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lunedì 28 novembre 2016

LA TERRIBILE DISTOPIA DI H. G. WELLS

di DANILO CARUSO

“La macchina del tempo” è un romanzo del 1895 di Herbert George Wells (1866-1946), un incrocio tra la fantascienza e l’utopia negativa. Il protagonista del racconto (il viaggiatore del tempo, voce narrante unica per largo tratto), grazie a una sua invenzione (la quale dà il titolo alla storia), riesce a raggiungere il futuro: l’anno 802701, dove vive un’inaspettata traumatica esperienza. I primi esseri post-umani con cui viene a contatto, gli Eloi, sono alti quanto bimbi, vestono in modo uguale e sono vegetariani (la fauna è pressoché assente). Ignorano la scrittura, e la loro lingua, nuova e sconosciuta al time traveller (che egli imparerà a conoscere), è ulteriore motivo di turbamento. Il primo approccio avviene mediante comunicazione elementare e gesticolare. «Una domanda mi venne improvvisa alla mente; queste creature erano dunque deficienti? […] Un suo rappresentante mi rivolgeva una domanda degna del livello intellettuale di un bambino di cinque anni. […] Feci subito un’altra scoperta piuttosto strana sul conto dei miei piccoli ospiti: mancavano di interesse per qualsiasi cosa. Si avvicinavano a me lanciando grida di impaziente meraviglia come avrebbero fatto dei bambini, ma appunto come i bambini smettevano ben presto di esaminarmi e si allontanavano alla ricerca di un nuovo giocattolo. […] Avevo l’impressione di esser capitato in mezzo a un’umanità in declino». Wells, il quale aveva simpatie politiche collocate a sinistra, nei primi capitoli del romanzo fa un paio di isolati accenni al socialismo. Il viaggiatore nel tempo si interroga se tutto quello che ha visto all’inizio non sia l’esito, alquanto sconcertante, della dialettica sociale, ormai morta. «Non avevo mai visto individui più indolenti o che si stancassero con maggiore facilità. […] Quel luminoso tramonto mi faceva pensare al tramonto del genere umano. Per la prima volta ero in grado di comprendere le strane conseguenze di tutti gli sforzi che stiamo compiendo nel campo sociale; conseguenze abbastanza logiche, se ci pensiamo bene: la forza deriva dalla necessità, e la sicurezza rappresenta un cardine della debolezza». Il capitalismo era scomparso, a prima vista, in quel «paradiso sociale» scevro di problemi di crescita demografica incontrollata: «A quanto potei giudicare, non dovevano sottoporsi alla minima fatica». In simile futuro, lontano parente della nostra epoca, l’intelligenza si è ridotta ai minimi termini, assieme a ogni manifestazione distintiva del genere umano (a partire dall’arte). È morta la dialettica hegeliana signore-servo: «Quali sono le cause […] che spronano l’intelligenza e il vigore dell’uomo? Le avversità e la libertà: sotto la loro spinta l’uomo attivo, forte e astuto sopravvive, mentre quello più debole soccombe; per esse l’unione leale di individui capaci riceve il suo premio, meritato a costo di repressioni, di pazienza e di fermezza». In questo «bizzarro mondo nuovo» apparirebbe un’eco, ancora utopica, della marxiana abolizione della famiglia (con radice, positiva, nella “Repubblica” platonica): «L’istituzione della famiglia e i sentimenti che ne derivano: violenta gelosia, tenerezza per i figli, devozione incondizionata verso i genitori, tutto ciò è giustificato dai pericoli a cui va incontro la gioventù». Al time traveller la vita del futuro remoto si mostra antitetica rispetto a una tensione spartana: «Pensavo alla debolezza fisica di quegli esseri, alla loro limitatissima intelligenza, alle numerose, enormi rovine che avevo davanti agli occhi, e sentivo rafforzarsi sempre più in me la fede in una perfetta conquista della natura da parte degli uomini: a ogni lotta succede la quiete. L’umanità era stata forte, piena di energia, intelligente, ed aveva adoperato la sua abbondante vitalità per alterare le condizioni in cui viveva; adesso era sopravvenuta la reazione, provocata appunto dalle alterate condizioni di vita. In questo nuovo stato di perfetto benessere e di sicurezza, l’infaticabile energia che è la nostra forza non può non mutarsi in debolezza. […] A un tal genere di vita, quelli che noi chiameremmo i deboli sono adatti come i forti, e di conseguenza non sarebbe più possibile parlar di deboli; anzi, questi ultimi si troverebbero assai più a loro agio, perché i forti sarebbero logorati da un’energia che non troverebbe sfogo. Senza dubbio, la squisita bellezza degli edifici che vedevo era il risultato degli ultimi sprazzi di energia sviluppata dal genere umano prima che esso si indebolisse, in perfetta connessione con le sue attuali condizioni di vita: dopo quel trionfo aveva avuto inizio la grande pace definitiva. Ed è sempre stato questo il destino della forza in un clima di sicurezza completa: essa si abbandona all’estetismo sia nelle arti che nell’amore, poi si illanguidisce e decade». Questo scenario sembra una parodia rousseauiano-fichtiana dell’ottimo stato di Natura. Wells, che era un progressista e un femminista, mette in scena in tale primo ritratto una cruda, realistica, tragico-grottesca caricatura di parte dell’umanità contemporanea e passata. La quale è proiettata nel romanzo in un’era distopica. Gli Eloi sono paragonati dall’autore di “The time machine” ai fanciulli: l’accostamento è ingiusto nei confronti di questi ultimi. I bimbi sono bassi perché non sono cresciuti del tutto, e non sono stupidi. Ci possono diventare a contatto con ambienti e adulti non sviluppati secondo quanto l’altezza del genere umano si aspetterebbe. Quando ciò che Dio ha immesso nella natura dell’uomo si atrofizza, nella maniera su descritta, non sono qualificabili rimbambiti quelli che abbiamo di fronte: i bambini sono filosofi naturali; gli adulti idioti, abbrutiti, sono più vicini ad animali domestici. Il potere del logos in loro diminuisce a livello allarmante. Il viaggiatore del tempo infatti constata un fenomeno, non raro già prima, di impoverimento semantico-concettuale (pensiamo d’altro canto al newspeak di “1984”): «Il linguaggio di quella gente era davvero di un’estrema semplicità, composto soltanto di nomi concreti e di verbi: se esistevano termini astratti, dovevano essere pochissimi; e inoltre i miei ospiti ignoravano affatto il linguaggio figurato». In un secondo momento il time traveller scopre l’esistenza dei Morlock, un altro genere di futuri tipi post-umani. «La razza umana non era rimasta di un’unica specie, ma si era sviluppata sotto due forme ben distinte fra loro: quei graziosi fanciulli del mondo superiore non erano gli unici discendenti della nostra stirpe; anche quella bianca, repellente Cosa notturna fuggita davanti a me era l’erede dell’evoluzione dei tempi. […] La seconda specie umana conduceva una vita sotterranea; tre circostanze in particolare mi spingevano a credere che le sue rare apparizioni alla superficie della terra fossero la conseguenza di una ormai lunga abitudine alla vita sotterranea […]. Sotto i miei piedi la terra doveva essere percorsa da enormi gallerie: l’abitazione, appunto, della nuova razza. La presenza dei pozzi e dei piloni di ventilazione lungo i fianchi delle colline – e ne sorgevano da per tutto […] – dimostrava che le ramificazioni delle gallerie si stendevano in tutti i sensi. Era assai logico, quindi, pensare che tutto quanto occorreva alla facile vita degli esseri che vivevano alla luce del sole fosse preparato in quel mondo inferiore e artificiale. Questa idea mi pareva talmente plausibile, che la accettai senza pensarci due volte, e cercai di spiegarmi in maniera verosimile la scissione della razza umana. […] Basandomi sui problemi propri alla nostra epoca, sulle prime mi parve chiaro come la luce del sole che l’estendersi dell’attuale divergenza di opinioni tra capitalisti e lavoratori, divergenze di carattere puramente temporaneo e sociale, era la chiave di tutta la faccenda. […] Possiamo notare anche oggi una tendenza a utilizzare lo spazio sotterraneo per gli scopi meno ornamentali della civilizzazione. […] Le tendenze aristocratiche della gente ricca – dovute senza dubbio alla sua educazione sempre più raffinata – e l’incolmabile abisso che la divide dalla rude violenza del povero, stanno già conducendo all’esclusione di quest’ultimo dalla superficie della terra. […] In tal modo, alla fine, avremo al di sopra della terra i ricchi, che condurranno una vita piacevole, comoda e bella, e sotto la superficie terrestre i poveri, i lavoratori, la cui esistenza sarà un continuo adattamento alle condizioni del loro lavoro. Una volta confinata nel sottosuolo, questa parte di umanità sarà obbligata a pagare, e non poco, la ventilazione delle sue caverne; se si rifiuterà, di farlo dovrà morire di fame o di asfissia. Quindi una parte di costoro si adatterà a un’esistenza miserabile, e i ribelli troveranno la morte, fino al giorno in cui i sopravvissuti non si adatteranno perfettamente a una condizione di vita sotterranea e non saranno felici del proprio stato [caverna platonica, laboetiana servitù volontaria1; n.d.r.], così come gli abitanti del mondo superiore saranno felici del loro. Ecco la ragione per cui mi convinsi che la raffinata bellezza degli uni e il triste pallore degli altri fossero una conseguenza naturale di quanto ho detto prima. Allora guardai con altri occhi il grande trionfo dell’umanità, di cui avevo tanto fantasticato: quel trionfo di educazione morale e di generale cooperazione che avevo immaginato non esisteva affatto. Vedevo invece una vera e propria aristocrazia, padrona di una scienza perfezionata al massimo grado, condurre alla sua logica conclusione il sistema industriale odierno: il trionfo di questo sistema non era stato soltanto un trionfo sulla natura, ma anche sull’individuo-uomo». L’impressione iniziale, più o meno positiva, del viaggiatore nel tempo, a mano a mano che approfondisce la conoscenza della realtà trovata, lascia il campo a toni decisamente negativi a causa dei Morlock (post-proletari, «disgustose creature sotterranee, … nuovissimi animali che avevano preso il posto degli antichi»), i quali scoprirà essere dei cannibali che si cibano degli Eloi (post-borghesi). La coscienza di questa barbarica nemesi storica tuttavia non allontana il time traveller dal senso di civiltà. «I pallidi esseri sotterranei mi ispiravano una specie di repulsione […]. È probabile che tale repulsione provenisse dall’influenza esercitata su di me dagli Eloi. […] Esisteva un elemento del tutto nuovo, nella disgustante personalità dei Morlocchi, qualcosa di inumano e di maligno, che suscitava in me una ripugnanza istintiva. […] I miei ospiti del mondo superiore dovevano avere rappresentato, un tempo, l’aristocrazia della razza umana, e i Morlocchi i loro servitori meccanici; ma ormai tutto ciò apparteneva al passato. […] Gli Eloi, come i re Carolingi, erano ormai ridotti a una semplice espressione di vana bellezza; erano ancora padroni della superficie terrestre unicamente perché i Morlocchi, esseri sotterranei da innumerevoli generazioni, non sopportavano la luce del giorno; costoro, concludevo, preparavano gli abiti degli Eloi e provvedevano ai loro quotidiani bisogni, per la vecchia, innata abitudine di servire gli altri1, forse. Anche i cavalli continuano, ai nostri giorni, a raspare il terreno con gli zoccoli, e gli stessi uomini provano piacere a uccidere gli animali per sport: le antiche necessità, ormai superate, hanno fissato questi istinti in modo indelebile, nella personalità umana. Ma senza dubbio il remoto ordine di cose era già, almeno in parte, invertito; la Nemesi stava rapidamente insinuandosi nel destino della razza più delicata: in epoche trascorse, migliaia di generazioni prima, l’uomo aveva privato il suo fratello degli agi e della vista del sole; adesso questo fratello compiva la strada inversa, e come mutato! Gli Eloi avevano già cominciato a imparare di nuovo una vecchia lezione, facevano di nuovo conoscenza con la paura. […] Tutte le attività, tutte le tradizioni, le organizzazioni più complesse, le nazioni, i linguaggi, le letterature, le aspirazioni, perfino il ricordo dell’uomo – come io lo conoscevo – erano stati spazzati via, annullati; al loro posto ecco queste fragili creature che avevano dimenticato la propria origine e queste Cose bianche che mi incutevano tanto timore. Considerai inoltre la grande paura che divideva le due specie umane, e per la prima volta ebbi l’esatta percezione – e ne rabbrividii – di quella che poteva essere la carne che avevo visto su quella tavola. Era troppo, troppo orribile! […] Evidentemente, in un dato periodo del lunghissimo tempo occorso al decadere del genere umano, il cibo dei Morlocchi si era fatto scarso, e forse essi erano stati costretti a nutrirsi di topi e di animali simili. Anche ai nostri tempi, l’uomo è meno difficile e meno raffinato, nella scelta del cibo, di quanto lo fosse in epoche precedenti: poco più raffinato di una scimmia; il suo pregiudizio contro l’uso della carne umana non nasce da un istinto ben radicato. E così quegli inumani figli degli uomini... Tentai di studiare la cosa da un punto di vista razionale: dopo tutto, costoro erano meno umani e ancor più remoti da noi di quanto lo fossero i nostri antenati cannibali di tre o quattromila anni fa; l’intelligenza che avrebbe reso questo stato di cose un insopportabile tormento si era spenta. […] Cercai di allontanare da me l’orrore che mi pervadeva in ogni fibra, e di considerare tutta la faccenda come una dura punizione inflitta all’egoismo umano. L’uomo aveva vissuto felice fra gli agi e i piaceri valendosi della fatica del suo simile; la sua parola d’ordine era stata una sola: “Necessità”, e se ne era servito come di una valida scusa: con l’andar del tempo la necessità era divenuta abitudine. Cercai anche di considerare col disprezzo di Carlyle questa miserabile aristocrazia in piena decadenza, ma non mi fu possibile. Per quanto grande fosse il loro invilimento intellettuale, gli Eloi conservavano ancora un’apparenza troppo umana, perché non mi sentissi solidale con loro e perché la loro degradazione e la loro paura non mi toccassero da vicino». Il viaggio del protagonista di “The time machine”, oltre che essere una fantascientifica rappresentazione, è una psicologica esplorazione junghiana analoga al “Liber novus” dello stesso Jung o alla “Divina Commedia”. C’è un passaggio del romanzo wellsiano in cui l’inventore della macchina del tempo, scappato dal rifugio sotterraneo ai Morlock, sviene come Dante all’ultimo verso del V canto dell’“Inferno”: «Then, for a time, I was insensible» / «E caddi come corpo morto cade». Il viaggio nel tempo futuro è altresì una ricerca junghiana dell’anima (Weena, la protagonista di «un flirt in miniatura») da parte dell’animus (l’inventore). Simile prospettiva di analisi del testo di Wells non è fuori luogo. Esiste un altro brano che mi è parso sorprendente in virtù della sua visione anticipatrice di un fenomeno inesistente alla fine del XIX secolo: il buco nell’ozono e l’innalzamento delle temperature medie del pianeta Terra. «La temperatura nell’Età dell’Oro era molto più calda di quella attuale, ma non posso spiegarne la ragione». Questa profetica constatazione, non l’unica in opere wellsiane, ha rafforzato la mia impressione del viaggio nel tempo di “The time machine” quale esplorazione (parziale) all’interno dell’inconscio collettivo, a guisa del “Libro rosso [o novus, che dir si voglia]”. Quanto leggiamo nel romanzo di Wells è in gran parte la rappresentazione di una dinamica costitutiva archetipica. Cioè una tensione bipolare tra estremi (Eloi e Morlock) cerca di emergere in una sintesi mediatrice ed equilibrante. Eloi e Morlock costituiscono degli eccessi comportamentali; dalla loro dialettica l’inconscio collettivo deve elaborare un modello di comportamento, un archetipo che riesca a salvare l’umanità da quella degenerata dicotomia. La bellezza de “La macchina del tempo” sta nella capacità di introspezione psicoanalitica, nel suo valore di monito. Questo romanzo non è soltanto una storia di fantascienza, è molto di più. Nei suoi simboli parla l’inconscio collettivo. Il cannibalismo dei Morlock rappresenta il ribaltamento del vampirismo capitalista: se la storia dell’uomo camminerà lungo i binari degli eccessi, la deriva porterà distopicamente il genere umano al degrado completo e la civiltà alla scomparsa. Un aspetto del romanzo wellsiano, a proposito degli Eloi, che ha attirato la mia curiosità, riguarda l’altezza fisica di costoro. Nel testo si specifica la statura di uno di loro dicendo che era forse «four feet high»: intorno a 1,2 m. Si è posto pertanto il problema del rapporto tra il time traveller e Weena, giacché costui dichiara nei di lei riguardi: «I had not […] come into the future to carry on a miniature flirtation». Si parla in modo esplicito di una forma erotica di legame interpersonale. In più di un sequel del romanzo, di successivi autori differenti, il flirt tra il viaggiatore e Weena si evolve in un’esplicita relazione amorosa la quale genererà pure figli. Il parametro suddetto di 1,2 m corrisponde oggigiorno a quello di un soggetto umano nella fascia evolutiva di 8-9 anni. Ho approfondito questa problematica, impercettibile nelle trasposizioni cinematografiche del romanzo. Weena agisce come una bambina poiché riflette i caratteri degli Eloi, ma per il resto lei, da un punto di vista somatico, non è una fanciulla decenne. All’epoca di redazione e pubblicazione di “The time machine” l’altezza media di una donna inglese era 1,53 m, quella di un uomo 1,67. Tra il viaggiatore nel tempo e un Eloi esiste dunque una differenza di 45 cm, il che è in linea con la statura media umana attuale (1,65 m), la quale registra una gamma di normalità 1,35-2 m. In fin dei conti Eloi e Morlock rappresentano gli eredi di un’umanità che nell’accorciamento denota un simbolico abbassamento del grado di civiltà sino a toccare un punto di notevolissima degenerazione. Se poi consideriamo i parametri antropometrici medievali, di cui gli Eloi sembrano caricatura, e l’usanza sempre medievale di dare in moglie le teenager al più presto, vediamo in quell’anno 802701 un ritorno a un grottesco Medioevo, e ci rendiamo conto che il viaggio nel tempo sia – come detto – una simbolica traversata nell’inconscio collettivo. L’altezza media di un uomo inglese oggi è di 1,77 m, quella di una donna di 1,63: se Wells avesse scritto “La macchina del tempo” nella nostra era, un Eloi sarebbe stato un po’ più alto, e Weena è possibile immaginarla 1,35 m col corpo di una dodicenne se rapportata agli standard odierni: una sorta di simbolica futuristica nabokoviana Lolita o shakespeariana Giulietta. La prima ha 12 anni (all’inizio), la seconda 13 e la madre le dice: «Devi pensare al matrimonio. Vi sono a Verona signore di riguardo che, più giovani di te, hanno già figli. Per conto mio, alla tua età ero già madre». Nei contesti sociogiuridici moderni un siffatto interesse sessuale volto sulle minori di età superiore ai 12 anni non viene incluso nella patologia e nel reato di pedofilia. È una tipologia clinica e penale che rientra in altra categoria (ninfofilia). La legge italiana attuale riconosce a una minorenne la capacità di un consenso a un congresso carnale purché abbia superato i 14 anni, e sulla base di questa discriminante prevede le possibili sanzioni. Le quattordicenni italiane hanno una potenziale responsabilità davanti a eventuali figli, sebbene ancora non siano maggiorenni. In Scozia la maggiore età è fissata alla quota di 16 anni, nel resto del Regno Unito e in Italia di 18. L’età del consenso femminile in Europa ha avuto una lunghissima tradizione stabilita sulla soglia dei 12 anni, non senza  delle eccezioni. La legislazione inglese la innalzò a 13 nel 1875. Nel XX secolo la disciplina giuridica assunse un ordine più consono a una migliore qualità della vita. Yvette Mimieux, l’attrice che interpretò Weena nel film del ’60 (“L’uomo che visse nel futuro”), allora aveva 18 anni ed era alta 1,63 m. Il time traveller wellsiano va in là di 800.000 anni a causa delle restrizioni dell’ordine razionale conscio (freudiano principio di realtà) a lui coevo? Il rilievo della statura personale ritornerà nel “Brave New World” di Aldous Huxley quale connotato distintivo nella funzione sociale2. Comunque, il fatto che Weena sia bassa è un’eredità morfica distopica. In relazione a questo tema trattato è opportuno ricordare che Wells si era risposato nel 1895: si era separato nel dicembre del ’93 dalla moglie coetanea, una sua cugina, per una sua studentessa (il divorzio è proprio del ’95). Avevano convissuto con grande scandalo allora di tutti, e poi si erano uniti in matrimonio. La prima moglie era ancorata a schemi di giudizio e di condotta di stampo conservatore-puritano. Essendo egli un sostenitore del libero amore, avrà diverse amanti e figli pure da loro oltre che dalla seconda moglie, Amy Catherine Robbins (1872-1927), una donna progressista come Wells, la quale non disapprovava la cosa sino all’estremo. In materia di matrimonio Wells era vicino a Marx. Il suo sentimentalismo vissuto al plurale lo pose al centro di vari scandali. A 50 anni, ad esempio, ebbe come amante una ragazza di 19, da cui ebbe un figlio. Le sue idee e il suo successo nella veste intellettuale gli procurarono una sincera e viva venerazione femminile: una sua ammiratrice, una volta, si recò da lui indossando soltanto un impermeabile e le scarpe; e quando egli la respinse, costei reagì male tagliandosi le vene. È ipotizzabile che ci sia qualcosa di rimosso nel personaggio letterario di Weena. Nella perdita della protagonista femminile di “The time machine” può darsi si adombri, in maniera più o meno inconscia, la separazione coniugale; mentre nella figura fisica di Weena invece si incarni Amy Catherine detta Jane (alta circa 1,5 m). La dialettica junghiana animus-anima ha ne “La macchina del tempo” dunque un senso, al di là delle apparenze schermanti, nei suoi simboli, a volte un po’ misteriosi, tuttavia leggibili se accettiamo la terribile navigazione all’interno del sistema inconscio universale. Basta salire su una macchina del tempo armati di altezza intellettuale e di coraggio, mancanti a servi pavidi e mediocri i quali hanno l’unico inconsapevole rimosso desiderio di cibarsi delle carni dei loro tiranni (il caso culminante nei Morlock). La dicotomia Eloi/Morlock assume un profondo significato. I nomi hanno un’ascendenza paronomastica orientale: Eloi da Elohiym (appellativo del Dio veterotestamentario, ma termine indicante nell’Ebraismo anche gli dei); Morlock(s) da Moloch (altra divinità). La parola Eloi compare nel testo inglese di “The time machine” solo al plurale; Morlock(s) 50, in questo caso si fa un uso al singolare 4 volte. Il fatto che Eloi non abbia un uso al singolare non mi pare casuale se collegato al teonimo del Tanak. Gli Eloi sono prodotto evolutivo di una vampiresca borghesia (nel romanzo wellsiano) la quale in un mio saggio, dove parlo dello sviluppo di correnti irrazionalistiche nel pensiero occidentale, ho qualificato, di fronte al resto della società, come gruppo di Elohiym falsi e bugiardi. Wells ha espresso nel suo romanzo in esame, in modo figurato, una sua trattazione di temi da me là nella mia sede affrontati in altra forma di studio3. Nella maniera in cui i proletari (futuri Morlock) sono stati sacrificati all’ipocrita altare borghese, così nell’anno 802701 simili esseri abbrutiti, rovesciando i ruoli hanno attuato una disumana cannibalesca nemesi. Moloch era una divinità semitica cui venivano sacrificati dei bambini: il che spiegherebbe pure le caratteristiche somatiche e psichiche degli Eloi nella finzione wellsiana. Per inciso: anche il Tanak prevedeva sacrifici umani. La presunta morte di Weena, sul finire del romanzo, per colpa dei Morlock, tinge il racconto di un cupo distopico: il processo di individuazione junghiano crolla poiché prevale il male di uno di quei due lati di sintesi archetipica (rappresentati dagli Eloi e dai Morlock) la quale non consegue un punto di mediazione. Wells non dice se Weena, scomparsa, sia veramente perita; è il time traveller a dare la cosa certa. Il protagonista riesce a sfuggire ai Morlock e a recuperare la sua invenzione, sottrattagli da loro, grazie a cui poi compie un ulteriore tragitto in avanti nel tempo alla volta di una nuova junghiana profezia (cap. XI): la razza umana scomparirà, prima o poi, dalla faccia del pianeta. La prima pubblicazione di “The time machine”, a puntate sul periodico “New Review”, all’undicesimo capitolo conteneva una variante, un’inserzione forzata di una sezione eliminata da Wells in seguito. Il suo editore aveva infatti preteso la descrizione di una successiva fase degenerativa dell’umanità dopo gli Eloi e i Morlock. È comprensibile, nell’Inghilterra alla fine dell’Ottocento, la suggestione proveniente dal darwinismo, la cui novità di veduta poteva attirare l’attenzione dei lettori. Lo stesso Wells non è immune dall’applicare un criterio evolutivo-comportamentista al genere umano degradantesi in senso distopico (il biologo darwinista Thomas Henry Huxley fu suo professore universitario a Londra). Tuttavia egli non voleva rappresentare l’umanità in una sua ulteriore fase di caduta biologica. Una visione narrativa completamente tragica approdante nell’estinzione troverebbe un margine di speranza in un’emigrazione altrove a tempo debito. In ogni caso la nuova specie post-umana descritta, composta di esseri erbivori somiglianti a dei canguri, non scaturisce dal progetto letterario wellsiano. A conclusione della mia analisi voglio sottolineare il fatto che il posteriore “Brave New World (1932)” huxleyano appaia una tappa, una distopica hegeliana figura fenomenologica intermedia, di avvicinamento evolutivo in direzione dell’era terrestre segnata dalla dicotomia wellsiana Eloi/Morlock. Il viaggiatore del tempo indica la causa di tale frutto nell’impantanarsi «sul benessere, in una società perfettamente equilibrata la cui parola d’ordine era “sicurezza” [towards comfort and ease, a balanced society with security and permanency as its watchword]». E il motto del “Mondo Nuovo” di Huxley è: «COMMUNITY, IDENTITY, STABILITY». Il destino (distopico) del genere umano pare segnato. Riguardo a questa interazione tra Wells e gli Huxley: non trascuriamo che avessero collaborato, durante la prima metà degli anni ’30, nella redazione di saggi, Herbert George e Julian (biologo, fratello di Aldous; l’altro biologo ricordato, Thomas Henry, era loro nonno). L’autore di “The time machine” era fautore di uno Stato mondiale allo scopo di conquistare una kantiana pace perpetua. Aldous Huxley nel “Brave New World” rielabora una simile idea non tanto in chiave parodica quanto distopica. Altresì il film “Metropolis” del ’27, di Fritz Lang, contiene eco wellsiana da “La macchina del tempo”.


Note

1 Una mia disamina sopra il “Discours sur la servitude volontaire”

2 Al “Mondo nuovo” ho dedicato un saggio

3 “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

Il brano della tragedia “Romeo e Giulietta” è stato preso da una pubblicazione nei tascabili economici Newton del 1993, quelli de “La macchina del tempo” in italiano da un’edizione della Rizzoli del 1975.



Weena (Yvette Mimieux) e un Morlock



Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria

sabato 12 novembre 2016

LA BOÉTIE: IPOCRISIA BORGHESE O MARXISMO-LENINISMO?

di DANILO CARUSO

Étienne de La Boétie (Sarlat, 1530 – Germignan, 1563) è stato uno scrittore, di estrazione sociale borghese, della Francia rinascimentale, amico del connazionale filosofo scettico Michel de Montaigne (1533-1592), che conobbe a Bordeaux grazie al fatto di ritrovarsi entrambi consiglieri del parlamento di questa città. La Boétie è noto in virtù di un suo scritto di acuta analisi politica (“Discorso sulla servitù volontaria”), il quale ha avuto polimorfa fortuna nel tempo accreditandosi presso ambienti e pensatori non sempre fra di loro accostabili per affinità ideologica. La ribellione del 1548 nel Meridione francese, dove venne introdotta una tassa sul sale, e il suo violento soffocamento, che coinvolse la regione di provenienza dello scrittore di Sarlat, forse rappresentarono il movente della riflessione da cui scaturì tale opera (il cui terminus ante quem è il 1552; la laurea in materie giuridiche dell’autore risale alla fine del ’53). Il “Discours sur la servitude volontaire” ha un testo ambiguo suscettibile di due iniziali formali letture contraddittorie: una in chiave liberal-borghese e l’altra in chiave radical-popolare. La mia impressione è che questi due abiti mentali siano solo formalmente distinguibili nel pensiero e nel pamphlet laboetiani. Egli, nel modo in cui ricorda il suo amico Montaigne, non era un sovversivo, era invece un uomo di ampie e profonde vedute. Si comprende altresì il giudizio del secondo rinvenente nel testo una sorta di giovanile esercitazione: giudizio volto a moderare e mimetizzare il potenziale de facto anche eversivo del “Discours”, sfruttato subito dagli ugonotti i quali si erano impossessati del manoscritto, inedito mentr’era in vita l’autore. È lampante che tale opera non sia una ragazzata, l’argomento è molto serio. Reputo che Montaigne cercasse di non far passare l’amico nella qualità di rivoluzionario, veste che in effetti pare egli non avere, essendo, almeno in apparenza, un cattolico. Dopo aver perso il padre precocemente, uno zio prete s’era preso cura di lui. Fu allievo, nell’ambito del corso di studi universitari a Orleans, di una dotta figura, Anne du Bourg, passato al Calvinismo e perciò nel ’59 messo a morte. Credo che le condizioni storiche, sociali e culturali dell’epoca di La Boétie, carica di irrequietezza religiosa, non gli potessero consentire tanto in maniera netta di assumere una rotta da tra le due menzionate opzioni di costruzione a monte, le quali restano perciò aperte a una dimensione di possibilità pratica futura successiva alla divulgazione del testo. Non voglio neanche parlare di un La Boétie dal doppio volto rousseauiano. Egli precorre il Ginevrino: nel “Discours” si ritrovano elementi rousseauiani, a testimoniare questa viva tensione tra istanze sociali che possono in un secondo momento, più chiaro e distinto, entrare in aperto conflitto dopo essere maturate sullo stesso terreno. È il caso, sottolineato da La Boétie, della teorica rivendicazione del popolo, antagonista della monarchia assoluta e dei suoi sostenitori clerico-nobiliari, di un sistema di diritti naturali i quali consentano ai suoi membri di uscire dalla condizione d’inferiorità: basterebbe che ogni uomo di condizione servile si astenga dal prendere parte al meccanismo dell’oppressione affinché esso venga meno per cause endogene, «riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore». All’inizio la Boétie si mostra gandhiano, ma contraddirà poi l’esclusività di simile via con altri toni ponenti all’alternativa riformista e pacifica la possibilità di uno scavalcamento da parte di procedure rivoluzionarie violente. C’è un passaggio del “Discours” il quale (assieme ad altri) mi pare nevralgico, e che vale la pena di riportare e analizzare nei suoi precisi dettagli allo scopo di comprendere la forma mentis laboetiana, albergata da vari genuini semi (i quali hanno però prodotto in determinati casi della storia male piante). «La natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se 6) nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia 3) non per questo ha voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e 8) non ha certo creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un 1) affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque 7) questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un’unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse 2) riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande 4) dono della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una 5) comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di 4) stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di 5) averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e 2) a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo». 1) L’«affetto fraterno» del primo tratto, questo spirito di collaborazione sociale, mi fanno pensare a posteriori al giustizialismo peronista e all’escudo simbolo del partido dove due mani si stringono, a rappresentare la solidarietà tra gli uomini, davanti a un berretto frigio (tipico della Rivoluzione francese). 2) In questo brano La Boétie respinge l’idea di una liceità dialettica hegeliana servo-padrone. Però egli considera un’uguaglianza astratta, gli direbbe Hegel, la quale non fa i conti con la concretezza. E non è casuale che a predicare bene, e a razzolare male, i liberali francesi si siano meritati un’accusa di astrattezza: meritata, non nel senso dei critici, timorosi della reale forza razionale dei principi del diritto, ma perché questi rimanevano volentieri parziali (e detti critici patrocinavano siffatta prassi a prescindere dal riferimento teorico). La forza della ragione, dell’istruzione è molto pericolosa nei riguardi della tenuta di un sistema di potere discriminatorio e sperequativo. Il pensatore di Sarlat afferma questo nel “Discours”, e inoltre, 3) in disaccordo venturo con Hobbes, 4) ricorda lo Stato aristotelico imperniato sulla funzione del logos (pensiero-parola) che lega gli esseri viventi in una comunità logica, la quale comunque non si ferma lì: la vita è varia, non è astratta uguaglianza. Non sempre uguaglianza e giustizia coincidono, dietro il velo di un simile ideale si possono compiere le peggiori nefandezze. 5) La Boétie precorre anche il concetto rousseauiano di “volontà generale” e apre la sua rivendicazione della libertà a modelli totalitari: capitalismo pseudodemocratico e socialismo marxista. Il “Discours” ribadisce la razionalità del diritto alla libertà: «è impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. […] Se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?». Non è molto visibile l’orizzonte alla cui volta rema questa richiesta di libertà (si può vedere una monarchia costituzionale parlamentare, però niente impedisce di guardare oltre). La Boétie respinge l’illiberalità dello Stato ebraico veterotestamentario a causa dello status di sottomissione dove esso colloca l’essere umano (fa un’osservazione obiettiva, ma la condisce con non condivisibili toni antisemiti). In generale l’asservimento popolare produce le condizioni del suo mantenimento mediante un primo effetto collaterale. Conseguenza della servitù è la sua naturalizzazione. L’abitudine è più forte dell’indole libertaria agli occhi di coloro i quali ritengono «naturale la condizione in cui sono nati». Se La Boétie non concepisce una dialettica signore-servo sulla falsariga hegeliana, tuttavia prospetta una dicotomia aristotelica di sprone ai volenterosi: cittadini (esseri umani), sudditi (animali). Egli apprezza quel contesto sociale dove gli individui siano «allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare ognuno miglior prova dell’altro nel conservare gelosamente la libertà». E poi si chiede: «chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore trovandovi un popolo nato per servire […], riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di uomini per entrare in un parco di animali?». Nel “Discours” si invita alla comprensione nei confronti dei servi di un potere assoluto, giustificabili dalla loro non coscienza dello stato servile. La psicologia comportamentista sembra fatta per costoro, la cui essenza non è il logos bensì la fisiologia animale: «per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l’educazione. […] Tutto ciò cui l’uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale». Però subito dopo recupera il primato rousseauiano della «natura semplice e schietta». Al pari di Rousseau bisogna rimediare alla corruzione dell’indole naturale, tuttavia in maniera più razionale che sentimentale. Lo scrittore di Sarlat, seguendo ovvie motivazioni propagandistiche, usa una comunicazione calda la quale dà risalto al sentimento di libertà anziché al suo concetto, il quale pone scontato e acquisito. A proposito della coscienza della servitù il protoilluminismo laboetiano è canonico: «si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui […] non riesce a dimenticare i suoi naturali diritti. […] Sono proprio persone di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell’avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi». La degenerazione della massa (animale) porta con sé un altro effetto collaterale della servitù: «con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio. […] La gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, […] possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande. I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa direzione così da renderli ancor più fiacchi e indolenti. […] I tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé alcun uomo di coraggio. […] Questa è la tendenza naturale della plebaglia […]: sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a tutto verso chi l’inganna». Il “Discours” nonostante non parta da uno schema sociologico interpretativo paragonabile alla figura hegeliana servo-padrone non può far a meno di constatare una paura di perdere la vita da parte del servo nella sua mancanza di coraggio. I servi nella valutazione di La Boétie sono perfetti interdetti, incapaci di intendere e di volere: «è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull’istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, […] e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri». In questi brani compaiono un paio di suggestive immagini poi ricomparse in futuro: Marx e l’oppio del popolo, Kant e la culla degli uomini. Lo scrittore di Sarlat fa pure un esplicito richiamo alla “Repubblica” platonica di cui già in 6). A ciò segue un brano sibillino il quale potrebbe spostare l’autore francese verso un’ipotesi di comunismo: «quegli sciocchi non si accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati». I «propri beni» sono allusivi di una comunione proprietaria generale cui si alluderebbe in 7)? Uno spirito marxista ante litteram lo si può rintracciare nella critica alla religione quale sovrastruttura e supporto del potere assoluto. La Boétie bersaglia coloro che «decisero di mettersi davanti la religione come scudo», una «aura di mistero»: dal canto suo «il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere». Il riferimento religioso è rivolto contro la monarchia assoluta per diritto divino. La strategia di controllo e dominio, degna della psicologia comportamentista, è colta in maniera lucida e precisa dall’analisi laboetiana: «non s’è mai dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all’obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante». Animali codardi vengono inoltre oppressi da chi gode benefici dalla tirannia, benefici da cui viene attratto: «appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, […] tutti coloro che sono posseduti da un’ambizione senza limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande». Consideriamo alcuni esempi: la burocrazia sovietica criticata da Trotzkij (pensiamo al romanzo “We the living” di Ayn Rand); e in genere i raccomandati, sovvertitori del diritto naturale, e i parassiti nel pubblico impiego i quali divorano la ricchezza della nazione con la finzione di lavoro a danno delle imprese private gravate da tassazione eccessiva mirante al clientelare mantenimento dei primi (la ricordata rivolta del ’48 è conseguenza di storture simili). Un poco più avanti nel “nel “Discours” si abbozza una vaga prospettiva di marxiano scontro di classe: «il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri». Questo machiavellico divide et impera tirannico può essere impostato in tale direzione sino a giungere all’esplicita concezione di lotta sociale inter classes elaborata da Marx. Personalmente penso che il filosofo di Treviri abbia generalizzato oltremodo considerazioni simili a questa di La Boétie1. Nel “Discours” abbonda una retorica antitirannica laddove si fanno esempi storici (Giulio Cesare, Nerone, etc.). Non condivido, parimenti allo schema marxiano di interpretazione del cammino storico, la difesa laboetiana della vecchia repubblica senatoria romana (costruita su un’oligarchia latifondista). È comprensibile che nei passi qui interessati del “Discours” sia più saliente l’aspetto retorico. Durante il periodo di formazione di La Boétie, il vescovo della sua diocesi (con sede nella città natale Sarlat) era un umanista promotore della riscoperta dell’antichità classica. Mi pare improbabile vedere un’apologia dell’oligarchia borghese in tale richiamo storico nello scritto laboetiano. La Boétie indica con chiarezza solo i protagonisti negativi del problema: il clero, la nobiltà, la monarchia assoluta. In ciò c’è una junghiana profezia di rivoluzione. Chi sia il reale soggetto della sua rivendicazione libertaria non lo dice altrettanto con chiarezza: la borghesia emergente o il popolo? Appare evidente che la massa abbia necessità di una guida liberatrice, e come sosteneva Lenin questa debba essere un’oligarchia illuminata, un’aristocrazia di stampo platonico. Nell’enigmatico prisma del “Discours” troviamo una faccia marxista-leninista. Credo tuttavia che tutte le potenziali facce prestantesi allo spirito del tempo debbano avere nello spirito del profondo un campo unitario che offra coerenza di senso al pensiero laboetiano. A mio avviso è lo stesso autore di Sarlat a mostrarci qual è la sua chiave di lettura: la ragione, il logos. Questa sua dote, la quale gli consentiva di scegliere la via aristotelica del giusto mezzo, gli aveva guadagnato nel ’60 la molto delicata incombenza di farsi portavoce, per conto della monarchia francese, presso cattolici e calvinisti interni, di diverse azioni volte a ricercare una pacificazione. Il suo capace operato contribuì a far trovare un momentaneo accordo. Editto di Saint Germain del ’62: niente più persecuzione dei protestanti, però limitazioni alle manifestazioni di culto. L’umanista Nicolò Gaddi, vescovo di Sarlat, era imparentato con la Regina madre, la reggente di Francia Caterina de’ Medici: fu così che la moderata condotta laboetiana nella sua esperienza amministrativa a Bordeaux, dentro un’istituzione in mano ai cattolici persecutori, emerse all’attenzione della corte quale requisito idoneo per l’attribuzione di quel compito di mediazione. Nell’equilibrio ritroviamo il significato del messaggio di La Boétie. Perciò nel “Discours” il suo redattore non colloca percorsi futuri con eccessi liberisti o socialisti. L’anarchico tedesco Gustav Landauer (1870-1919) si è spinto addirittura a identificare il tiranno laboetiano con l’entità statale. Dal mio punto di vista di studioso razionalista La Boétie è a favore di una terza via, una tercera posición. Liberté égalité fraternité: libertà sin quando non ci sia offesa dell’umanità; uguaglianza di base di fronte allo Stato; solidarietà a difesa delle categorie svantaggiate. Il passaggio 8) del primo brano riportato è eloquente. Occorre dare alle bestie vigliacche l’opportunità di scegliere liberamente il proprio destino: se vogliono rimanere serve nonostante ci si sforzi di educarle e istruirle, non è bene nei confronti dell’umanità e della civiltà introdurre queste all’esercizio dei diritti politici come riteneva Aristotele (per inciso: il liberale John Stuart Mill riteneva opportuno dare potere individuale di esprimere un numero di voti differenziato a seconda delle capacità intellettuali). La Boétie lo afferma in modo nitido: il popolo ignorante viene tiranneggiato assieme ai boni viri. Non per niente egli parla di repubblica platonica (dove ognuno sta al suo posto senza nuocere al prossimo). La libertà è esercizio di una volontà non addomesticata. Alla grottesca ignoranza dei più e alla mediocrità dei presuntuosi non interessa poiché non è cosa che si mangia. Giustizia sociale significa dare a ciascuno secondo i propri meriti, dare a ognuno secondo le proprie necessità; rimuovere i disagi nella speranza che nessuno voglia rimanere servo idiota del più furbo di turno. Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere». Benché sappiano di filosofie ciceroniana e lockiana, La Boétie alla fine del “Discours” sostiene altre cose molto giuste: «il tiranno non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori ma con l’onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. […] Penso […] che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici». Le idee laboetiane di tolerantia e di liberalismo non hanno l’ipocrisia e la parzialità di Locke1. La Boétie auspicava una pacifica coesistenza fra cattolici e protestanti. La sua precoce morte, a causa di una malattia, privò la Francia, e l’intero contesto europeo, di una seria e matura voce la quale continuasse a richiamare gli spiriti impazziti alla voce della ragione (poi illuministica). Il “Discorso sulla servitù volontaria” fu tradotto e pubblicato in Italia nella Napoli repubblicana del 1799. L’esperienza della Repubblica napoletana costituisce uno dei più grandi esempi di quanto sostenuto da La Boétie nel “Discours”: il popolo preferisce la servitù volontaria allo sforzo intellettuale e all’azione eroica. Forse è un problema pedagogico. Il pensiero laboetiano è ricco di molti spunti, che guardano in tante direzioni perché il suo autore guardava il mondo con occhio profondo. La posterità non sempre ha colto la lezione del “Discours” nella sua integrità, ne ha mangiata una fetta alla volta. Gustare questa riflessione a 360° può ritornare utile allo scopo di valutare che cos’è la libertà dell’essere umano, a cosa serve, quali sono i suoi limiti. La Boétie capiva che le vere bestie non sono libere giacché sono schiave di un istinto naturale, e che chi non è libero da condizionamenti mentali e comportamentali è come un animale, servo di una natura estranea. “Il discorso sulla servitù volontaria” è un testo affluente di quel fiume che porta alla “Critica della ragion pratica” di Kant, il quale va compreso mantenendosi dentro questo bacino e bevendo quest’acqua.


NOTE

1 Per approfondimenti consiglio la lettura del mio saggio “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

I brani del “Discorso sulla servitù volontaria” sono tratti da un’edizione pubblicata da Jaca Book nel 1979.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria