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sabato 7 gennaio 2017

NELLA DISTOPIA SENTIMENTALE DELL’ALTRA SYLVIA

di DANILO CARUSO

Sylvia Bloch è stata moglie dello scrittore newyorkese Leonard Michaels (1933-2003). Entrambi sono i protagonisti letterari di un autobiografico romanzo di quest’ultimo, uscito nel settembre del ’92: “Sylvia: a fictional memoir” (l’autore aveva già parlato della compagna in “Shuffle” del ’90, una raccolta di ricordi familiari vari). Ho letto il testo incuriosito dall’omonimia con la Plath. Non pochi elementi in comune fra le due Sylvia hanno colpito il mio interesse. In aggiunta all’evidente nome in comune, che entrambe avessero nella veste di compagno un penman, che provenissero dal nord-est degli USA e che si fossero suicidate, erano fattori di suggestione nei confronti di uno studioso, tra l’altro, junghiano quale mi reputo. Non minore impressione ha destato una vaga somiglianza tra Michaels e Ted Hughes (1930-1998). Ho impostato perciò il mio procedere nella lettura considerando uno schema di coppie parallele di cui verificare eventuali analogie e differenze, senza farmi trasportare dal modello di guida. Si tratta infatti di persone che hanno avuto tutte un’esistenza autonoma, da non ricondurre in maniera nevrotica a un telaio generale. Sylvia Plath era coetanea dello scrittore newyorkese, morì a 30 anni, e quasi trenta anni dopo la pubblicazione di “The bell jar” (gen. ’63) fu edito “Sylvia”. Poiché ho scritto due saggi critici sulla musa di Boston1, mi sono inoltre prefisso di non scartare il raffronto tra Esther Greenwood e Sylvia Bloch. Ignoro se ci siano pubbliche fotografie di costei, tuttavia Michaels la descrive benissimo sotto ogni profilo nel romanzo: ne ho visto un disegno realizzato da lui, rievocante l’immagine di “Donna seduta con abito blu” di Amedeo Modigliani. Allorché il racconto inizia, nel dicembre del ’60 (ha una forma espositiva cronologica di diario), Leonard – di origine ebraica – ha terminato i canonici studi universitari (poi, perfezionati, lo porteranno da New York a insegnare anche in California). Si descrive un soggetto interessato alla letteratura e voglioso di distinguersi dalla massa. Leonard Michaels, al contrario del poeta inglese Ted Hughes, mi ha destato una positiva impressione. Tipi caratteriali differenti: nel primo ci sono uno spirito di sacrificio, una coerenza e un’apertura umana maggiori rispetto al secondo. Ambedue i loro primi incontri con le Sylvia furono fulminazioni reciproche. In quel 1960 fu però lo scrittore di New York a finire in congresso carnale al primo approccio, non conoscendosi bene e malgrado lei avesse già un ragazzo. La conoscenza con Sylvia Bloch era stata accidentale, nell’alloggio in affitto di una comune amica condiviso dalle due donne. La Sylvia michaelsiana mostra un aspetto altro dalla Plath: più bassa di una decina di centimetri (1,65 m), è un’affascinante brunetta di 19 anni dai lunghissimi capelli lisci con frangetta (la poetessa bostoniana li aveva castani). La distinzione mi ha fatto pensare alle due Isotta (la bionda e dalle bianche mani). Sylvia Bloch aveva perso i genitori anzitempo: prima il padre (come la Plath), e poi la madre (diversamente da questa). Michaels si rivela molto profondo nel rilevare il trauma prodotto in lei: l’assenza le produce una mutilazione agli occhi del mondo, il quale la considererebbe di grado inferiore a ragione di ciò. Tale è la sorgente del disagio. Allo stesso modo della musa di Boston, su di lei – giovane studentessa universitaria di materie umanistiche (indirizzatavi dal compagno Leonard) – sembra gravare una figura di animus junghiano riecheggiante la mancanza paterna. È in seguito a simile motivo – credo – che ella lascia il suo precedente partner, un altro studente, sostituendolo con uno avente circa sette anni in più. Dice Michaels di Sylvia: «Lei amava essere trattata da piccola ragazza in una casa piena di uomini». Lo scrittore newyorkese evidenzia nel romanzo la consistenza marcusiano-orwelliana2 dell’actus copulandi. In occasione del primo coitus giudica sé e la Bloch «una coppia condannata a una [reciproca] concessione sacrificale», concludendo: «Liberati dal sesso dentro una confidenza semplice, parlammo». Nella coabitazione scaturita, il disagio di Sylvia provocava litigi con Leonard, il quale, da persona più matura, manteneva