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mercoledì 8 febbraio 2017

SIMBOLOGIA COSMICO-LIBIDICA IN DRUMMOND DE ANDRADE

di DANILO CARUSO

“O amor natural” è il titolo di una raccolta di poesie degli anni ’80, pubblicata postuma, di Carlos Drummond de Andrade (1902-1987). Questa silloge, di uno tra i più autorevoli scrittori della letteratura brasiliana novecentesca, fu pubblicata nel ’92, e non passò inosservata per via dei suoi contenuti erotici: nel ’93 l’opera fu premiata in Portogallo. L’autore, di estrazione familiare borghese fondiaria, nel suo percorso di studi giovanili era passato dai gesuiti (dal cui collegio era stato espulso a causa della sua indole contestatrice). Diplomato in farmacia, fu un impiegato statale sino al ’62 (nel 1934-45 fu capo di gabinetto al ministero dell’istruzione). Marxista sui generis, la sua mentalità si può comprendere accostandolo a Rousseau, col quale condivide il carattere sentimentale impegnato e l’ambizione a una solidarietà universale. Il suo lavoro poetico si sviluppò dentro la corrente del Modernismo che sollecitava l’abbandono di forme metriche preordinate a favore di un verso libero nel senso pieno della definizione, un verso dove la poesia non trovasse più intralci alla sua espressione. Drummond aveva preso in sposa nel ’25 una donna che aveva un paio d’anni più di lui (morirà nel ’94): un primo figlio gli morì poco dopo la nascita (1927), l’altra figlia Maria Julieta (1928-1987) morì alcuni giorni prima di lui. Maria Julieta Drummond de Andrade aveva sposato un Argentino nel ’49, il quale era un avvocato e uno scrittore. Trasferitasi a Buenos Aires, nel ruolo di storica, fu autrice della promozione culturale della sua terra natia. Il padre si recò più volte nell’Argentina peronista per la nascita dei nipoti. Non pochi sono stati gli atti di significativo e caloroso omaggio da parte dei Brasiliani al loro illustre rappresentante prima e dopo la sua scomparsa. La lirica di cui qui discuto in particolare, tratta da “O amor natural”, è la nona dell’edizione del ’92 con le illustrazioni di Milton Dacosta: “A bunda, que engraçada”, alle pagg. 35-36 precedute da un pertinente disegno. Il testo è un elogio del femmineo lato B. La materia lungi dall’essere triviale prerogativa di ignoranti figli di una decaduta società del benessere – il 90% degli uomini (scremato di quelli a cui la vita non ha dato l’opportunità di studiare) – necessita di essere affrontata partendo dai margini remoti. La comprensione non animale, e quindi sul serio umana, ci conduce nell’antichità e soprattutto nell’atemporale inconscio collettivo da cui emergono tutti i simboli. Le statuette femminili preistoriche connotate da steatopigia esprimono la preoccupazione e il desiderio in relazione alla prosperità alimentare. Esse rappresentano quel simbolo che si evolverà nella “callipigia” allorché, come afferma Hegel, la forma avrà trovato il suo equilibrio estetico con la materia nell’arte greca. All’epoca di Adriano risale presumibilmente la nota statua esposta al Museo archeologico di Napoli. Afrodite Callipigia (alla lettera: dalle-belle-natiche) era ad esempio venerata nell’antica Siracusa. Il suo atto di esporre alla visione zone anatomiche (frontali o a tergo del corpo), sottoposte all’egida del senso comune della pudicizia, contiene, da un punto di vista psicoantropologico, il significato di manifestare opposizione in grado variabile: l’anásyrma (alzata-di-veste) contempla una gamma che va da forme di provocazione e irrisione a un vero e proprio gesto rituale di valenza propiziatoria. Mostrare i muliebria genitalia (cháos, apertura) sortisce un effetto particolare: terrorizzare. Ciò attraverso cui proviene la vita dell’universo può anche privare dell’essere o contribuire al ripristino dell’ordine venuto meno (una maledizione o una benedizione a seconda del caso). Si consideri a tal proposito il femminile a monte delle cosmogonie mitiche. Una anásyrma radicale (un istantaneo striptease) era la vecchia tradizione romana della “nudatio mimarum” la quale aveva luogo nei teatri, dopo una rappresentazione. Si comprende la radice apotropaica pubblica che univa l’utile al dilettevole. I festeggiamenti annuali, a cavallo tra aprile e maggio, volti a onorare la dea Flora (Floralia) erano altre circostanze in cui ragazze senza veli giravano attraversando le campagne allo scopo di garantire la produzione agricola. Le “anasyrámenai” erano comunque già presenti e diffuse in Grecia (culto di Demetra) e in Egitto (culto di Bastet, una divinità teriomorfa). Due somiglianti casi di anásyrma, distanti nello spazio inter se, confermano il sostrato originario dell’inconscio collettivo, il quale collega le mitologie greca e giapponese sulla superficie narrativa, tramite gli episodi di Demetra (rattristata dalla perdita di Persefone) e Baubò, e di Uzume (autrice di uno spogliarello al fine di propiziare il ritorno della divinità solare Amaterasu). In epoca romana Costantino aveva fatto abbattere un tempio posto sul luogo indicato dalla tradizione cristiana quale quello della morte di Cristo (il colle del Calvario), tempio adibito alla venerazione della Callipigia secondo quanto Adriano aveva stabilito. Un exemplum di anásyrma riguarda il potere di fermare una tempesta marina. Ora, se pensiamo all’episodio evangelico di Gesù che placa una bufera mentr’era in barca coi discepoli (i quali allarmati lo sollecitano), e al fatto che sul Calvario c’era un luogo sacro alla Callipigia, possiamo cogliere alcune sfaccettature della dicotomia culturale fra civiltà grecoromana e tradizione giudaicocristiana. Quest’ultima è stata in maniera forte misogina sino al punto di fare delle donne porte del diavolo e streghe, e torturarle e ucciderle con sadismo. Tutto ciò che era corpo femminile assumeva connotazioni demoniache di perversione di una normalità e una moralità assunte sulla base di parametri barbarici e pseudoscientifici. Archetipi negativi dell’“ombra” (lati malefici di un sintetizzando archetipo positivo o di esso regressione) hanno agito in qualità di modelli malati nella storia generando i loro simboli. Sarà stata anche la mancanza di auspici, il Cristianesimo ha fatto crollare l’Impero romano, la più alta manifestazione sociopolitica occidentale (se confrontata con il contesto in cui è emersa), con la conseguenza di disgregare l’Europa nel buio medievale della ragione, da cui questa si è ripresa un po’ grazie all’Illuminismo. Siamo adesso nelle condizioni di poter svolgere l’ermeneutica testuale. Prima di offrire una mia traduzione della poesia drummondiana, debbo puntualizzare diversi aspetti semantici a partire dal primo verso che dà il titolo alla lirica, il quale ho tradotto così: «La bunda, quant’è aggraziata [pneumatic]». “Bunda” è un sostantivo femminile del portoghese brasiliano indicante in generale “grandi natiche”: il concetto, tenendo conto delle dovute proporzioni, è avvicinabile a quello che presiede alle statuette steatopighe dell’era preistorica. Tuttavia questa accezione, più popolare, si restringe in un campo semantico più raffinato, originario dell’estremo sud-est brasiliano da cui l’autore del testo proveniva, e dove indica e pygé. Non ritengo che Drummond abbia usato il vocabolo nel primo significato per due motivi. Uno è quello linguistico regionale testé evocato: avrebbe potuto usare il sostantivo maschile “bundão” (o altro fra i caratteristici a livello nazionale quali “bundaça” o “bundana”). Il secondo è quello retorico: siamo in ambito poetico, e dunque dell’arte, dove il poeta sta rappresentando il bello. Perciò non c’è volgarità. Non ci sono misure precise, ma neanche eccessi. Drummond ha scritto una scultura di Afrodite Callipigia, allo stesso modo in cui gli scultori di Callipigie scolpivano “A bunda, que engraçada”. La “bunda” di tale testo è il lato β di Venere, nell’evocazione cosmico-simbolica già spiegata, e trasposta nei versi drummondiani seguendo la più alta ispirazione dell’inconscio collettivo (il poetare indotto da divina mania). “Engraçada” è aggettivo corrispondente al sostantivo “graça”, equivalente all’italiano “grazia”: entrambi tali nomi possono assumere sfumatura religiosa. Questo aspetto è contenuto nel termine adottato da Drummond: termine il quale, non so quanto in misura consapevole, esprime l’ascendenza concettuale simbolica con e kalé pygé. Il simbolo, mediante il sostrato inconscio collettivo, riemerge nella poesia drummondiana, dove assume una dimensione meno triviale di quella verso cui una traduzione, secondo me, inadeguata potrebbe piegarlo. Una lettura critica poco profonda si rassegnerebbe a tradurre “bunda” con “culo”. Non è la prima volta che non condivido ipotesi di volture, a mio avviso distorcenti e deformanti. Nel caso di “bunda”, il fatto è che tra simile vocabolo e “culo” intercorre la stessa formale differenza, per fare degli exempla di paragone, tra “chevalier” (un cavaliere) e “cavalier” (uno che va a cavallo), fra Mozart e Salieri. Credo che un termine così specifico, avente difficile resa con una parola italiana, debba essere adottato tale e quale, accompagnato dalla sua spiegazione da dizionario linguistico. Pertanto mi permetto di sostenere: l’aggettivo “engraçada” ha lo stesso valore dello huxleyano “pneumatic”, così come ho interpretato quest’ultimo in relazione a “Brave New World” e l’ho poi applicato a “La Madonna del latte in trono col Bambino” di Jean Fouquet (nei confronti della “bunda” va però assunto con polarità positiva, giacché, e non solo, al di fuori di quei contesti)1. L’aggettivo “mimoso” adottato nel v. 10 da Drummond («cadência mimosa»), al fine di puntualizzare una modalità della “bunda”, può significare, oltre che “delicato” (e affini), anche “favorito (sost. o agg.)” nel senso di eletto dal destino, ossia investito – in senso lato – della qualità denotata da “pneumatic”. In italiano sinonimo non elegante di “fortuna (sorte favorevole)” è “culo” (avere c. = avere f.). Chiarito ciò, lascio scegliere al lettore se adottare nella traduzione di “engraçada” l’aggettivo “aggraziata” o l’altro inglese, nel taglio semantico raffinato dato da Huxley nel “Mondo Nuovo”, “pneumatic”: la “bunda” è “pneumatica”, quindi non può mai essere “culo”. Stiamo parlando del lato β di Afrodite. Il che è implicito nel v. 2 della lirica drummondiana, laddove l’autore dice che la “bunda” «está sempre sorrindo»: 1) è 2) sempre 3) sorridente. 1) Il verbo portoghese estar, al contrario di ser, connette al suo soggetto un accidente separabile transitorio, cosa qui contraddetta dall’avverbio 2) sempre: non c’è contraddizione se pensiamo che la transitorietà non è temporale, bensì spaziale; non è in un passaggio di qualità individuale, ma in una differenza di soggetti (possessori o meno della qualità). Ogni bunda empirica fa parte della categoria semantica generica di femmineo lato B, tuttavia non ogni lato B è una “bunda” (conversio per accidens), un’ipostasi dell’afrodisio lato β (idea platonica e simbolo dell’inconscio collettivo). 3) Il sorriso è quello ingenuo dionisiaco delle statue greche arcaiche: ho usato un termine nell’accezione nietzschiana per dire della sua inopportunità semantica in relazione al suo concetto. Se Nietzsche non fosse stato maschilista avrebbe adottato una dicotomia più junghiana: apollineo/afrodisio; il complementare di apollineo non è dionisiaco, è afrodisio. Lo hanno compreso Jung, e in maniera del tutto distorta Weininger. A proposito di psicologia junghiana, la «praia infinita [spiaggia infinita]» del v. 16 indica l’inconscio collettivo a livello metafisico, l’universo a livello fenomenico. In portoghese il costrutto ir+gerundio, presente nel v. 17, denota sottolineatura di un avvenimento (già iniziato). Ho tradotto «caos» del v. 19 con «cháos», riallacciandomi all’argomentazione su esposta in merito e in virtù di consequenziale suggestione proveniente dal celebre dipinto intitolato “L’origine du monde” di Courbet. Segue adesso il testo di “A bunda, que engraçada” nella mia traduzione.


La statua
di Afrodite Callipigia
esposta al Museo
archeologico di Napoli
1    La bunda, quant’è aggraziata [pneumatica].
2    È sempre sorridente, mai è tragica.

3    Non le interessa quel che passa
4   dal lato α del corpo [pela frente do corpo]. La bunda è autonoma.
5    C’è qualcosa di meglio? Forse i seni.
6    Suvvia – mormora la bunda – a codeste birbe
7    ancora manca molto da studiare.

8    La bunda è composta di due lune gemelle
9    in circolare oscillazione. Va autarchica
10   in armonia delicata, nel miracolo
11   di essere dualità-nell’unità [duas em uma], pienamente.

12   La bunda si diverte
13   per conto proprio. E ama.
14   Nel letto s’inquieta. Montagne
15   si accrescono, calano. Onde che sbattono
16   su una spiaggia infinita.

17   Là va sorridendo la bunda. Va felice
18   nella carezza di esistere e dondolare.
19   Sfere armoniose sopra il cháos [caos].

20   La bunda è la bunda,
21   trabocca.


La tautologia del penultimo verso e la rima baciata con l’ultimo («A bunda é a bunda, / redunda») sono artifici retorici di efficace effetto sonoro e concettuale (ci sono due rime baciate: una interna al v. 20 e l’altra col v. 21). Carlos Drummond de Andrade nella sua poesia ha recuperato dallo spirito del profondo un simbolo positivo. Dall’avvento del Cristianesimo, l’Occidente è pervaso da simboli ancorati ad archetipi negativi. Pochi hanno l’intelligenza e l’istruzione adatte a inquadrare la fenomenologia dell’apparato simbolico cristiano, la cui religione misogina aveva promosso l’anoressia femminile al rango di manifestazione di santità. Ecco come si scontrano archetipi e immagini di mondi differenti: quello cristiano-medievale e quello pagano grecoromano, quest’ultimo più libero, sano ed equilibrato del primo. Tutti i frequentatori di chiese si scandalizzerebbero se – per assurdo – vedessero su un altare una Venere Callipigia o sentissero qualcuno recitare durante un rito “A bunda, que engraçada”, mentre a quasi nessuno di costoro – ad esempio – fa impressione che l’anoressica santa Caterina da Siena era soltanto una ragazza bisognosa di moderna assistenza medica, e soprattutto di ambienti familiare e sociale non predisponenti al disagio psichico. La libido si manifesta nelle espressioni umane (l’agire, l’arte, etc.): i prodotti sono segni della salute mentale; quelli che recano il marchio dell’“ombra” navigano nel solco del malessere.


NOTA
1 Per approfondimenti