costoro, se vogliono rendersi conto di quanto sia breve la loro vita, pensino quale parte ne posseggano». Il precettore di Nerone e l’autore de “Il capitale” hanno in comune una forma mentis semitica (al riguardo di Marx ne ho parlato in un mio saggio4): Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo era originario del Vicino Oriente fenicio; Seneca inoltre stette da giovane molti anni in Egitto; per quanto riguarda Marx, tra l’altro, la sua famiglia era di origine ebraica. L’attivismo umano operante nel tempo è il minimo comune denominatore senechiano-marxiano, tenendo naturalmente conto dell’enorme divario di contesti sociali e culturali che separa i due filosofi. Ciononostante, per dirla con parole dello scrittore latino: Seneca non ha soppresso la possibilità, nelle riflessioni di Marx, di una, non so quanto consapevole, tangenza filosofica attraverso i brani del “De brevitate vitae” accostati da me all’analisi marxiana ne “Il capitale”. Il brano alla fine del discorso senecano esaminato mostra un concetto di alienazione distinto dal divertissement, ed evidenzia la condizione di un uomo subordinato, la quale il filantropo Seneca non può riferire in modo chiaro e diretto al lavoratore. La schiavitù era allora giudicata lecita, e ciò gli impediva una scientificità marxiana, sebbene egli ne parli con spirito critico (ma di stampo morale): nella concezione stoica senechiana un individuo libero può essere schiavo (a causa delle passioni, ad esempio), mentre un servo può essere libero (mediante la sua interiorità, in virtù della nobiltà della sua anima). L’idea di un vampirismo, di una cronofagia, accomuna lo scrittore latino e Marx: vampiri antichi o vampiri moderni, comunque vampiri che sottraggono tempo agli individui sono posti in risalto da loro nelle rispettive trattazioni. Entrambi osservano l’essere umano, di cui studiano l’azione, sotto il profilo della temporalità.


Note

1 Riguardo al “Discours sur la servitude volontaire” invito a leggere un mio scritto

2 Su “Brave New World” esiste una mia monografia

3 Circa la dicotomia Eloi/Morlock, nel contesto di “The time machine”, suggerisco la lettura di un mio lavoro

4 “Critica dell’irrazionalismo occidentale”


I brani del “De brevitate vitae” nella versione tradotta sono stati tratti da “SENECA / TUTTE LE OPERE”, testo pubblicato dalla Bompiani nel 2000.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria

lunedì 28 novembre 2016

LA TERRIBILE DISTOPIA DI H. G. WELLS

di DANILO CARUSO

“La macchina del tempo” è un romanzo del 1895 di Herbert George Wells (1866-1946), un incrocio tra la fantascienza e l’utopia negativa. Il protagonista del racconto (il viaggiatore del tempo, voce narrante unica per largo tratto), grazie a una sua invenzione (la quale dà il titolo alla storia), riesce a raggiungere il futuro: l’anno 802701, dove vive un’inaspettata traumatica esperienza. I primi esseri post-umani con cui viene a contatto, gli Eloi, sono alti quanto bimbi, vestono in modo uguale e sono vegetariani (la fauna è pressoché assente). Ignorano la scrittura, e la loro lingua, nuova e sconosciuta al time traveller (che egli imparerà a conoscere), è ulteriore motivo di turbamento. Il primo approccio avviene mediante comunicazione elementare e gesticolare. «Una domanda mi venne improvvisa alla mente; queste creature erano dunque deficienti? […] Un suo rappresentante mi rivolgeva una domanda degna del livello intellettuale di un bambino di cinque anni. […] Feci subito un’altra scoperta piuttosto strana sul conto dei miei piccoli ospiti: mancavano di interesse per qualsiasi cosa. Si avvicinavano a me lanciando grida di impaziente meraviglia come avrebbero fatto dei bambini, ma appunto come i bambini smettevano ben presto di esaminarmi e si allontanavano alla ricerca di un nuovo giocattolo. […] Avevo l’impressione di esser capitato in mezzo a un’umanità in declino». Wells, il quale aveva simpatie politiche collocate a sinistra, nei primi capitoli del romanzo fa un paio di isolati accenni al socialismo. Il viaggiatore nel tempo si interroga se tutto quello che ha visto all’inizio non sia l’esito, alquanto sconcertante, della dialettica sociale, ormai morta. «Non avevo mai visto individui più indolenti o che si stancassero con maggiore facilità. […] Quel luminoso tramonto mi faceva pensare al tramonto del genere umano. Per la prima volta ero in grado di comprendere le strane conseguenze di tutti gli sforzi che stiamo compiendo nel campo sociale; conseguenze abbastanza logiche, se ci pensiamo bene: la forza deriva dalla necessità, e la sicurezza rappresenta un cardine della debolezza». Il capitalismo era scomparso, a prima vista, in quel «paradiso sociale» scevro di problemi di crescita demografica incontrollata: «A quanto potei giudicare, non dovevano sottoporsi alla minima fatica». In simile futuro, lontano parente della nostra epoca, l’intelligenza si è ridotta ai minimi termini, assieme a ogni manifestazione distintiva del genere umano (a partire dall’arte). È morta la dialettica hegeliana signore-servo: «Quali sono le cause […] che spronano l’intelligenza e il vigore dell’uomo? Le avversità e la libertà: sotto la loro spinta l’uomo attivo, forte e astuto sopravvive, mentre quello più debole soccombe; per esse l’unione leale di individui capaci riceve il suo premio, meritato a costo di repressioni, di pazienza e di fermezza». In questo «bizzarro mondo nuovo» apparirebbe un’eco, ancora utopica, della marxiana abolizione della famiglia (con radice, positiva, nella “Repubblica” platonica): «L’istituzione della famiglia e i sentimenti che ne derivano: violenta gelosia, tenerezza per i figli, devozione incondizionata verso i genitori, tutto ciò è giustificato dai pericoli a cui va incontro la gioventù». Al time traveller la vita del futuro remoto si mostra antitetica rispetto a una tensione spartana: «Pensavo alla debolezza fisica di quegli esseri, alla loro limitatissima intelligenza, alle numerose, enormi rovine che avevo davanti agli occhi, e sentivo rafforzarsi sempre più in me la fede in una perfetta conquista della natura da parte degli uomini: a ogni lotta succede la quiete. L’umanità era stata forte, piena di energia, intelligente, ed aveva adoperato la sua abbondante vitalità per alterare le condizioni in cui viveva; adesso era sopravvenuta la reazione, provocata appunto dalle alterate condizioni di vita. In questo nuovo stato di perfetto benessere e di sicurezza, l’infaticabile energia che è la nostra forza non può non mutarsi in debolezza. […] A un tal genere di vita, quelli che noi chiameremmo i deboli sono adatti come i forti, e di conseguenza non sarebbe più possibile parlar di deboli; anzi, questi ultimi si troverebbero assai più a loro agio, perché i forti sarebbero logorati da un’energia che non troverebbe sfogo. Senza dubbio, la squisita bellezza degli edifici che vedevo era il risultato degli ultimi sprazzi di energia sviluppata dal genere umano prima che esso si indebolisse, in perfetta connessione con le sue attuali condizioni di vita: dopo quel trionfo aveva avuto inizio la grande pace definitiva. Ed è sempre stato questo il destino della forza in un clima di sicurezza completa: essa si abbandona all’estetismo sia nelle arti che nell’amore, poi si illanguidisce e decade». Questo scenario sembra una parodia rousseauiano-fichtiana dell’ottimo stato di Natura. Wells, che era un progressista e un femminista, mette in scena in tale primo ritratto una cruda, realistica, tragico-grottesca caricatura di parte dell’umanità contemporanea e passata. La quale è proiettata nel romanzo in un’era distopica. Gli Eloi sono paragonati dall’autore di “The time machine” ai fanciulli: l’accostamento è ingiusto nei confronti di questi ultimi. I bimbi sono bassi perché non sono cresciuti del tutto, e non sono stupidi. Ci possono diventare a contatto con ambienti e adulti non sviluppati secondo quanto l’altezza del genere umano si aspetterebbe. Quando ciò che Dio ha immesso nella natura dell’uomo si atrofizza, nella maniera su descritta, non sono qualificabili rimbambiti quelli che abbiamo di fronte: i bambini sono filosofi naturali; gli adulti idioti, abbrutiti, sono più vicini ad animali domestici. Il potere del logos in loro diminuisce a livello allarmante. Il viaggiatore del tempo infatti constata un fenomeno, non raro già prima, di impoverimento semantico-concettuale (pensiamo d’altro canto al newspeak di “1984”): «Il linguaggio di quella gente era davvero di un’estrema semplicità, composto soltanto di nomi concreti e di verbi: se esistevano termini astratti, dovevano essere pochissimi; e inoltre i miei ospiti ignoravano affatto il linguaggio figurato». In un secondo momento il time traveller scopre l’esistenza dei Morlock, un altro genere di futuri tipi post-umani. «La razza umana non era rimasta di un’unica specie, ma si era sviluppata sotto due forme ben distinte fra loro: quei graziosi fanciulli del mondo superiore non erano gli unici discendenti della nostra stirpe; anche quella bianca, repellente Cosa notturna fuggita davanti a me era l’erede dell’evoluzione dei tempi. […] La seconda specie umana conduceva una vita sotterranea; tre circostanze in particolare mi spingevano a credere che le sue rare apparizioni alla superficie della terra fossero la conseguenza di una ormai lunga abitudine alla vita sotterranea […]. Sotto i miei piedi la terra doveva essere percorsa da enormi gallerie: l’abitazione, appunto, della nuova razza. La presenza dei pozzi e dei piloni di ventilazione lungo i fianchi delle colline – e ne sorgevano da per tutto […] – dimostrava che le ramificazioni delle gallerie si stendevano in tutti i sensi. Era assai logico, quindi, pensare che tutto quanto occorreva alla facile vita degli esseri che vivevano alla luce del sole fosse preparato in quel mondo inferiore e artificiale. Questa idea mi pareva talmente plausibile, che la accettai senza pensarci due volte, e cercai di spiegarmi in maniera verosimile la scissione della razza umana. […] Basandomi sui problemi propri alla nostra epoca, sulle prime mi parve chiaro come la luce del sole che l’estendersi dell’attuale divergenza di opinioni tra capitalisti e lavoratori, divergenze di carattere puramente temporaneo e sociale, era la chiave di tutta la faccenda. […] Possiamo notare anche oggi una tendenza a utilizzare lo spazio sotterraneo per gli scopi meno ornamentali della civilizzazione. […] Le tendenze aristocratiche della gente ricca – dovute senza dubbio alla sua educazione sempre più raffinata – e l’incolmabile abisso che la divide dalla rude violenza del povero, stanno già conducendo all’esclusione di quest’ultimo dalla superficie della terra. […] In tal modo, alla fine, avremo al di sopra della terra i ricchi, che condurranno una vita piacevole, comoda e bella, e sotto la superficie terrestre i poveri, i lavoratori, la cui esistenza sarà un continuo adattamento alle condizioni del loro lavoro. Una volta confinata nel sottosuolo, questa parte di umanità sarà obbligata a pagare, e non poco, la ventilazione delle sue caverne; se si rifiuterà, di farlo dovrà morire di fame o di asfissia. Quindi una parte di costoro si adatterà a un’esistenza miserabile, e i ribelli troveranno la morte, fino al giorno in cui i sopravvissuti non si adatteranno perfettamente a una condizione di vita sotterranea e non saranno felici del proprio stato [caverna platonica, laboetiana servitù volontaria1; n.d.r.], così come gli abitanti del mondo superiore saranno felici del loro. Ecco la ragione per cui mi convinsi che la raffinata bellezza degli uni e il triste pallore degli altri fossero una conseguenza naturale di quanto ho detto prima. Allora guardai con altri occhi il grande trionfo dell’umanità, di cui avevo tanto fantasticato: quel trionfo di educazione morale e di generale cooperazione che avevo immaginato non esisteva affatto. Vedevo invece una vera e propria aristocrazia, padrona di una scienza perfezionata al massimo grado, condurre alla sua logica conclusione il sistema industriale odierno: il trionfo di questo sistema non era stato soltanto un trionfo sulla natura, ma anche sull’individuo-uomo». L’impressione iniziale, più o meno positiva, del viaggiatore nel tempo, a mano a mano che approfondisce la conoscenza della realtà trovata, lascia il campo a toni decisamente negativi a causa dei Morlock (post-proletari, «disgustose creature sotterranee, … nuovissimi animali che avevano preso il posto degli antichi»), i quali scoprirà essere dei cannibali che si cibano degli Eloi (post-borghesi). La coscienza di questa barbarica nemesi storica tuttavia non allontana il time traveller dal senso di civiltà. «I pallidi esseri sotterranei mi ispiravano una specie di repulsione […]. È probabile che tale repulsione provenisse dall’influenza esercitata su di me dagli Eloi. […] Esisteva un elemento del tutto nuovo, nella disgustante personalità dei Morlocchi, qualcosa di inumano e di maligno, che suscitava in me una ripugnanza istintiva. […] I miei ospiti del mondo superiore dovevano avere rappresentato, un tempo, l’aristocrazia della razza umana, e i Morlocchi i loro servitori meccanici; ma ormai tutto ciò apparteneva al passato. […] Gli Eloi, come i re Carolingi, erano ormai ridotti a una semplice espressione di vana bellezza; erano ancora padroni della superficie terrestre unicamente perché i Morlocchi, esseri sotterranei da innumerevoli generazioni, non sopportavano la luce del giorno; costoro, concludevo, preparavano gli abiti degli Eloi e provvedevano ai loro quotidiani bisogni, per la vecchia, innata abitudine di servire gli altri1, forse. Anche i cavalli continuano, ai nostri giorni, a raspare il terreno con gli zoccoli, e gli stessi uomini provano piacere a uccidere gli animali per sport: le antiche necessità, ormai superate, hanno fissato questi istinti in modo indelebile, nella personalità umana. Ma senza dubbio il remoto ordine di cose era già, almeno in parte, invertito; la Nemesi stava rapidamente insinuandosi nel destino della razza più delicata: in epoche trascorse, migliaia di generazioni prima, l’uomo aveva privato il suo fratello degli agi e della vista del sole; adesso questo fratello compiva la strada inversa, e come mutato! Gli Eloi avevano già cominciato a imparare di nuovo una vecchia lezione, facevano di nuovo conoscenza con la paura. […] Tutte le attività, tutte le tradizioni, le organizzazioni più complesse, le nazioni, i linguaggi, le letterature, le aspirazioni, perfino il ricordo dell’uomo – come io lo conoscevo – erano stati spazzati via, annullati; al loro posto ecco queste fragili creature che avevano dimenticato la propria origine e queste Cose bianche che mi incutevano tanto timore. Considerai inoltre la grande paura che divideva le due specie umane, e per la prima volta ebbi l’esatta percezione – e ne rabbrividii – di quella che poteva essere la carne che avevo visto su quella tavola. Era troppo, troppo orribile! […] Evidentemente, in un dato periodo del lunghissimo tempo occorso al decadere del genere umano, il cibo dei Morlocchi si era fatto scarso, e forse essi erano stati costretti a nutrirsi di topi e di animali simili. Anche ai nostri tempi, l’uomo è meno difficile e meno raffinato, nella scelta del cibo, di quanto lo fosse in epoche precedenti: poco più raffinato di una scimmia; il suo pregiudizio contro l’uso della carne umana non nasce da un istinto ben radicato. E così quegli inumani figli degli uomini... Tentai di studiare la cosa da un punto di vista razionale: dopo tutto, costoro erano meno umani e ancor più remoti da noi di quanto lo fossero i nostri antenati cannibali di tre o quattromila anni fa; l’intelligenza che avrebbe reso questo stato di cose un insopportabile tormento si era spenta. […] Cercai di allontanare da me l’orrore che mi pervadeva in ogni fibra, e di considerare tutta la faccenda come una dura punizione inflitta all’egoismo umano. L’uomo aveva vissuto felice fra gli agi e i piaceri valendosi della fatica del suo simile; la sua parola d’ordine era stata una sola: “Necessità”, e se ne era servito come di una valida scusa: con l’andar del tempo la necessità era divenuta abitudine. Cercai anche di considerare col disprezzo di Carlyle questa miserabile aristocrazia in piena decadenza, ma non mi fu possibile. Per quanto grande fosse il loro invilimento intellettuale, gli Eloi conservavano ancora un’apparenza troppo umana, perché non mi sentissi solidale con loro e perché la loro degradazione e la loro paura non mi toccassero da vicino». Il viaggio del protagonista di “The time machine”, oltre che essere una fantascientifica rappresentazione, è una psicologica esplorazione junghiana analoga al “Liber novus” dello stesso Jung o alla “Divina Commedia”. C’è un passaggio del romanzo wellsiano in cui l’inventore della macchina del tempo, scappato dal rifugio sotterraneo ai Morlock, sviene come Dante all’ultimo verso del V canto dell’“Inferno”: «Then, for a time, I was insensible» / «E caddi come corpo morto cade». Il viaggio nel tempo futuro è altresì una ricerca junghiana dell’anima (Weena, la protagonista di «un flirt in miniatura») da parte dell’animus (l’inventore). Simile prospettiva di analisi del testo di Wells non è fuori luogo. Esiste un altro brano che mi è parso sorprendente in virtù della sua visione anticipatrice di un fenomeno inesistente alla fine del XIX secolo: il buco nell’ozono e l’innalzamento delle temperature medie del pianeta Terra. «La temperatura nell’Età dell’Oro era molto più calda di quella attuale, ma non posso spiegarne la ragione». Questa profetica constatazione, non l’unica in opere wellsiane, ha rafforzato la mia impressione del viaggio nel tempo di “The time machine” quale esplorazione (parziale) all’interno dell’inconscio collettivo, a guisa del “Libro rosso [o novus, che dir si voglia]”. Quanto leggiamo nel romanzo di Wells è in gran parte la rappresentazione di una dinamica costitutiva archetipica. Cioè una tensione bipolare tra estremi (Eloi e Morlock) cerca di emergere in una sintesi mediatrice ed equilibrante. Eloi e Morlock costituiscono degli eccessi comportamentali; dalla loro dialettica l’inconscio collettivo deve elaborare un modello di comportamento, un archetipo che riesca a salvare l’umanità da quella degenerata dicotomia. La bellezza de “La macchina del tempo” sta nella capacità di introspezione psicoanalitica, nel suo valore di monito. Questo romanzo non è soltanto una storia di fantascienza, è molto di più. Nei suoi simboli parla l’inconscio collettivo. Il cannibalismo dei Morlock rappresenta il ribaltamento del vampirismo capitalista: se la storia dell’uomo camminerà lungo i binari degli eccessi, la deriva porterà distopicamente il genere umano al degrado completo e la civiltà alla scomparsa. Un aspetto del romanzo wellsiano, a proposito degli Eloi, che ha attirato la mia curiosità, riguarda l’altezza fisica di costoro. Nel testo si specifica la statura di uno di loro dicendo che era forse «four feet high»: intorno a 1,2 m. Si è posto pertanto il problema del rapporto tra il time traveller e Weena, giacché costui dichiara nei di lei riguardi: «I had not […] come into the future to carry on a miniature flirtation». Si parla in modo esplicito di una forma erotica di legame interpersonale. In più di un sequel del romanzo, di successivi autori differenti, il flirt tra il viaggiatore e Weena si evolve in un’esplicita relazione amorosa la quale genererà pure figli. Il parametro suddetto di 1,2 m corrisponde oggigiorno a quello di un soggetto umano nella fascia evolutiva di 8-9 anni. Ho approfondito questa problematica, impercettibile nelle trasposizioni cinematografiche del romanzo. Weena agisce come una bambina poiché riflette i caratteri degli Eloi, ma per il resto lei, da un punto di vista somatico, non è una fanciulla decenne. All’epoca di redazione e pubblicazione di “The time machine” l’altezza media di una donna inglese era 1,53 m, quella di un uomo 1,67. Tra il viaggiatore nel tempo e un Eloi esiste dunque una differenza di 45 cm, il che è in linea con la statura media umana attuale (1,65 m), la quale registra una gamma di normalità 1,35-2 m. In fin dei conti Eloi e Morlock rappresentano gli eredi di un’umanità che nell’accorciamento denota un simbolico abbassamento del grado di civiltà sino a toccare un punto di notevolissima degenerazione. Se poi consideriamo i parametri antropometrici medievali, di cui gli Eloi sembrano caricatura, e l’usanza sempre medievale di dare in moglie le teenager al più presto, vediamo in quell’anno 802701 un ritorno a un grottesco Medioevo, e ci rendiamo conto che il viaggio nel tempo sia – come detto – una simbolica traversata nell’inconscio collettivo. L’altezza media di un uomo inglese oggi è di 1,77 m, quella di una donna di 1,63: se Wells avesse scritto “La macchina del tempo” nella nostra era, un Eloi sarebbe stato un po’ più alto, e Weena è possibile immaginarla 1,35 m col corpo di una dodicenne se rapportata agli standard odierni: una sorta di simbolica futuristica nabokoviana Lolita o shakespeariana Giulietta. La prima ha 12 anni (all’inizio), la seconda 13 e la madre le dice: «Devi pensare al matrimonio. Vi sono a Verona signore di riguardo che, più giovani di te, hanno già figli. Per conto mio, alla tua età ero già madre». Nei contesti sociogiuridici moderni un siffatto interesse sessuale volto sulle minori di età superiore ai 12 anni non viene incluso nella patologia e nel reato di pedofilia. È una tipologia clinica e penale che rientra in altra categoria (ninfofilia). La legge italiana attuale riconosce a una minorenne la capacità di un consenso a un congresso carnale purché abbia superato i 14 anni, e sulla base di questa discriminante prevede le possibili sanzioni. Le quattordicenni italiane hanno una potenziale responsabilità davanti a eventuali figli, sebbene ancora non siano maggiorenni. In Scozia la maggiore età è fissata alla quota di 16 anni, nel resto del Regno Unito e in Italia di 18. L’età del consenso femminile in Europa ha avuto una lunghissima tradizione stabilita sulla soglia dei 12 anni, non senza  delle eccezioni. La legislazione inglese la innalzò a 13 nel 1875. Nel XX secolo la disciplina giuridica assunse un ordine più consono a una migliore qualità della vita. Yvette Mimieux, l’attrice che interpretò Weena nel film del ’60 (“L’uomo che visse nel futuro”), allora aveva 18 anni ed era alta 1,63 m. Il time traveller wellsiano va in là di 800.000 anni a causa delle restrizioni dell’ordine razionale conscio (freudiano principio di realtà) a lui coevo? Il rilievo della statura personale ritornerà nel “Brave New World” di Aldous Huxley quale connotato distintivo nella funzione sociale2. Comunque, il fatto che Weena sia bassa è un’eredità morfica distopica. In relazione a questo tema trattato è opportuno ricordare che Wells si era risposato nel 1895: si era separato nel dicembre del ’93 dalla moglie coetanea, una sua cugina, per una sua studentessa (il divorzio è proprio del ’95). Avevano convissuto con grande scandalo allora di tutti, e poi si erano uniti in matrimonio. La prima moglie era ancorata a schemi di giudizio e di condotta di stampo conservatore-puritano. Essendo egli un sostenitore del libero amore, avrà diverse amanti e figli pure da loro oltre che dalla seconda moglie, Amy Catherine Robbins (1872-1927), una donna progressista come Wells, la quale non disapprovava la cosa sino all’estremo. In materia di matrimonio Wells era vicino a Marx. Il suo sentimentalismo vissuto al plurale lo pose al centro di vari scandali. A 50 anni, ad esempio, ebbe come amante una ragazza di 19, da cui ebbe un figlio. Le sue idee e il suo successo nella veste intellettuale gli procurarono una sincera e viva venerazione femminile: una sua ammiratrice, una volta, si recò da lui indossando soltanto un impermeabile e le scarpe; e quando egli la respinse, costei reagì male tagliandosi le vene. È ipotizzabile che ci sia qualcosa di rimosso nel personaggio letterario di Weena. Nella perdita della protagonista femminile di “The time machine” può darsi si adombri, in maniera più o meno inconscia, la separazione coniugale; mentre nella figura fisica di Weena invece si incarni Amy Catherine detta Jane (alta circa 1,5 m). La dialettica junghiana animus-anima ha ne “La macchina del tempo” dunque un senso, al di là delle apparenze schermanti, nei suoi simboli, a volte un po’ misteriosi, tuttavia leggibili se accettiamo la terribile navigazione all’interno del sistema inconscio universale. Basta salire su una macchina del tempo armati di altezza intellettuale e di coraggio, mancanti a servi pavidi e mediocri i quali hanno l’unico inconsapevole rimosso desiderio di cibarsi delle carni dei loro tiranni (il caso culminante nei Morlock). La dicotomia Eloi/Morlock assume un profondo significato. I nomi hanno un’ascendenza paronomastica orientale: Eloi da Elohiym (appellativo del Dio veterotestamentario, ma termine indicante nell’Ebraismo anche gli dei); Morlock(s) da Moloch (altra divinità). La parola Eloi compare nel testo inglese di “The time machine” solo al plurale; Morlock(s) 50, in questo caso si fa un uso al singolare 4 volte. Il fatto che Eloi non abbia un uso al singolare non mi pare casuale se collegato al teonimo del Tanak. Gli Eloi sono prodotto evolutivo di una vampiresca borghesia (nel romanzo wellsiano) la quale in un mio saggio, dove parlo dello sviluppo di correnti irrazionalistiche nel pensiero occidentale, ho qualificato, di fronte al resto della società, come gruppo di Elohiym falsi e bugiardi. Wells ha espresso nel suo romanzo in esame, in modo figurato, una sua trattazione di temi da me là nella mia sede affrontati in altra forma di studio3. Nella maniera in cui i proletari (futuri Morlock) sono stati sacrificati all’ipocrita altare borghese, così nell’anno 802701 simili esseri abbrutiti, rovesciando i ruoli hanno attuato una disumana cannibalesca nemesi. Moloch era una divinità semitica cui venivano sacrificati dei bambini: il che spiegherebbe pure le caratteristiche somatiche e psichiche degli Eloi nella finzione wellsiana. Per inciso: anche il Tanak prevedeva sacrifici umani. La presunta morte di Weena, sul finire del romanzo, per colpa dei Morlock, tinge il racconto di un cupo distopico: il processo di individuazione junghiano crolla poiché prevale il male di uno di quei due lati di sintesi archetipica (rappresentati dagli Eloi e dai Morlock) la quale non consegue un punto di mediazione. Wells non dice se Weena, scomparsa, sia veramente perita; è il time traveller a dare la cosa certa. Il protagonista riesce a sfuggire ai Morlock e a recuperare la sua invenzione, sottrattagli da loro, grazie a cui poi compie un ulteriore tragitto in avanti nel tempo alla volta di una nuova junghiana profezia (cap. XI): la razza umana scomparirà, prima o poi, dalla faccia del pianeta. La prima pubblicazione di “The time machine”, a puntate sul periodico “New Review”, all’undicesimo capitolo conteneva una variante, un’inserzione forzata di una sezione eliminata da Wells in seguito. Il suo editore aveva infatti preteso la descrizione di una successiva fase degenerativa dell’umanità dopo gli Eloi e i Morlock. È comprensibile, nell’Inghilterra alla fine dell’Ottocento, la suggestione proveniente dal darwinismo, la cui novità di veduta poteva attirare l’attenzione dei lettori. Lo stesso Wells non è immune dall’applicare un criterio evolutivo-comportamentista al genere umano degradantesi in senso distopico (il biologo darwinista Thomas Henry Huxley fu suo professore universitario a Londra). Tuttavia egli non voleva rappresentare l’umanità in una sua ulteriore fase di caduta biologica. Una visione narrativa completamente tragica approdante nell’estinzione troverebbe un margine di speranza in un’emigrazione altrove a tempo debito. In ogni caso la nuova specie post-umana descritta, composta di esseri erbivori somiglianti a dei canguri, non scaturisce dal progetto letterario wellsiano. A conclusione della mia analisi voglio sottolineare il fatto che il posteriore “Brave New World (1932)” huxleyano appaia una tappa, una distopica hegeliana figura fenomenologica intermedia, di avvicinamento evolutivo in direzione dell’era terrestre segnata dalla dicotomia wellsiana Eloi/Morlock. Il viaggiatore del tempo indica la causa di tale frutto nell’impantanarsi «sul benessere, in una società perfettamente equilibrata la cui parola d’ordine era “sicurezza” [towards comfort and ease, a balanced society with security and permanency as its watchword]». E il motto del “Mondo Nuovo” di Huxley è: «COMMUNITY, IDENTITY, STABILITY». Il destino (distopico) del genere umano pare segnato. Riguardo a questa interazione tra Wells e gli Huxley: non trascuriamo che avessero collaborato, durante la prima metà degli anni ’30, nella redazione di saggi, Herbert George e Julian (biologo, fratello di Aldous; l’altro biologo ricordato, Thomas Henry, era loro nonno). L’autore di “The time machine” era fautore di uno Stato mondiale allo scopo di conquistare una kantiana pace perpetua. Aldous Huxley nel “Brave New World” rielabora una simile idea non tanto in chiave parodica quanto distopica. Altresì il film “Metropolis” del ’27, di Fritz Lang, contiene eco wellsiana da “La macchina del tempo”.


Note

1 Una mia disamina sopra il “Discours sur la servitude volontaire”

2 Al “Mondo nuovo” ho dedicato un saggio

3 “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

Il brano della tragedia “Romeo e Giulietta” è stato preso da una pubblicazione nei tascabili economici Newton del 1993, quelli de “La macchina del tempo” in italiano da un’edizione della Rizzoli del 1975.



Weena (Yvette Mimieux) e un Morlock



Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria

sabato 12 novembre 2016

LA BOÉTIE: IPOCRISIA BORGHESE O MARXISMO-LENINISMO?

di DANILO CARUSO

Étienne de La Boétie (Sarlat, 1530 – Germignan, 1563) è stato uno scrittore, di estrazione sociale borghese, della Francia rinascimentale, amico del connazionale filosofo scettico Michel de Montaigne (1533-1592), che conobbe a Bordeaux grazie al fatto di ritrovarsi entrambi consiglieri del parlamento di questa città. La Boétie è noto in virtù di un suo scritto di acuta analisi politica (“Discorso sulla servitù volontaria”), il quale ha avuto polimorfa fortuna nel tempo accreditandosi presso ambienti e pensatori non sempre fra di loro accostabili per affinità ideologica. La ribellione del 1548 nel Meridione francese, dove venne introdotta una tassa sul sale, e il suo violento soffocamento, che coinvolse la regione di provenienza dello scrittore di Sarlat, forse rappresentarono il movente della riflessione da cui scaturì tale opera (il cui terminus ante quem è il 1552; la laurea in materie giuridiche dell’autore risale alla fine del ’53). Il “Discours sur la servitude volontaire” ha un testo ambiguo suscettibile di due iniziali formali letture contraddittorie: una in chiave liberal-borghese e l’altra in chiave radical-popolare. La mia impressione è che questi due abiti mentali siano solo formalmente distinguibili nel pensiero e nel pamphlet laboetiani. Egli, nel modo in cui ricorda il suo amico Montaigne, non era un sovversivo, era invece un uomo di ampie e profonde vedute. Si comprende altresì il giudizio del secondo rinvenente nel testo una sorta di giovanile esercitazione: giudizio volto a moderare e mimetizzare il potenziale de facto anche eversivo del “Discours”, sfruttato subito dagli ugonotti i quali si erano impossessati del manoscritto, inedito mentr’era in vita l’autore. È lampante che tale opera non sia una ragazzata, l’argomento è molto serio. Reputo che Montaigne cercasse di non far passare l’amico nella qualità di rivoluzionario, veste che in effetti pare egli non avere, essendo, almeno in apparenza, un cattolico. Dopo aver perso il padre precocemente, uno zio prete s’era preso cura di lui. Fu allievo, nell’ambito del corso di studi universitari a Orleans, di una dotta figura, Anne du Bourg, passato al Calvinismo e perciò nel ’59 messo a morte. Credo che le condizioni storiche, sociali e culturali dell’epoca di La Boétie, carica di irrequietezza religiosa, non gli potessero consentire tanto in maniera netta di assumere una rotta da tra le due menzionate opzioni di costruzione a monte, le quali restano perciò aperte a una dimensione di possibilità pratica futura successiva alla divulgazione del testo. Non voglio neanche parlare di un La Boétie dal doppio volto rousseauiano. Egli precorre il Ginevrino: nel “Discours” si ritrovano elementi rousseauiani, a testimoniare questa viva tensione tra istanze sociali che possono in un secondo momento, più chiaro e distinto, entrare in aperto conflitto dopo essere maturate sullo stesso terreno. È il caso, sottolineato da La Boétie, della teorica rivendicazione del popolo, antagonista della monarchia assoluta e dei suoi sostenitori clerico-nobiliari, di un sistema di diritti naturali i quali consentano ai suoi membri di uscire dalla condizione d’inferiorità: basterebbe che ogni uomo di condizione servile si astenga dal prendere parte al meccanismo dell’oppressione affinché esso venga meno per cause endogene, «riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore». All’inizio la Boétie si mostra gandhiano, ma contraddirà poi l’esclusività di simile via con altri toni ponenti all’alternativa riformista e pacifica la possibilità di uno scavalcamento da parte di procedure rivoluzionarie violente. C’è un passaggio del “Discours” il quale (assieme ad altri) mi pare nevralgico, e che vale la pena di riportare e analizzare nei suoi precisi dettagli allo scopo di comprendere la forma mentis laboetiana, albergata da vari genuini semi (i quali hanno però prodotto in determinati casi della storia male piante). «La natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se 6) nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia 3) non per questo ha voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e 8) non ha certo creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un 1) affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque 7) questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un’unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse 2) riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande 4) dono della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una 5) comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di 4) stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di 5) averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e 2) a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo». 1) L’«affetto fraterno» del primo tratto, questo spirito di collaborazione sociale, mi fanno pensare a posteriori al giustizialismo peronista e all’escudo simbolo del partido dove due mani si stringono, a rappresentare la solidarietà tra gli uomini, davanti a un berretto frigio (tipico della Rivoluzione francese). 2) In questo brano La Boétie respinge l’idea di una liceità dialettica hegeliana servo-padrone. Però egli considera un’uguaglianza astratta, gli direbbe Hegel, la quale non fa i conti con la concretezza. E non è casuale che a predicare bene, e a razzolare male, i liberali francesi si siano meritati un’accusa di astrattezza: meritata, non nel senso dei critici, timorosi della reale forza razionale dei principi del diritto, ma perché questi rimanevano volentieri parziali (e detti critici patrocinavano siffatta prassi a prescindere dal riferimento teorico). La forza della ragione, dell’istruzione è molto pericolosa nei riguardi della tenuta di un sistema di potere discriminatorio e sperequativo. Il pensatore di Sarlat afferma questo nel “Discours”, e inoltre, 3) in disaccordo venturo con Hobbes, 4) ricorda lo Stato aristotelico imperniato sulla funzione del logos (pensiero-parola) che lega gli esseri viventi in una comunità logica, la quale comunque non si ferma lì: la vita è varia, non è astratta uguaglianza. Non sempre uguaglianza e giustizia coincidono, dietro il velo di un simile ideale si possono compiere le peggiori nefandezze. 5) La Boétie precorre anche il concetto rousseauiano di “volontà generale” e apre la sua rivendicazione della libertà a modelli totalitari: capitalismo pseudodemocratico e socialismo marxista. Il “Discours” ribadisce la razionalità del diritto alla libertà: «è impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. […] Se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?». Non è molto visibile l’orizzonte alla cui volta rema questa richiesta di libertà (si può vedere una monarchia costituzionale parlamentare, però niente impedisce di guardare oltre). La Boétie respinge l’illiberalità dello Stato ebraico veterotestamentario a causa dello status di sottomissione dove esso colloca l’essere umano (fa un’osservazione obiettiva, ma la condisce con non condivisibili toni antisemiti). In generale l’asservimento popolare produce le condizioni del suo mantenimento mediante un primo effetto collaterale. Conseguenza della servitù è la sua naturalizzazione. L’abitudine è più forte dell’indole libertaria agli occhi di coloro i quali ritengono «naturale la condizione in cui sono nati». Se La Boétie non concepisce una dialettica signore-servo sulla falsariga hegeliana, tuttavia prospetta una dicotomia aristotelica di sprone ai volenterosi: cittadini (esseri umani), sudditi (animali). Egli apprezza quel contesto sociale dove gli individui siano «allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare ognuno miglior prova dell’altro nel conservare gelosamente la libertà». E poi si chiede: «chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore trovandovi un popolo nato per servire […], riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di uomini per entrare in un parco di animali?». Nel “Discours” si invita alla comprensione nei confronti dei servi di un potere assoluto, giustificabili dalla loro non coscienza dello stato servile. La psicologia comportamentista sembra fatta per costoro, la cui essenza non è il logos bensì la fisiologia animale: «per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l’educazione. […] Tutto ciò cui l’uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale». Però subito dopo recupera il primato rousseauiano della «natura semplice e schietta». Al pari di Rousseau bisogna rimediare alla corruzione dell’indole naturale, tuttavia in maniera più razionale che sentimentale. Lo scrittore di Sarlat, seguendo ovvie motivazioni propagandistiche, usa una comunicazione calda la quale dà risalto al sentimento di libertà anziché al suo concetto, il quale pone scontato e acquisito. A proposito della coscienza della servitù il protoilluminismo laboetiano è canonico: «si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui […] non riesce a dimenticare i suoi naturali diritti. […] Sono proprio persone di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell’avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi». La degenerazione della massa (animale) porta con sé un altro effetto collaterale della servitù: «con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio. […] La gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, […] possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande. I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa direzione così da renderli ancor più fiacchi e indolenti. […] I tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé alcun uomo di coraggio. […] Questa è la tendenza naturale della plebaglia […]: sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a tutto verso chi l’inganna». Il “Discours” nonostante non parta da uno schema sociologico interpretativo paragonabile alla figura hegeliana servo-padrone non può far a meno di constatare una paura di perdere la vita da parte del servo nella sua mancanza di coraggio. I servi nella valutazione di La Boétie sono perfetti interdetti, incapaci di intendere e di volere: «è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull’istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, […] e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri». In questi brani compaiono un paio di suggestive immagini poi ricomparse in futuro: Marx e l’oppio del popolo, Kant e la culla degli uomini. Lo scrittore di Sarlat fa pure un esplicito richiamo alla “Repubblica” platonica di cui già in 6). A ciò segue un brano sibillino il quale potrebbe spostare l’autore francese verso un’ipotesi di comunismo: «quegli sciocchi non si accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati». I «propri beni» sono allusivi di una comunione proprietaria generale cui si alluderebbe in 7)? Uno spirito marxista ante litteram lo si può rintracciare nella critica alla religione quale sovrastruttura e supporto del potere assoluto. La Boétie bersaglia coloro che «decisero di mettersi davanti la religione come scudo», una «aura di mistero»: dal canto suo «il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere». Il riferimento religioso è rivolto contro la monarchia assoluta per diritto divino. La strategia di controllo e dominio, degna della psicologia comportamentista, è colta in maniera lucida e precisa dall’analisi laboetiana: «non s’è mai dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all’obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante». Animali codardi vengono inoltre oppressi da chi gode benefici dalla tirannia, benefici da cui viene attratto: «appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, […] tutti coloro che sono posseduti da un’ambizione senza limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande». Consideriamo alcuni esempi: la burocrazia sovietica criticata da Trotzkij (pensiamo al romanzo “We the living” di Ayn Rand); e in genere i raccomandati, sovvertitori del diritto naturale, e i parassiti nel pubblico impiego i quali divorano la ricchezza della nazione con la finzione di lavoro a danno delle imprese private gravate da tassazione eccessiva mirante al clientelare mantenimento dei primi (la ricordata rivolta del ’48 è conseguenza di storture simili). Un poco più avanti nel “nel “Discours” si abbozza una vaga prospettiva di marxiano scontro di classe: «il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri». Questo machiavellico divide et impera tirannico può essere impostato in tale direzione sino a giungere all’esplicita concezione di lotta sociale inter classes elaborata da Marx. Personalmente penso che il filosofo di Treviri abbia generalizzato oltremodo considerazioni simili a questa di La Boétie1. Nel “Discours” abbonda una retorica antitirannica laddove si fanno esempi storici (Giulio Cesare, Nerone, etc.). Non condivido, parimenti allo schema marxiano di interpretazione del cammino storico, la difesa laboetiana della vecchia repubblica senatoria romana (costruita su un’oligarchia latifondista). È comprensibile che nei passi qui interessati del “Discours” sia più saliente l’aspetto retorico. Durante il periodo di formazione di La Boétie, il vescovo della sua diocesi (con sede nella città natale Sarlat) era un umanista promotore della riscoperta dell’antichità classica. Mi pare improbabile vedere un’apologia dell’oligarchia borghese in tale richiamo storico nello scritto laboetiano. La Boétie indica con chiarezza solo i protagonisti negativi del problema: il clero, la nobiltà, la monarchia assoluta. In ciò c’è una junghiana profezia di rivoluzione. Chi sia il reale soggetto della sua rivendicazione libertaria non lo dice altrettanto con chiarezza: la borghesia emergente o il popolo? Appare evidente che la massa abbia necessità di una guida liberatrice, e come sosteneva Lenin questa debba essere un’oligarchia illuminata, un’aristocrazia di stampo platonico. Nell’enigmatico prisma del “Discours” troviamo una faccia marxista-leninista. Credo tuttavia che tutte le potenziali facce prestantesi allo spirito del tempo debbano avere nello spirito del profondo un campo unitario che offra coerenza di senso al pensiero laboetiano. A mio avviso è lo stesso autore di Sarlat a mostrarci qual è la sua chiave di lettura: la ragione, il logos. Questa sua dote, la quale gli consentiva di scegliere la via aristotelica del giusto mezzo, gli aveva guadagnato nel ’60 la molto delicata incombenza di farsi portavoce, per conto della monarchia francese, presso cattolici e calvinisti interni, di diverse azioni volte a ricercare una pacificazione. Il suo capace operato contribuì a far trovare un momentaneo accordo. Editto di Saint Germain del ’62: niente più persecuzione dei protestanti, però limitazioni alle manifestazioni di culto. L’umanista Nicolò Gaddi, vescovo di Sarlat, era imparentato con la Regina madre, la reggente di Francia Caterina de’ Medici: fu così che la moderata condotta laboetiana nella sua esperienza amministrativa a Bordeaux, dentro un’istituzione in mano ai cattolici persecutori, emerse all’attenzione della corte quale requisito idoneo per l’attribuzione di quel compito di mediazione. Nell’equilibrio ritroviamo il significato del messaggio di La Boétie. Perciò nel “Discours” il suo redattore non colloca percorsi futuri con eccessi liberisti o socialisti. L’anarchico tedesco Gustav Landauer (1870-1919) si è spinto addirittura a identificare il tiranno laboetiano con l’entità statale. Dal mio punto di vista di studioso razionalista La Boétie è a favore di una terza via, una tercera posición. Liberté égalité fraternité: libertà sin quando non ci sia offesa dell’umanità; uguaglianza di base di fronte allo Stato; solidarietà a difesa delle categorie svantaggiate. Il passaggio 8) del primo brano riportato è eloquente. Occorre dare alle bestie vigliacche l’opportunità di scegliere liberamente il proprio destino: se vogliono rimanere serve nonostante ci si sforzi di educarle e istruirle, non è bene nei confronti dell’umanità e della civiltà introdurre queste all’esercizio dei diritti politici come riteneva Aristotele (per inciso: il liberale John Stuart Mill riteneva opportuno dare potere individuale di esprimere un numero di voti differenziato a seconda delle capacità intellettuali). La Boétie lo afferma in modo nitido: il popolo ignorante viene tiranneggiato assieme ai boni viri. Non per niente egli parla di repubblica platonica (dove ognuno sta al suo posto senza nuocere al prossimo). La libertà è esercizio di una volontà non addomesticata. Alla grottesca ignoranza dei più e alla mediocrità dei presuntuosi non interessa poiché non è cosa che si mangia. Giustizia sociale significa dare a ciascuno secondo i propri meriti, dare a ognuno secondo le proprie necessità; rimuovere i disagi nella speranza che nessuno voglia rimanere servo idiota del più furbo di turno. Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere». Benché sappiano di filosofie ciceroniana e lockiana, La Boétie alla fine del “Discours” sostiene altre cose molto giuste: «il tiranno non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori ma con l’onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. […] Penso […] che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici». Le idee laboetiane di tolerantia e di liberalismo non hanno l’ipocrisia e la parzialità di Locke1. La Boétie auspicava una pacifica coesistenza fra cattolici e protestanti. La sua precoce morte, a causa di una malattia, privò la Francia, e l’intero contesto europeo, di una seria e matura voce la quale continuasse a richiamare gli spiriti impazziti alla voce della ragione (poi illuministica). Il “Discorso sulla servitù volontaria” fu tradotto e pubblicato in Italia nella Napoli repubblicana del 1799. L’esperienza della Repubblica napoletana costituisce uno dei più grandi esempi di quanto sostenuto da La Boétie nel “Discours”: il popolo preferisce la servitù volontaria allo sforzo intellettuale e all’azione eroica. Forse è un problema pedagogico. Il pensiero laboetiano è ricco di molti spunti, che guardano in tante direzioni perché il suo autore guardava il mondo con occhio profondo. La posterità non sempre ha colto la lezione del “Discours” nella sua integrità, ne ha mangiata una fetta alla volta. Gustare questa riflessione a 360° può ritornare utile allo scopo di valutare che cos’è la libertà dell’essere umano, a cosa serve, quali sono i suoi limiti. La Boétie capiva che le vere bestie non sono libere giacché sono schiave di un istinto naturale, e che chi non è libero da condizionamenti mentali e comportamentali è come un animale, servo di una natura estranea. “Il discorso sulla servitù volontaria” è un testo affluente di quel fiume che porta alla “Critica della ragion pratica” di Kant, il quale va compreso mantenendosi dentro questo bacino e bevendo quest’acqua.


NOTE

1 Per approfondimenti consiglio la lettura del mio saggio “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

I brani del “Discorso sulla servitù volontaria” sono tratti da un’edizione pubblicata da Jaca Book nel 1979.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria

giovedì 27 ottobre 2016

ALLEGORIA EROTICA ED ESCATOLOGIA POETICA IN ANNE SEXTON

di DANILO CARUSO

“Two hands” è una bella poesia di Anne Sexton (1928-1974), poetessa confessionale, nella quale l’autrice, che fu amica di Silvia Plath1, sviluppa attraverso un talentuoso uso di tecniche retoriche una profonda immagine dell’eros, come si può leggere nella mia traduzione seguente del testo sextoniano.


Due mani

1   Dal mare uscì una mano,
     ignara come una moneta da un centesimo,
     agitata per via del sale di sua madre,
     muta a causa del silenzio dei pesci,
5   rapida grazie agli altari delle maree,
     e Dio si allungò fuori della Sua bocca
     e la chiamò uomo.
     Emerse l’altra mano
     e Dio la chiamò donna.
10  Le mani applaudirono.
     E questo non era peccato.
     Era come si era programmato.

     Io le vedo erranti per le strade:
     Levi che si lagna del suo materasso,
15  Sara che studia uno scarabeo,
     Mandrake che tiene la sua tazza di caffè,
     Sally che suona il tamburo a una partita di football,
     John che chiude gli occhi della donna morente,
     e alcuni che sono in prigione,
20  anche la prigione dei loro corpi,
     come Cristo era imprigionato nel Suo corpo
     finché giunse il trionfo.

     Srotolate, mani,
     voi i tessuti di angelo,
25  srotolateli a mo’ di spirale di un pupazzetto [legato a un elastico; n.d.r.],
     fate conca [con le mani; n.d.r.] insieme e riempitevi voi stesse
     e applaudite, mondo,
28  applaudite.


La lirica adopera una metonimia, quella della mano («hand») allo scopo di indicare l’essere umano (maschio e femmina). La cosa che mi ha particolarmente colpito è la, non so quanto consapevole, aderenza alla lettera veterotestamentaria della cosmogonia e dell’antropogonia all’esordio in Genesi. Poiché ho analizzato questi brani biblici, che risultano spunti al genio poetico della poetessa americana, nella versione originaria, posso affermare che la prima strofa di “Two hands” ha un felice esito di resa poetica. In relazione all’“uomo” e alla “donna”, le due mani (che danno il titolo), appare una dimensione di antropogonia androginica giacché tali due metonimie rievocano un corpo unitario, quello dell’Adamo androgino in seguito alla cui scissione nacque Eva2. Il «mare (sea)» del primo verso ha, dal canto suo, pari richiamo cosmogonico veterotestamentario. Esso è l’acqua del Tanak da cui Dio trae fuori, attraverso il caos, l’universo intero. Questa prospettiva apre altresì un’ermeneutica psicologica. Il «mare», l’acqua, sono immagini della Grande madre junghiana, così come le due mani rappresentano altri due concetti archetipici, quelli di “animus” e di “anima”. Anne Sexton coglie lo spirito del profondo in rapporto alla simbologia metonimica adottata, collegata agli archetipi junghiani citati. Siffatta operazione della poetessa è forse non del tutto cosciente. Mi pare uno di quei casi dove la divina mania (inconscio collettivo) si offre al talento dell’artista rapito nel gesto creativo. La lirica in esame, pubblicata, dopo il suicidio dell’autrice, nella raccolta del 1975 intitolata “The awful rowing toward God (La terribile seconda navigazione verso Dio)”, potrebbe rimanere intrappolata in una superficiale ermeneutica dello spirito del suo tempo. Il testo in realtà esprime molto di più. Ruota attorno all’archetipo androginico e a quelli anima/animus. La facciata marcusiano-freudiana non deve farci arenare sulla superficie dello spirito del tempo, che è pur sempre “verità”, tuttavia parziale. Un’ermeneutica che va oltre la scorza ci conduce dalla libido freudiana a quella junghiana, e alla possibilità di cogliere profondità di significati meno espliciti nell’interpretazione simbolica. Cosicché nel Dio del v. 6 ritroviamo il principio determinante (maschile) del Tanak, poi assunto dalla filosofia platonica e neoplatonica. L’allegoria del congresso carnale espressa dal v. 10 («The hands applauded») ha molteplici richiami specialmente se connessa ai successivi due versi. La teleologia del ricongiungimento è programmatica (si veda il v. 12) nell’Ebraismo e nel “Simposio” di Platone, perciò «questo non era peccato [this was no sin]». Se la prima strofa di “Two hands” ha una cornice e un orizzonte veterotestamentari, la seconda vuol essere, paragonata alla suddetta, una sorta di Nuovo Testamento rivendicante la liberazione da qualsiasi «prigione [prison]» per risorgere a guisa del Cristo rievocato nei vv. 21-22. La strofa conclusiva ha colore apocalittico: le immagini del rotolo, dello srotolare, caricano tali finali versi di un tono escatologico, dove l’applaudire (allegoria erotica) rovescia il lato della medaglia freudiano alla volta di quello junghiano. La libido è il motore del mondo, però non è una bestiale forza, reprimenda da timorose istituzioni: nevrotici a caccia di animali. Tutti questi non rientrano nell’autentica categoria di essere umano. Questo è il “profondo” del messaggio sextoniano in “Two hands”. Se volessimo catturare questo senso in poche parole e in un’immagine fissa potremmo dire con Frida Kahlo3: VIVA LA VIDA.



Note

giovedì 13 ottobre 2016

IL GIOCO CAPITALISTA DEGLI ELOHIYM FALSI E BUGIARDI

di DANILO CARUSO

Karl Marx ha il grande merito di aver analizzato il sistema capitalistico di produzione e la società che lo esprime, nel modo più consono all’oggetto d’analisi. Egli ha sondato il campo con un occhio omogeneo alla materia, poiché ha applicato la medesima forma mentis operante nel capitalismo. La cosa è complicata a proposito della testa del pensatore di Treviri. Non posso sbilanciarmi sulle sue misure di consapevolezza. La certezza, secondo il mio modo di vedere, è che la formula sociale capitalista e il marxismo analitico hanno una comune radice nel lontano Ebraismo antico. L’attivismo-volontarismo giudaico attraverso il Cristianesimo (soprattutto protestante) giunse a gettare le basi da un lato (Calvinismo inglese) del capitalismo odierno, e dall’altro (Luteranesimo tedesco) di una tradizione volontaristica germanica, entrambe di connotazione irrazionale. Si tratta di due canali sorti da identica sorgente, entrati in conflitto a causa del più intenso tentativo di sopraffazione del secondo a partire dall’Ottocento. Marx è un Tedesco di origine ebraica: ecco il problema su citato della comprensione delle parti di influenze tradite dal pensiero marxiano e della loro coscienza da parte dell’autore. Costui si contrappone al liberal-capitalismo inglese in nome della superiorità di una scienza tedesca. A prescindere da cosa si riferisse, ciò di per sé inserisce Marx a titolo pieno nell’irrazionalismo volontaristico germanico che da Lutero, passando da lui, tocca Nietzsche e Heidegger. Tale corrente contiene nel suo intimo l’attivismo giudaico, cui Lutero ha dato abito tedesco. Adesso, dire quanto l’origine familiare ebraica di Marx incida nella giovanile fermentazione delle sue idee non è facile. Giudico detti due aspetti testé indicati imprescindibili, e a ognuno darei un salomonico 50% di presa. Il primo campione del liberalismo inglese, John Locke, condivide con Karl Marx la centralità conferita al lavoro umano, inserita in un contesto di esso il quale definirei di res extensa (empirismo lockiano e materialismo marxiano). L’autore de “Il capitale” nella sua celeberrima opera, in virtù della sua sintonia analitica col tema che discute, è scientifico. Il filosofo di Treviri, nell’ottica d’esame da me assunta, rielabora l’ontologia veterotestamentaria. Quando Marx parla dell’attività lavorativa dà l’impressione di avere in mente l’agire produttivo del Dio del Tanak. Quest’ultimo non crea ex nihilo (come molti credono in disaccordo col testo biblico originale), trasforma, plasma la materia che si trova davanti uscita dal caos (apertura dell’acqua, imago di Grande madre, da Lui indipendente). L’uomo nella concezione marxiana, il lavoratore, è un trasformatore di una realtà atomica. Nella visione del filosofo di Treviri esiste un lavoro astratto, una prassi scevra di connotazione specialistica (la quale però può determinare d’altro canto l’essere strumento di benessere del prodotto). Il Dio del Tanak nella produzione (non creazione) dell’universo svolge un’azione lavorativa in un arco temporale definito. Nell’Antico Testamento tutto cammina a ridosso di una linea cronologica progressiva; non esiste una prospettiva metafisica, né immortalità di alcunché. Un’attività particolare di Dio è quella dove modella una tselem (immagine, nella fattispecie statua di terra) di Adamo a cui soffia la ruach (spirito) a conclusione del processo artigianale di determinazione di una materia. Adamo, al cui riguardo non mi dilungo a chiarire altre erronee traduzioni che lo riguardano perché non pertinenti1, incorpora nel suo interiore la forza vitale (nel sangue), la nefesh, la forma (l’anima in senso fisiologico aristotelico: anima sensitiva) della vis (o se vogliamo avvicinarci a Marx, di valore). Qua osserviamo un vago e ancestrale quadro della futura reificazione umana nelle varie tipologie di schiavitù. Le cose che ora risaltano meglio sono l’opera lavorativa (propria di un Dio) e il suo svolgersi in una cornice di tempo la quale lo misura. Coincidente con esse è il lavoro astratto in Marx: esso risulta una sorta di cumulazione spinoziana di atti di singoli attori, i quali si riducono alla fine ad accidenti di trasmissione della suddetta forza. Il tempo quantifica il lavoro nell’opera di Dio, produttore di valore d’uso ma altresì di scambio (pretesa di sacrifici, pure umani). Lo studio marxiano consente di dire che IL TEMPO È DENARO. Il monismo attivistico di Marx si ricollega, nel modo visto, al pensiero di Baruch Spinoza, Ebreo apostata, che pesò sulle riflessioni di Hegel, il quale ultimo a sua volta contribuì in maniera, ritengo più di facciata, all’edificazione del sistema marxiano. L’umanità marxiana è una gelatinosa portatrice di prassi, è una quidditas (la quale sostituisce il Dio del Tanak) da cui, mediante cui gli esseri umani nella loro singolare esistenza fisiologica (haecceitas) traggono origine. Ne “Il capitale” è scritto che quando «vien meno insieme al carattere di utilità dei prodotti del lavoro anche il carattere di utilità dei lavori in essi rappresentati, vengono meno quindi anche le svariate forme concrete di tale lavori, le quali non si distinguono più, bensì sono tutte ricondotte al medesimo lavoro umano, al lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Nulla resta di essi tranne una eguale fantastica oggettività, una pura gelatina di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza badare alla forma del suo dispendio. Queste cose non stanno ormai che a rappresentare il fatto che nella produzione è stata spesa forza di lavoro umano, vi è accumulato lavoro umano. E in quanto sono cristalli di questa sostanza sociale a loro comune, esse sono valori, valori di merci. […] Forza lavorativa umana allo stato fluido, cioè lavoro umano, produce valore, ma non è il valore. Diviene valore allo stato gelatinoso nella forma oggettiva. […] Il valore di una merce […] è […] gelatina di lavoro umano indifferenziato». Lo schema antropogonico veterotestamentario ritorna. Non è un’isolata tangenza in direzione del Tanak, tra quelle che è possibile evidenziare nei riguardi di Marx e del capitalismo. Se per l’autore de “Il capitale” l’umanità rimpiazza il Dio veterotestamentario, l’apparato capitalista mantiene tale ruolo distaccato da una relazione di omogeneità con la haecceitas. Nella lezione weberiana i borghesi liberal-capitalisti protestanti calvinisti cercano attraverso il loro attivismo nevrotico il segno esperibile nel successo imprenditoriale di una predilezione divina anticamera di salvezza. Da ciò si sviluppa l’epifania capitalistica esaminata da Marx. Al di sotto della lettura cristiana a 360°, weberiana e protestante, soggiacciono suggestioni circoscrivibili al solo Tanak. L’attivismo-volontarismo ebraico fornisce un modello originario nelle vicende di Giacobbe, il quale cerca di imporsi (con successo) su tutti (uomini e Dio). Il risiedere della felicità, in concezioni del genere, nella proprietà di beni tangibili, non lo dimostra soltanto l’esempio di Giacobbe, ma inoltre quello di Giobbe: il Dio giudaicocristiano premia i suoi prediletti gratificandoli grazie alla ricchezza materiale. Nel sistema capitalistico i capitani d’impresa prendono il posto, a seconda di come si voglia vedere la faccenda, o di Dio o di una casta di sacerdoti. Resta assodato che ad avvalorare le merci è il lavoro astratto in qualità di attore universale, accade però che sia nel capitalismo che nel marxismo il lavoratore concreto viene squalificato nella sua umanità. Marx è materialista; il lavoro astratto, la prassi è il vero soggetto della sua filosofia, manca una visione spiritualista: l’esistenza individuale non è un momento di una dialettica dove c’è una parte egemonica sopra una parte passiva della realtà (tale criterio è diffuso nella mentalità semitica: pensiamo allo stoicismo di Zenone di Cizio). Stessa impostazione d’approccio al tema sostiene l’orientamento liberal-capitalistico. Gli imprenditori sono paragonabili a degli Elohiym (pluralità di dei veterotestamentari) o ai loro sacerdoti, in conflitto. Al fine di cogliere l’idea ricordiamo il confronto del profeta Elia con i profeti di Baal. Un imprenditore nella circostanza in cui fosse esaltato si sente un Dio/Elia: c’è un Elohiym (termine al singolare) il quale deve trionfare. Qui l’esame si riallaccia alla dimensione della temporalità messa in evidenza da Marx circa il lavoro astratto. Nella maniera esposta sopra il cosmo ebraico è una realtà spaziotemporale, dove non esistono soggetti immortali. In virtù di ciò la vera ricchezza è un lungo tempo di benessere. Ritroviamo la radice di un mito capitalistico mediato dalla nevrosi calvinista (Weber), ma pure il fatto che la misura della ricchezza, del valore, è il tempo (sotto il profilo formale), e questo dal canto suo ci restituisce l’idea marxiana sulla forma di valore che riconduce al lavoro astratto e al tempo. In Marx e nel capitalismo IL TEMPO È DENARO, è la dimensione fisica di produzione del valore. Siamo ora in grado di comprendere ribaltando le posizioni soggetto-predicato il meccanismo inconscio del capitalista: IL DENARO È TEMPO. L’accumulo di ricchezze in termini di denaro ha una sua logica nevrotica: il capitalista non assomma un monte di soldi, accumula quote di vita per allungare la sua in quanto Elohiym o da offrire in olocausto in veste di sacerdote (l’attribuzione di una di simili due maschere dipende dal grado di delirio). Marx ha ben scoperto un vampiro (la vita, la nefesh, risiede nel sangue), tuttavia non ha tematizzato le dinamiche intraviste da un’angolatura psicologica: la sua orbita materialistica non glielo consentiva. È questo il suo limite strutturale: analizza, sì, bene le cose però i suoi strumenti sono omologhi al problema e non gli consentono di uscirne fuori bene. Era necessario un salto di qualità al lui impossibile nei panni di pensatore materialista presocratico che concepisce l’universo nel limite fisiologico dei filosofi ionici. La physis di Marx mostra da un lato l’attività lavorativa astratta la quale si puntualizza in operatori (accidenti di questa superficie superiore del reale che è l’umanità indistinta), dall’altro un clinamen atomico inferiore di sottofondo. Siffatta monade, un po’ spinoziana, alquanto semitica, è il Dio-umanità nevrosi dell’autore de “Il capitale”, il quale osserva da un punto di vista diverso da quello liberal-capitalista il medesimo attivismo-volontarismo su una res extensa (chora e atomi). Il filosofo di Treviri contiene germi freudiani, giacché se interpretiamo l’impulso attivistico in senso psicologico, secondo un piano che rimane positivistico, otteniamo la libido teorizzata da Freud. Peccato Marx non abbia avuto la forza intellettuale di una seconda navigazione, e rimanga prigioniero sotto il cielo della physis. Egli ha capito tutto del capitalismo, il suo esame obiettivo è però rimasto sul campo della res extensa, non è generalizzabile nei confronti di ciò che capitalismo non è. “Il capitale” è una spinoziana ethica capitalis ordine geometrico demonstrata, dove l’ordo rerum assoggetta l’ordo idearum. Nella storia, ad esempio non esiste lotta di classe in generale come suo asse portante. Nel mondo capitalistico i capitani d’impresa, nell’accumulazione di denaro, succhiano, a guisa di vampiri, vita (tempo) dei loro subalterni dipendenti. Offrono ciò in olocausto al loro Elohiym da cui sperano benefici (lunga vita e benessere) o a sé stessi, se il delirio nevrotico è tale da farsi considerare un Dio (come quello del Tanak, il quale esige sacrifici di valore, ossia contenenti la nefesh anche umana). La dicotomia “Abele (intraprendenza, attività non di rendita, impegno con rischio elevato) / Caino (rendita e lavoro in agricoltura)” rappresenta nella sua allegoria il nocciolo della Guerra civile americana, vale a dire dell’evento della momentanea vittoria ideologica in Occidente del capitalismo. Il Dio veterotestamentario premia e predilige i connotati attivistici di Abele. Marx non era uno psicanalista, sorvolò su una possibilità di lettura non più vera della sua, ma più autentica (la quale fa tesoro del suo lavoro). I lavoratori nel capital-marxismo non sono significativi in sé e per sé, sono sempre ingranaggi della macchina produttiva. Il filosofo tedesco rimprovera questo a tanti padroni imprenditori, noi rimproveriamo ciò a Marx nel caso dello Stato socialista (unico padrone e persistente dominus alienante). Antonio Gramsci parla del partito comunista come di un moderno principe machiavellico, trasformatore della realtà storica: il difetto sta sempre nell’imporre all’umanità concreta (composta di interrelazioni) una cappa oppressiva e omologante. Non esisterebbe libertà: una necessità, in fin dei conti irrazionale, dovrebbe guidare il mondo. Marx non ha la luce della razionalità hegeliana, assume una necessità spinoziana (fato stoico). Egli si traveste da profeta estremista, contestatore di chi ha tradito il Dio-umanità (una sorta di Giovanni Battista). Non è affatto disprezzabile la rivendicazione di giustizia sociale, tuttavia quello che c’è dietro il capital-marxismo è roba da mettere sul lettino dello psicologo, non alimento di esagitate, innaturali, disumane riflessioni, proposte, azioni. Non si può distruggere la Civiltà occidentale allo scopo di risolvere i suoi mali. Una casta teocratico-sacerdotale e una di profeti (Marx ne è capostipite in un Nuovo Testamento socialistico scientifico) emergono nella proposta marxista di risoluzione della questione sociale. Anche qua la cosa non è disprezzabile nella sua forma alfieriana: discriminanti nella determinazione di bontà di un comportamento sono però le sostanze di cui si informa. Rimediare a un male con miglioramenti per poi passare a un peggioramento superiore al male di partenza non è buon acquisto, né un parto di sana ragione. I lavoratori sono nello Stato socialista e in quello liberale (senza vincoli adeguati) pezzi di una scacchiera: buttarla in aria e proclamare “scacco matto” è una proposta insensata. Gli uomini sono legati fra loro da un logos in maniera singolare immanente, l’ulteriore insieme di collegamento intersoggettivo ha lì la sua base. Esiste un inconscio collettivo junghiano, non una ragione universale autonoma hegeliana, vera realtà di cui il resto è dispiegamento a tappe. Queste figure o figurazioni sono figlie dell’intersoggettività. In tal senso, Marx ha preso Hegel e Spinoza riportandoli alla Ionia di Anassimandro ed Eraclito. Il materialismo atomistico rende degno l’autore de “Il capitale” dello spirito positivistico ottocentesco, e la filosofia ellenistica epicurea gli consente di fare un piccolo salto in avanti: di piacere (libido), soddisfazione di bisogni discuterà Freud. Il valore d’uso guarda alla soddisfazione di un bisogno. Il lavoratore è una macchina particolare. Un aggregato atomico informato dalla nefesh fisiologica, equivalente allo schiavo aristotelico giudicato privo di anima razionale: il capitano d’impresa o il partito comunista pensano in suo luogo poiché costui non è all’altezza. Il Tanak non condanna la schiavitù. L’essere servo di un padrone capitalista appare destino di subordinazione a un eletto da Dio (la storia di Israele è altresì storia di imprese belliche). Lo schiavo aristotelico collocato nella res extensa capitalistica è un animale che cartesianamente si tramuta in macchina animata: siffatto è, o ritenuto se ci fossero casi d’eccezione, il lavoratore al servizio del capitale. Pertanto gli investimenti di capitale variabile e costante non fanno differenza ontologica: si comprano macchine moventi altre macchine e materie. Ecco la reificazione del lavoratore. Se poi vogliamo vedere l’argomento con lo sguardo di Freud possiamo parlare di sfruttamento della prostituzione. Il capitalista acquisisce libido deviata mirando alla sua soddisfazione mediante l’affitto di corpi. Quote di tempo-libido vengono sacrificate da (complemento di origine, non d’agente) quell’ente che le possiede al fine di produrre idoli (compare il carattere marxiano della merce come feticcio). La merce è al pari di un’ostia consacrata. Il filosofo di Treviri lo afferma a chiare lettere argomentando della forma relativa di valore (l’exemplum lega una certa quantità di tela e un abito): «La forma di abito dunque, nel rapporto di valore in cui l’abito è equivalente della tela, conta come forma di valore. Il valore della merce tela è allora espresso nel corpo della merce abito, il valore di una merce è espresso nel valore d’uso dell’altra merce. Come valore d’uso la tela è un oggetto sensibile e diverso dall’abito, come valore è “uguale ad abito”, perciò ha aspetto di abito. In tal maniera assume una forma di valore diversa dalla sua forma naturale. Il suo essere valore si manifesta nella sua uguaglianza con l’abito, come la natura pecorina del cristiano nella sua uguaglianza con l’agnello divino». Egli, nel distinguere tra valore d’uso e valore di scambio delle merci, rielabora la dottrina della consustanziazione eucaristica di Lutero («I due fattori della merce»): simile prospettiva ci ricongiunge alle anteriori radici concettuali giudaiche e pure alla cornice weberiana protestante. L’idolo-merce ha reale valore nello scambio sennò il gioco non sarebbe valido, e siamo in linea con Marx. L’imprenditore vende l’idolo di sé o del Dio in qualità di feticcio (valore di scambio) per ottenere denaro (sangue, vita, tempo). Se l’idolo non contenesse il frutto del lavoro astratto non avrebbe quel valore cui la nevrosi mira. Il lavoro salariato è olocausto che trasferisce la nefesh al prodotto idolo, cosicché questo diventa magico. I proventi della sua vendita sono denaro, il quale quel potere magico rileva nell’accumulo di capitale. Il mercato capitalistico è un grande gioco nevrotico di società: il gioco degli Elohiym in guerra inter se (personalmente o per mezzo di loro rappresentanti sacerdotali). Vince il vampiro più abile. Comunque, non tutti i concorrenti sono ascrivibili a suddetta categoria di vampirismo, e fra chi vi è incluso non ciascuno si comporta in modo esagerato. Non mancano filantropi tra gli imprenditori che considerano l’umanità un fine in sé e non un ingrediente di magia. La vendita procura piacere dal feticcio (valore di scambio, soddisfazione libidica dalla prostituzione) all’imprenditore celebrante un’apoteosi nel ciclo produttivo: olocausto del lavoratore che produce idoli la cui vendita fa ottenere il tempo-vita-denaro-nevrotico-simbolico. In effetti chi ha denaro può disporre di trattamenti migliori i quali possono allungare la vita. Lunga e prospera esistenza concede il Dio veterotestamentario (anch’Egli non immortale) ai suoi fedeli. Marx trova ingiuste le sperequazioni, e nessuno può muovergli appunti a tal riguardo: i vampiri sono nemici dell’umanità. «Il capitalista è capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico impulso vitale, quello di valorizzarsi, di generare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, coi mezzi di produzione, la più grande massa di pluslavoro sia possibile. Il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia. Il tempo in cui l’operaio lavora è il tempo in cui il capitalista consuma la forza lavorativa acquistata. Se l’operaio consumasse per se stesso il proprio tempo a disposizione, egli commetterebbe un furto verso il capitalista». Tuttavia non è lecito applicare in risposta al problema gli identici strumenti di esso. Il gioco di sfruttamento capitalistico non muta se gli Elohiym capitalisti sono rimpiazzati dall’Elohiym socialista: sempre olocausti si richiedono. Simile meccanismo mentale, nevrotico, di richiesta-offerta di un sacrificio (umano), non è esclusivo, in questa forma, del capitalismo: è tipico dell’irrazionalismo occidentale. Dal dettato veterotestamentario, alla Chiesa cattolica e a tutte le inquisizioni cristiane (dalla morte di Gesù ai roghi di streghe ed eretici), passa dal sistema capitalistico, e giunge alla Shoah. Il nazionalsocialismo, una fabbrica del male, la cui ideologia e azione condanno fermamente, ha operato secondo la logica (malata) ricordata. Un’irrazionale forza oscura ha preteso sacrifici umani di milioni di Ebrei, un crimine contro l’umanità e la civiltà universale che nessuno potrà mai rendere ammissibile o tollerabile. La tradizione irrazionalistica e volontaristica tedesca, fondata dall’antisemita Lutero, si contrappone in modalità nazionalistica al liberal-capitalismo internazionalista. Il rapporto tra nazisti e comunisti fu ambiguo, come dimostra la loro collaborazione durante il periodo intercorso tra il Patto Ribbentrop-Molotov e l’inizio dell’Operazione Barbarossa. Sovietici e Tedeschi avevano in comune l’ostilità all’asse capitalistico angloamericano, e un’affinità attivistico-volontaristica alla base di questa avversione verso il capitalismo filoinglese: tutto ciò li rese alleati seppur per breve tempo (l’URSS non fu esente da antisemitismo interno). I concetti cardine del pensiero marxiano (uomo e tempo) si sono reincarnati nel pensiero dell’antisemita Martin Heidegger, prosecutore dell’irrazionalismo tedesco. Il di lui inquadramento nichilistico dell’uomo (esserci) in un contorno di temporalità (essere-nel-tempo) è conseguenza della filosofia marxiana. Heidegger è erede di Marx. Ognuno di loro naturalmente elaborò un personale sistema, però entrambi hanno un legame dialettico prossimo nel gran fiume irrazionalistico del volontarismo germanico (Heidegger era il propugnatore dell’opzione esistenziale della “scelta”). Se Marx è figlio spirituale di Locke, Heidegger lo è di Marx. Nel secondo caso padre e figlio hanno avuto l’occasione di andare d’accordo un po’ meglio che non nello schema della prima circostanza. La filosofia heideggeriana critica il progresso della tecnica quale barriera a un senso pieno della vita umana. Marx e Heidegger sono nemici della capitalistica distopia alienante/velante. Tuttavia ad avviso dell’ultimo il rimedio al problema spettava alla razza tedesca eletta all’uopo (a proposito di questo non possiamo accettare né principi, né mezzi, né tanto meno azioni); ad avviso dell’altro a una diversa razza eletta, quella dei lavoratori (organizzati dopo la rivoluzione nello Stato socialista). Sebbene viviamo «nel tempo de li dei falsi e bugiardi» a cui una mandria di pecore viene sacrificata, di Karl Marx possiamo solo apprezzare la bontà della parte critica del suo sistema. Quanto di lui diventa proposta di aperta sovversione, di azione violenta al di fuori di legittima difesa dell’ordine e della giustizia, non può essere accolto nella dialettica sociale e politica. Questione cruciale è comprendere e stabilire il margine di razionalità. A ciò serve lo studio della storia, la quale i più non conoscono. L’archetipo junghiano del capitalismo è negativo, come quello dell’antisemitismo: essi gravitano in un’area psichica estroverso-irrazionale. Il denaro è un simbolo correlato al primo. Compare nelle posizioni iniziale e finale del ciclo capitalistico nella espressione marxiana D-M-D': il denaro (valore di scambio) è l’obiettivo, la merce si appiattisce agli occhi del capitalista al grado generico di idolo e di mezzo in relazione al suo scopo. Questo è un modello produttivo malato, giacché il valore d’uso mostra la sua facciata soltanto al consumatore, il quale cerca strumenti di benessere (non trascuriamo che alcuni potrebbero essere finti e indotti nell’uso da strategie manipolatorie: Epicuro muove tale appunto ai piaceri in modo chiaro). La sequenza marxiana M-D-M indica un’economia di sussistenza, che è quella sana: dove de facto conta il valore d’uso.


NOTE


I brani di Marx sono tratti da un’edizione de “Il capitale” pubblicata da Newton nel 1996.

Per approfondimenti