un assetto difensivo senza usare violenza. Il fatto che gli scontri potessero culminare in incontri sessuali è orwelliano. Pensiamo altresì a “Eros e civiltà (1955)” di Marcuse. La furiosa rabbia della Bloch, scatenantesi su cose, aveva una cornice di terapia nell’amorevole vicinanza di Michaels. Lei non è una bestia feroce, un tirannico sadico essere, né tanto meno una pazza: «Lei era intelligente in modo inconsueto». La sua unione con Leonard non è ispirata da natura cinica, nel senso letterale etimologico. La maggioranza di uomini e donne costituiscono coppie più o meno stabili dove l’attività sessuale ha un esclusivo connotato animale. Partecipare a un congresso carnale (o avere figli), in sé e per sé, non distingue dai cani. Umano è colui/colei che esercita un’attività intellettuale la quale gli animali non possono svolgere. Chi, ad esempio, è estraneo all’arte, è più vicino all’ambito cinico che non all’umanità autentica. Un actus coeundi fra persone di capacità intellettuali e di conoscenza superiori alla mediocritas è qualcosa di dissimile da quello che fanno i cani. La mente di Sylvia inquadrava l’interazione personale in schemi distorti, devianti su versanti nevrotici e paranoici più per disagio e immaturità che a causa di inclinazione patologica. Lo stesso scrittore newyorkese confessa: «La sensibilità di Sylvia a immaginare un’offesa […] era patologica». Lei aveva una vocazione autolesionistica, sadica in virtù degli effetti di richiamo esercitati sul suo partner. Farsi del male catalizza l’attenzione di lui, e al contempo ne condiziona la volontà al servizio di ella. Leonard Michaels potrebbe apparire un povero martire, e in effetti nessuno a priori accetterebbe una siffatta vita di coppia. Tuttavia un uomo di valore non è certo quello che vive nell’anonima mediocrità cinica (plathiana “flatness”). Il superiore intravede i suoi simili e su tale stampo di anima/animus junghiani aderisce. A guisa di missili intelligenti partono da Sylvia rimproveri, mortificazioni alla sua volta. Sembrano tessere di un complicato mosaico del destino, dove lei è consapevole di un disturbo bipolare (condiviso con Esther-Sylvia, assieme alle ipotesi di suicidio tagliandosi le vene). Pertanto rifiuta la proposta di Leonard di assistenza psichiatrica (per Esther-Sylvia le vicende si svolgono in altro modo. L’autore del racconto autobiografico sonda la situazione iniziale del suo rapporto in un significativo passaggio: «Sylvia scoprì in me una malattia che mi inabilitava. Insieme, la alimentavamo. Io non ero una persona buona a sufficienza, vorrei pensare, mentre lei era un meccanismo prezioso dove molle e ingranaggi molto pregiati erano stati in modo brutale danneggiati da un trauma. Questo le diede accesso alla verità. Se Sylvia diceva che io ero cattivo, lei aveva ragione. Non potevo vedere perché, ma il motivo è che io ero cattivo. Accecato da cattiveria. Lei doveva essere nel giusto. Stavo vivendo con lei da mesi. Proteggevo il mio investimento, così per dire, grazie al supporre che l’isterismo e le accuse di lei fossero non rivoltanti e spregevoli ma una cosa molto morale simile al parossismo di un profeta del Tanak. Erano impetuose illuminazioni, momenti di grazia perversa. Non la manifestazione di pazzia. In modo normale, difensivo, vorrei pure pensare che nessuno mi aveva mai parlato come Sylvia. Ciò significava che non ero cattivo, forse. Nessuno mi rimproverò mai per avere pensieri e sentimenti che non possedevo. Ma anche se avessi avuto pensieri cattivi e una vita interiore in genere ripugnante, chi se ne frega? Non mi comportavo bene? Ero molto amorevole, sempre profuso in abbracci e carezze. Giunsi a credere che i pensieri e i sentimenti odiati in me da Sylvia fossero più suoi che miei. Sarebbe stato facile lasciare Sylvia. Se fosse stato difficile, è possibile che l’avrei fatto». La loro vita è all’insegna di «liti» e «sesso compulsivo»: in essa cercare un approccio attraverso la ragione su Sylvia sortiva un effetto negativo. Un momento di sollievo Michaels lo trova in una confidenza di un amico che si scontra con la moglie (come i cani) e capisce che la cosa non è rara. La Bloch era però diversa dalle mediocri all’asta per un acquirente da contratto matrimoniale, «lei aveva bisogno di conforto». Non sono da annoverare nella mediocritas: donne di spessore intellettuale e di talento, sentimentali, pórnai intuitive. Durante il coitus le donne possono avere esperienze mistiche, da qui l’origine della prostituzione sacra. Leonard Michaels non era Ted Hughes. Lo scrittore newyorkese avrebbe gradito che il padre gli desse l’assenso a separarsi dalla compagna giacché egli, da solo, non trovava una volontà e una forza proprie. Ma il genitore, un Ebreo emigrato dalla Polonia, gli presenta un insegnamento sulla coppia traente spunto dalla cultura giudaica, dove l’unione ha il potere di ripristinare la perfezione originaria androginica3. Però soprattutto gli dice: «Lei è un’orfana. Non puoi abbandonarla». E tale principio ha una solida base nel Tanak: Es 22,21-23; Dt 14,28-29 / 24,20; Tb 1,8; Gb 31,17; Sal 67,6 / 145,9; Is 1,17. La prospettiva coniugale è segnata, e cercando di condurre Sylvia da uno psichiatra, è invece Leonard l’unico a farsi ascoltare dopo l’ostinato rifiuto di lei. Riceve comunque la conferma che qualcosa nella testa della Bloch non procedeva nella giusta direzione, e che ambedue erano interdipendenti. Nella parte centrale del racconto michaelsiano comparisce la figura di Agatha Seaman, un’amica di Sylvia, di ricca famiglia, un po’ invidiata da questa. Per via del suo comportamento sessuale Agatha finisce in una casa di cura, però entrata eterosessuale con altri problemi, alla fine diventa pure omosessuale mantenendo la precedente indole filomasochista. Questa accoppiata Sylvia/Agatha rispecchia nella forma quella Plath/Sexton. Quest’ultima fu sospettata di lesbismo, e fu pure in terapia e ricoverata per problemi psichici. Da non trascurare inoltre la coincidenza delle iniziali: A. S. Ignoro quanto di tutto lo schematismo (per analogia e contrasto) evidenziato nella mia analisi sia proveniente dalla realtà dei fatti o dalla creatività letteraria. Nonostante tutto il mio lavoro non subisce una diminutio capitis. È pur sempre un esame testuale, dove la lettera prevale sui fatti esteriori da verificare al di fuori della critica. In generale debbo dire che in relazione a “The bell jar” la Sylvia michaelsiana versa in uno stato di disagio più intenso di quello di Esther. I gradi di maturità personale sono dissimili. La protagonista plathiana, toccato il fondo del tentato suicidio, cammina verso una sizigia junghiana. Michaels e la Bloch vivono una contraddittoria distopia di coppia aggravata dal limite di Sylvia legato all’evoluzione psichica della ragazza ancora molto giovane. Benché Leonard s’impegni ad aiutarla non riesce a migliorare la condizione di lei, la quale probabilmente avrebbe tratto qualche beneficio da assistenza medica, al pari di Esther/Sylvia. E quindi egli non può evitare di risentire del peso della situazione. L’uso di droghe, inoltre, praticato nel giro delle loro amicizie – e disapprovato in segreto da Michaels – non ha giovato a favore di un progresso dell’individuazione junghiana e di crescita della Bloch (laureatasi all’inizio del ’63). Mi sono chiesto dove lo scrittore newyorkese trovasse la vis di animare il suo spirito di sacrificio nel rapporto con colei che è diventata sua moglie nella primavera del ’61. La risposta datami rintraccia una spiegazione di nuovo nel mondo veterotestamentario, nell’idea di subordinazione al dispotico Dio del Tanak (la quale avrà un’evoluzione nell’insegnamento evangelico di Gesù a porgere l’altra guancia). La forma mentis ebraica sostiene questo iter distopico di coppia, nel quale l’attività sessuale non sortisce effetti meno deludenti della droga. La dialettica tra i due è più adorniana che hegeliana: c’è infatti più risalto del contrasto che della sintesi. L’involuzione sessuale, la quale non diminuisce la frequenza degli acta copulandi, disorienta lo “stoico” Leonard, che tuttavia si mantiene fedele (ancora una volta prevale un principio, a mio avviso, di radice religiosa). La società, non solo americana, mal attrezzata nell’affrontare problemi di disagio interiore, piuttosto propensa a crearli mediante pregiudizi e conformismo, è denunciata in queste parole michaelsiane: «Noi eravamo portatori di visioni di disperazione e noia, ma altresì di penetranti percezioni di questo momento, in questo mondo moderno, dove il vuoto poteva essere squisito, pure un modo di vita […], per noi, anche. […] I sentimenti erano tutto ciò che importava, e loro erano accessibili per noi. Comprendevamo. Noi eravamo soggetti alle ineffabili tensioni e agli stati d’animo della vita moderna». Siamo vicini a “1984”. Qua è però peggio. La vita di relazione ha metabolizzato il venefico proveniente dal sistema sociale: due caratteri estroversi sentimentali con propensione all’asse dell’irrazionalità. Nell’estate del ’63, Leonard, partito alla volta del Michigan per motivi di studio, de facto, avvia una separazione da Sylvia. Logorato dalle tensioni, lascia che l’unione matrimoniale si disintegri. Ognuno di loro conduce sostanzialmente vita propria: lui trova una nuova partner, lei ne ha di più. Assieme a Sylvia, nel di lei appartamento newyorkese, il penultimo giorno dell’anno 1964, l’autore vorrebbe apertamente chiedere il divorzio, ma lei gli strappa il benestare a un tentativo di ricominciare. Subito dopo accade l’imprevedibile: a insaputa di Michaels lei assume un’overdose di secobarbital. Entra in coma, ricoverata, morirà il 2 gennaio 1965, giorno del di lui compleanno. Il Qoelet afferma che c’è un giorno per nascere e uno per morire. Aveva 24 anni (gli stessi compiuti da Sylvia Plath in quel ’56 in cui sposò Ted Hughes) nell’anno di pubblicazione di “Ariel” (prima opera postuma della poetessa americana). Inoltre era del ’40, l’anno di scomparsa del padre della musa di Boston. In maniera analoga al caso di quest’ultima, è difficile parlare del suicidio di Sylvia Bloch (nella realtà avvenuto nel ’63, lo stesso anno della Plath). Ritengo che non avesse una volontà autodistruttiva radicale, cioè non volesse morire, solo compiere un gesto da cui poter tornare indietro. Penso che volesse suggellare quel consenso ottenuto in favore di una riconciliazione con una richiesta d’aiuto la cui forma purtroppo è andata oltre il limite. Doveva essere un “tentato suicidio”, una simbolica manifestazione mirante a recuperare la vicinanza dello “stoico” Michaels in maniera definitiva. Una sizigia di morte avvolge il finale del romanzo e la mente dello scrittore newyorkese, che nel mezzo del cammino della vita si trova in una selva oscura (35 anni). La corrispondenza anima/animus si trasforma in qualcosa che va al di là del mondo fenomenico. Muore Beatrice (a 24 anni), muore Sylvia Plath, muore Sylvia Bloch. Tuttavia possiamo ritrovarci tutti, oltre la vita e oltre la morte, nel fondo metafisico dell’inconscio collettivo. Con una tensione mistica novalisiana, l’autore del romanzo chiude un’esperienza catartica narrativa; in tutte le sue parole c’è più di un semplice narrare, c’è il peso tragico della vita: «Non mi sembrava strano il fatto di potermi svegliare nel mezzo della notte sentendomi certo che lei avesse chiamato il mio nome, però iniziai a temere l’andare a letto. Avevo paura che potessi fare dei sogni. Stavo alzato sino a tardi, leggendo fin quando i miei occhi si irritavano e non potevo seguire più a lungo il senso delle pagine. Quindi avevo l’intenzione di andare a dormire, sperando di cadere presto sotto il livello dei sogni dentro l’oblio. Una volta caddi dentro all’obitorio, Sylvia che giaceva là, un lenzuolo bianco fino al suo mento. Era come ai vecchi tempi, noi due in una piccola stanza, Sylvia addormentata, io avvilito. Presi a piangere, implorandola, non facendo concessioni alla realtà. La mia necessità era l’unica realtà, più reale della morte. Sylvia doveva finire quella scena. Doveva aprire i suoi occhi e mettersi dritta. Lo fece. La strinsi fra le mie braccia e chiesi se le sarebbe piaciuto andare al cinema. Lei disse di sì, ma potevamo prendere qualcosa da mangiare prima? Dissi che potevamo fare ogni cosa che lei volesse, qualsiasi cosa davvero e andammo fuori a cercare un ristorante, disperatamente felici». Leonard Michaels è venuto a mancare all’età di 70 anni a causa di un cancro (come Ted Hughes), quarant’anni dopo il reale suicidio di Sylvia (la traversata del deserto della vita); si risposò tre volte (due divorzi), ed ebbe un figlio e due figlie dalle mogli seconda e terza. Con la quarta abitò in Italia. “Sylvia: a fictional memoir” appare una “Vita nuova” negativa. L’ultimo rilievo sul romanzo michaelsiano è in merito al confronto con “The bell jar”: le sorti della coppia Esther/Joan si ribaltano rispetto a quella Sylvia/Agatha, formando un chiasmo delle parti.


NOTE

1 Due saggi dedicati a Sylvia Plath

2 La sessualità repressa in “1984”

3 Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi