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mercoledì 13 marzo 2019

LA PLATONICO-JUNGHIANA DICOTOMIA “NARCISO/BOCCADORO”

di DANILO CARUSO

Hermann Hesse (1877-1962) è stato uno dei più rappresentativi autori della letteratura non solo novecentesca. “Narciso e Boccadoro” compare nel novero delle sue opere più conosciute: un testo dove l’autore del romanzo affronta vari argomenti psicologici (dall’amicizia in particolare alle relazioni umane in generale e allo sviluppo della personalità). La mia analisi critica, d’impostazione non solo junghiana, mira a evidenziare aspetti portanti della struttura narrativa. Riguardo al profilo biografico dello scrittore (vincitore del Premio Nobel nel ’46) è pertanto opportuno precisare subito che costui riflette alcuni suoi tratti di vita nella figura di Goldmund (in termini di psicologia analitica, dotato di una personalità “sentimentale-percettiva”), di cui Narziss (invece, dalla personalità “logico-intuitiva”) si prenderà “cura” (in senso terapeutico). La gamma dell’“amicizia” che Hesse delimita in apertura dell’opera assume limiti molto ampi: va infatti dalla “filia” all’“eros”. Il creatore del romanzo parla infatti in maniera esplicita della possibilità omoerotica del rapporto tra Narziss e Goldmund, già nel cap. II. Vi ritorna quindi nel successivo, dove ribadisce un paideutico orizzonte platonico-simposiaco, rivisto entro i gravi limiti pregiudiziali del Cristianesimo medievale. Lo scopo che si prefigge Narciso accantona l’eros terrestre (del discorso di Pausania) a beneficio di quello uranico (di cui Socrate è modello del docente, sempre nel “Simposio”): a Boccadoro, in questo riproposto schema dell’evocata paideia, nello scenario di un contesto cattolico integralista, spetta inizialmente il ruolo del discente. Egli è colui che, più giovane, nella dicotomia psichica “apollineo/dionisiaco” occupa il grado di Alcibiade1. Narciso si pone nei confronti dell’“amato” nelle insolite vesti, in relazione al teatro narrativo dove si trova protagonista, di analista junghiano. A prescindere dall’impostazione data al mio esame del testo di Hesse, è il caso di ricordare che allo scrittore fu molto familiare il pensiero di Jung, e che egli stesso fu altresì a contatto diretto col fondatore della psicologia analitica (cui si rivolse a causa di un giovanile grave stato di malessere esistenziale): tra l’altro, nel cap. IV compare un significativo accenno all’astrologia, la quale costituisce una materia evocata non in maniera accidentale, giacché è stata oggetto di profonda analisi da parte di Jung2. A proposito del legame “platonico” tra Narziss e Goldmund, Hesse sfida il negativo pregiudizio cattolico e ripresenta l’impianto formativo giovanile simposiaco. L’autore del romanzo oltre a far riferimento concettuale al “Convito” non manca di rievocare pertinenti contenuti dal “Liside” platonico, laddove si parla dell’amicizia quale vicinanza fra caratteri umani non del tutto simili. Nel cap. V Narciso compie uno strano coming out davanti a Boccadoro: gli dice che a lui viene negato l’eros in quanto religioso, e si capisce con abbastanza facilità che sta dichiarando di essere omosessuale, ma che la Chiesa gli impone continenza integrale sul lato biologico, e che l’unico spazio rimasto al suo interesse verso l’“amato” possa essere del tutto intellettuale e immateriale (una prospettiva radicale che il “Simposio” non contempla). Boccadoro è un ragazzo che, in seguito alla sua non permessa uscita notturna dal monastero assieme a degli amici, porta alla luce il suo meccanismo mentale inculcatogli dal sistema socioeducativo cattolico medievale relativo alla considerazione del sesso femminile, il cui contatto per uno, in particolare come lui, che voglia dedicarsi alla vita religiosa, rappresenta tabù. Il sensuale contatto con una ragazzina (che lo bacia furtivamente) accelera l’intensità d’azione sopra di lui del complesso di peccato-nevrosi, già messosi in moto nel momento in cui era stato condotto in una casa presso due fanciulle, l’interazione con le quali ai suoi occhi era off limits. Il bacio, in occasione dell’allontanamento dei ragazzi, apre in Goldmund la crepa di quella contraddizione psichica tra ratio (nevrotica) e ragioni del cuore (libido), una situazione di sostanza opposta alla dicotomia pascaliana in merito, nella quale interverrà in guisa terapeutica Narziss. Boccadoro mostra tracce della cultura misogina cristiana, dove tutto ciò che è riconducibile a una categoria di “femminile” viene qualificato come “potenziale peccato”. Il Cristianesimo ha spezzato l’asse caratteriale junghiano razionale sul quale “ratio” e “libido” normalmente stanno in contatto alternativo ma non esclusivo. Esso di quell’isolato segmento del “maschile-logico” ha fatto, in modo nevrotico (maschilista), l’unico parametro di razionalità: e quindi “irrazionale”, “peccaminoso”, viene a risultare l’opposto “femminile” (libido). E Goldmund non è, in principio, esente da simile devianza. Sarà Narziss in un chiarificatore passaggio, nella veste di terapeuta, a dare input di correzione all’amico. L’azione psicoanalitica di Narciso prosegue oltre l’episodio chiarito, e, tenendo come metro di scandaglio la nevrosi cristiana antifemminista, volge alla ricerca di qualcosa di “rimosso” nella psiche di Boccadoro. E individua il complesso psichico promotore di questa perniciosa “rimozione” nella figura di un padre radicalizzato. Narciso portando avanti il cammino formativo di Boccadoro sbocca esplicitamente nel tema dell’“individuazione junghiana”, e fa uso di una terminologia simbolica (l’immagine del “dormiente” e l’idea di “risveglio”/“rinascita” spaziano dal Buddismo al Pietismo: il nonno materno di Hesse era stato oltre che missionario, al pari del genitore dello scrittore, altresì studioso del mondo orientale). Narziss e Goldmund emergono qui in modo chiaro come due archetipi junghiani, facenti richiamo alla ragione e al sentimento (asse delle facoltà razionali; percezione e intuizione, in quello delle irrazionali, rimangono qualità d’appoggio). L’incontro tra Narciso e Boccadoro rappresenta una alchemica “coniunctio mystica”, una unione fra “spirito” e “natura”, “Sole” e “Luna”, “maschile” e “femminile” (in senso lato, junghiano), “pensiero logico” e “arte”. In un colloquio con l’abate di Mariabronn, Narciso espone quale sia il contenuto della “rimozione” di Boccadoro: la madre di costui. Ella, provenuta dal ambienti pagani, aveva abbandonato il marito e il figlio: per via della sua condotta e del sospetto di essere una strega, era rimasta vittima della damnatio memoriae del coniuge; damnatio trasferita al figlio, il quale non aveva fatto altro che rilevare inconsapevolmente un comportamento insano. Alla fine del cap. V Narciso può celebrare come chiuso il percorso alchemico compiuto assieme a Boccadoro. Quest’ultimo si trova ormai in fase di “individuazione junghiana” avanzata: il suo compito al momento consiste nel recuperare l’immagine materna (estromessa in un ampio primo momento grazie a una operazione nevrotica), e dunque nel diventare quel che “è” in conformità ai positivi connotati del suo “essere”. Narziss seguendo la sua inclinazione di psicoterapeuta ha reso Goldmund autonomo e autentico, così come a lui stesso, d’altro canto, è capitato di confermare la sua autonomia e la sua autenticità interagendo con l’amico. L’atto di fuga di Boccadoro dal convento, raccontata nei capp. VI-VII, e culminante con un quasi immediato deludente abbandono da parte di Lisa (la quale, consumato un congresso carnale con lui, essendo sposata torna subito dal marito timorosa di essere punita), ha un sapore eminentemente autobiografico. Hesse, secondo gli auspici paterni, da giovane finì in un seminario protestante al fine di intraprendere una carriera religiosa sulle orme del padre.
Ma il suo spirito libero (e intollerante del nevrotico rigore religioso pietista in cui era cresciuto) lo indusse a scappare da lì: la pesante esperienza di disagio vissuta sino ad allora lo aveva spinto addirittura a un tentativo di suicidio (fallito; più in là negli anni ricaduto nel malessere, voglio ricordare, evidenziando tangenze plathiane, che nel suo rinnovato percorso clinico di ripresa, prima di passare in mani junghiane, fu sottoposto ad elettroshock). Quella che obiettivamente nel romanzo potrebbe apparire qui una infelice sbandata giovanile è da interpretarsi, nel senso formale, come un adeguamento alla personale vocazione spirituale. Ancora una volta l’autore (naturalizzatosi Svizzero dopo la Grande Guerra) rivela sfaccettature platonizzanti (le quali prefigurano altresì alcuni aspetti della futura psicologia archetipica di James Hillman): il filosofo ateniese nel suo “Fedro” spiega che ogni anima verrebbe al mondo con un’indole predeterminata (appunto archetipica); e perciò lo scopo esistenziale della prima sarebbe di prenderne coscienza (alla maniera di Jung: “individuarsi”). L’uscita dal monastero di Boccadoro costituisce una “rinascita, un “risveglio” in direzione di un senso più genuino dell’essere: la tappa di questa frazione del romanzo può paragonarsi alla vicenda del Buddha, il quale lasciò “piani artificiali” (serenità e benessere della casa paterna) desideroso di immergersi in “forme autentiche” (conoscenza del mondo e scoperta del significato della vita). Fuori del convento, Goldmund, appetito dal gentil sesso durante le sue peregrinazioni, si dà con naturale spontaneità. Il primordiale abbandono gli fa ritenere che l’accidentalità sia la regola a lui congeniale (giacché le sue partner non mostrano interesse a proseguire un rapporto stabile al di là dell’actus copulandi). Questo iter, nel cui contesto egli non si fa tanti scrupoli moralistico-religiosi, degno del miglior Andrea Sperelli, rimane tuttavia l’ingenua evoluzione spirituale di Boccadoro, il quale non sta altro che esperendo tappe della dialettica erotica del “Simposio” (iniziata con l’eros terrestre). Da Lisa a Lidia, Goldmund passa dalla frustrazione dell’abbandono, attraversando l’amore del Bello nel molteplice fenomenico, a un amore più casto, e in quanto tale ancora frustrante, e d’altro canto più “platonico”. L’eros volgare di cui parla Pausania nel “Convito”, in Boccadoro si potrebbe portare a scrematura allorché è lui, giocoforza, a inseguire Lidia, e non è una donna a concederglisi volentieri. Da tale momento entra in gioco nella narrazione una dinamica di corteggiamento e di approccio sessuale ricalcante il medievale “De amore” del Cappellano. Goldmund conferma sempre però l’inclinazione caratteriale junghiana sentimentale percettiva, prediligendo poco, nel suo giovanile fiorire, una dimensione ragionata. La quale in maniera compensativa, è sostenuta da Lidia (cui spetta il ruolo di opposto “logico”). Ella, sì, potrebbe a questo punto rappresentare la controparte psichica sessuale (l’“anima” teorizzata da Jung) per l’Io di Boccadoro e così contribuire a un passo ulteriore dell’“individuazione junghiana” di lui (un passo nei confronti del quale l’azione di Narciso si era defilata). Il threesome di Goldmund è un riflesso del rigetto hessiano del rigorismo pietista: esso fallisce nella sua sostanza, non nella forma che ha trovato uno spazio potenziale. Hesse lo definisce «unnatürlichen Zusammensein [uno “stare-insieme-innaturale” ossia inopportuno, sconsigliabile, ma non illecito o impossibile in assoluto]». Nella sua prosecuzione del suo apprendistato esistenziale Boccadoro constata (sulla falsariga del Buddha) che tutto ciò che nasce, nella lotta della e per la vita, in un modo o nell’altro perisce: piacere e dolore sono due facce della stessa medaglia. Dopo l’uccisione di Vittore, il protagonista omicida, purificato da una confessione religiosa, approda presso il laboratorio di un artista, dove darà corpo alla sua inclinazione creativa, al suo “essere” inteso in senso frommiano (della bontà dell’uso di tale categoria è riprova il suo scarso interesse per l’“avere”). Goldmund trasferisce la propria concezione esistenziale nella sua visione estetica, la quale assume una marca oraziana. Nell’esperienza artistica Boccadoro trova un notevole sbocco alle sue istanze di vita. Nella nuova tensione rappresentativa egli raggiunge vertici archetipici junghiani: gli archetipi del femminile (grazie a Elisabetta, figlia del suo mentore) e della Grande Madre (mediante l’iniziale riflessione sulla propria, promossa da Narciso). La profondità di pensiero maturata lo conduce anche a tematizzare il concetto di “libido”, in maniera sempre implicita: infatti essa manifesta sfumature che vanno da Schopenhauer (“voluntas”) a Jung passando per Freud. un altro archetipo, stavolta di natura maschile (il saggio razionale) viene colto da Goldmund quando si propone di scolpire una statua lignea con le fattezze di Narziss; un’opera che avrà un esito molto felice nel suo obiettivo materiale di simbolica rappresentazione archetipica. Pur rimanendo un “sentimentale-percettivo”, la personalità di Boccadoro è cresciuta sin qui sulla base delle sue esperienze refrattarie all’“avere” frommiano. Al centro della sua attenzione è ora emerso l’archetipo della Grande Madre, oltre che nella sua valenza positiva altresì in quella negativa (sorgente di vita da un canto, di morte dall’altro). Quest’ultimo argomento costituisce un nuovo punto di tangenza tra Hermann Hesse e Sylvia Plath3. Nonostante l’adozione caratteriale di Goldmund, costui è in grado di comprendere che l’arte è una sintesi fra logico-formale e sentimentale-sostanziale; per lui, inoltre, la prassi artistica dà luogo alla benefica “funzione trascendente” junghiana, nell’ambito della quale avviene una sorta di aristotelica catarsi nell’autore (le cui negative tensioni interiori vengono scaricate dentro un prodotto estetico). Il senso di vuoto sorto in Boccadoro dopo aver terminato il san Giovanni con le sembianze di Narciso lo fa ripiombare in una condizione di inquietudine spirituale interiore. Il suo stato d’animo lo predispone a radicali riflessioni di impronta esistenzialistica (dove egli constata l’urto tra l’autenticità del mondo della vita e la bestiale gaudente ipocrisia dei più, i quali fuggono nel divertissement davanti all’angoscioso problema dell’essere diveniente che svanisce nel nulla). È innegabile tuttavia notare che nel testo hessiano simile lato heideggeriano di Goldmund sia condito pure da indizi di un disturbo bipolare (di evidente ascendenza autobiografica nei riguardi di Hesse). Nel cap. XII la dialettica platonica del “Simposio” che Boccadoro ha intrapreso a percorrere da tempo trova lo spunto per salire di gradino nello sprone costituito dalla sua intenzione a rappresentare in immagine simbolica la Grande Madre. A beneficio del suo progetto egli si lascia guidare dall’intuizione dentro se stesso, dove cerca tracce dello junghiano “inconscio collettivo”. E di esso e delle immagini archetipiche Hesse descrive un letterario quadro simbolico nella scena di Goldmund presso un fiume. Il significato dell’esistenza rappresenta una materia di riflessione che attraversa il cap. XIII in modo particolarmente interessante laddove Hesse paragona la Grande Madre, oggetto di ricerca di Boccadoro, a Medusa, poiché ciò offre una nuova rilevante sostanziale tangenza plathiana. Appare pertanto utile dopo aver evidenziato in precedenza più di una comunanza tra Hermann Hesse e Sylvia Plath, riportare in nota due brani dal mio primo saggio di critica plathiana: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, pagg. 13-14, 234. Goldmund, il quale è tornato a girare per il mondo, ha avuto occasione di osservare il lato negativo della Grande Madre, di cui cerca l’immagine simbolica. Un rinnovato sprone, di natura traumatica, gli proviene dagli effetti di un secondo omicidio (dopo quello per legittima difesa personale) a scapito di colui che stava tentando violenza sessuale ai danni di Lena.
Ma lo scenario della peste dilagante rappresenta subito dopo lo spunto delle di lui considerazioni. Il ritorno della vocazione artistica in Boccadoro, nell’ambito della sua riflessione sulla dialettica della Grande Madre (positiva/negativa), fa pensare ancora una volta a Sylvia Plath e alla di lei attività artistica. Parlando di peste, Hesse introduce motivi manzoniani nella sua narrazione. Come Don Rodrigo viene provvidenzialmente punito mediante il contagio, così in “Narziss und Goldmund” Boccadoro viene opportunamente separato dai compagni del momento, al fine di conservare la prospettiva del suo iter (in relazione al quale Roberto e Lena costituiscono “tappe hegeliane” da rimuovere). L’argomento della peste offre, d’altro canto, lo spazio all’autore del romanzo di ricordare il clima medievale cristiano legato a superstizioni e all’antisemitismo, i quali (non solo) in casi di epidemia fornirono insensato pretesto per uccidere, in modo irragionevole e incivile, presunti diffusori del contagio pestilenziale. Per quanto concerne il percorso esistenziale di Goldmund, egli ha ormai recuperato l’inclinazione verso l’arte in una dimensione matura, grazie a cui ha colto il significato della produzione estetica: rappresentare nella materia finita qualcosa il cui valore va al di là dello spazio e del tempo dell’artista e del suo prodotto; cogliere archetipi junghiani (nel caso la Grande Madre) e idee platoniche (a partire dalla più importante: l’Idea del Bene/Bello). L’ultimo passo di Boccadoro alla volta della definitiva “individuazione junghiana” segna l’estremo del limite del “negativo razionale” della sua dialettica parabola esistenziale: la sua vocazione fiorisce nel campo dell’arte, ma a causa della sua indulgenza sentimentale-percettiva verso le donne rischia di perdere la vita e di non passare alla dimensione del “ritorno in sé e per sé” nel suo tragitto che alla fine lo ha indicato quale artista fra le varie possibilità del suo essere. Provvidenzialmente ricompare Narciso a tirarlo fuori dei guai: l’allegoria qua ci dice che è la ragione (pensiamo al Virgilio dantesco) a salvare l’integrità psichica dalla deriva, e il soggetto nelle sue relazioni col mondo esterno. La junghiana “funzione trascendente” nella produzione estetica a beneficio di Goldmund non avrà la peggio al cospetto di un atto che appare di estrema irresponsabilità allorché egli si propone la meta dell’amoroso convegno con l’amante del governatore. La seconda metà del cap. XVII (dedicato al ritrovarsi assieme di Narciso e Boccadoro) è molto bella sotto vari profili: storico-critico, filosofico-concettuale, psicologico. Si può accostare quel colloquio tra i protagonisti, in virtù della di esso profondità, a quello intercorso fra Socrate e Diotima (descritto nel “Simposio”). Questo hessiano dialogo (platonico) riassume in maniera mirabile tutti i temi principali del romanzo, e per ciascuno di essi ribadisce esplicita la risposta, nel corso della narrazione emersa più o meno implicita. Di grande bellezza e rilevanza narrativa è quella sezione iniziale del cap. XVIII dove Narziss spiega a Goldmund il “processo di individuazione”, previsto dalla psicologia analitica di Jung, in termini aristotelici. Ormai l’esistenza di Boccadoro si incornicia nella junghiana “fase culturale” (non scontata per tutti), nella quale vengono rivisti secondo un’ottica superiore i personali contenuti della precedente “fase naturale”. Così è stato per Goldmund, il quale è altresì approdato alla “virtù” della “moderazione”. Tuttavia, in una sorta di popperiana falsificazione della bontà di tutto quanto è stato testé detto, Boccadoro nella conclusione del romanzo ricade nell’errore fatale: era tornato al convento con Narciso a guisa dell’omerico Ulisse a Itaca; ma Hesse opta in favore di una dimostrazione negativa, e dà a Goldmund il ruolo finale dell’Ulisse dantesco (vale a dire di colui che non si adegua al buon senso e alla ragionevolezza). Nell’ultimo estremo eccesso Boccadoro perde se stesso, non riesce a rappresentare in opera simbolica la Grande Madre, bensì è questa a raccoglierlo nell’abbraccio della morte. In un finale un po’ distopico, dove Narziss gli proclama il suo amore («ich dich liebe»), Goldmund, in articulo mortis, ribadisce il valore per l’esistenza umana del suddetto archetipo.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Letture critiche (2019)”

1 Allo scopo di approfondire, consiglio di leggere il mio studio intitolato “Eros e la libido junghiana nel Simposio” dentro il mio saggio “Note di critica (2017)”.

2 Per approfondimenti, suggerisco la lettura della mia ricerca dal titolo “Astrologia e tarocchi nella visione di Jung” contenuta nella mia opera “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.

3 Alla poetessa bostoniana ho dedicato due saggi critici: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”, “Sulla poesia di Sylvia Plath” (2016):

4 In “Medusa” (poesia plathiana del 16 ottobre ’62) l’archetipo della Grande Madre, in veste soprattutto negativa, si mostra nella sua evidenza.
Sylvia Plath
Suo simbolo è appunto Medusa, la quale riflette l’immagine dell’inconscio collettivo: «le orecchie rivolte [che fanno coppa, letteralmente; n.d.r.] alle incoerenze del mare [l’acqua è per Jung simbolo dell’inconscio; n.d.r.] / … snervante testa – palla di Dio». Ella si incarna e si sovrappone nella figura della mamma (da non trascurare che un genere marino di medusa si chiama Aurelia, come la madre di Sylvia) in modo tale da lasciare all’archetipo il suo gioco di ambiguità bipolare, cosicché Medusa può essere «lente di misericordie», ma d’altro canto provocare l’assedio dell’io della poetessa (v. 2a strofa).
Il non sereno, ambiguo, legame archetipico del complesso materno attraversa le strofe 3-5, culminando nell’emblematica immagine della «placenta», il rassicurante luogo di una Grande Madre positiva. La Plath ricorda la condizione di estremo disagio di fronte a costei: «morta e senza denaro, / sovraesposta come una radiografia». E in un sussulto titanico, che segue quello di “Daddy” scaccia il negativo dell’archetipo. Dopo le ultime due incisive strofe, un singolo, isolato verso, lapidario dice: «Non c’è più niente tra noi». Da sottolineare la metafora uterina collegata alla Grande Madre: «bottiglia nella quale vivo, / orrendo Vaticano [il colle, nella cui zona fu il posto del martirio di san Pietro]». Questa riflette il carattere elementare dell’archetipo, la sua statica presenza (dunque positiva, tuttavia impantanante nella dipendenza) in un simbolo che è variante in merito del più classico vaso. Il verso terminale di “Medusa” si può accostare all’incipit di “Daddy” (nella sostanza sono molto simili): «There is nothing between us»; «You do not do, you do not do / any more».
In “Medusa” si compie la simbolica uccisione della madre (Grande Madre negativa presente, ad esempio, come detto nelle favole) affinché ci sia l’emancipazione dalla faccia oscura dell’archetipo; e il processo di individuazione, mirante a realizzare le interiori coerenza e integrità psichiche, dopo un’ulteriore rivisitazione del “maschile” (motore dell’azione menzionata, la quale comporta il recupero del “femminile” rifiutato), possa procedere libero verso il guadagno di un piano di equilibrio psichico di natura androginica (raggiungimento del Sé, riabilitante l’archetipo non più oscurato da qualità negative). È indubbio che le esperienze di maternità avessero condotto Sylvia Plath a una relazione archetipica con la Grande madre sotto un più maturo carattere trasformatore, consentendole di superare il livello del carattere elementare, e quindi di affrontare il mostro con più efficace vigore. Il muro materno, alla cui “ombra” in precedenza si era mossa (in maniera più agevole se di fatto distante dalla figura materna), le pare statica costruzione psichica da abbattere: lo confessa in una lettera alla madre dello stesso 16 ottobre, giorno di “Medusa”, lettera nella quale rifiuta la prospettiva simbolica del rifugio uterino, e riconosce la sua grandezza come autrice che ha raggiunto la maturità dell’essere: il suo potere creativo è completo, perfetto.
[…]
“Perseus: the triumph of wit over suffering” è una significativa lirica, contenente la visione della storia umana nella concezione di Sylvia Plath: una dialettica della Grande Madre “negativa (Medusa) / positiva”, il cui «più grande ventre» di quest’ultimo lato preserva dal «rigor mortis» il mondo empirico.
Tale dialettica ruota attorno al concetto di “maternità” inteso in senso lato, cosmico, e si articola in tre gradi, come nella dinamica hegeliana. Le tre possibilità fenomeniche relazionate all’archetipo della Grande Madre (esemplificate in “Three women”, testo plathiano del marzo del ’62) sono: la positiva accettazione dell’essere umano; il di lui negativo rifiuto; una via di sintesi, intermedia, di parziali accettazione e rifiuto. La prevalenza del negativo in due casi condiziona in peggio l’esistenza, però la radicale presenza del positivo mantiene il cosmo in vita (cosa puntualizzata dalla Plath) e offre una possibilità di riscatto.