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lunedì 13 febbraio 2012

SULLA FORMAZIONE SCOLASTICA

di DANILO CARUSO

In un passato ormai abbastanza remoto l’accesso dei fanciulli alle istituzioni scolastiche per ricevere un’educazione socioculturale era qualcosa non alla portata di tutti: una grandissima parte di popolazione rimaneva in uno stato di barbarica ignoranza che andava a braccetto con il suo sfruttamento da parte della borghesia latifondista e imprenditoriale.
I poveri ignoranti sono sempre stati vittime di chi ne sapeva di più e di chi conseguentemente gestiva il potere nella società. L’evoluzione dei tempi ha portato all’istruzione obbligatoria fino a un’età via via più elevata.
Questa costrizione fu vissuta talvolta come violenza poiché toglieva forza operativa per il guadagno al nucleo familiare di appartenenza.
Questo aspetto era unicamente indice di altri squilibri sociali, ma non poteva impedire l’affermazione del principio per cui un buon cittadino (allora suddito) dovesse essere qualcuno a cui non mancassero le conoscenze essenziali.
A scuola moltissimi discenti imparavano ciò che non potevano apprendere nell’ambiente familiare, e a seconda delle circostanze anche correttivi valori. La recente modernità ha purtroppo registrato un certo regresso della missione scolastica.
Più volte è stato denunciato il fatto che gli studenti italiani siano mediamente tra i meno preparati rispetto ai loro pari europei e come fra di loro non viga più un senso adeguato di disciplina. Ciò non equivale a fare di tutta l’erba un fascio, però è innegabile quanto alcuni periodici e alcune trasmissioni televisive abbiano fatto emergere.
Il latente senso di disordine che circola nella società sarebbe divenuto il modello da imitare per quella parte di indisciplinati protagonisti di alcuni noti fenomeni.
Costoro hanno difficoltà a imparare un criterio dell’ordine che appunto non distinguerebbero nettamente in giro. I cattivi modelli trovano spazio nelle classi e diversi insegnanti si trovano a dover arginare le realtà dei soggetti socialmente non bene adattati. Il ruolo del docente – maestro o professore (anche universitario) – è giustamente quello di un sacerdote nel tempio del sapere: per insegnare bene ci vuole una vocazione. Insegnare di mala voglia o con l’unico obiettivo dello stipendio non gioverebbe né alla scuola né agli sfortunati discenti.
Molti degli insegnanti sono diventati educatori grazie a quella conveniente passione che li porta a trasmettere il sapere. Ma forse d’altro canto c’è qualcuno cui questo alto compito non interessa, e se ciò si coniugasse con l’indisciplina ne verrebbe fuori un più mesto ritratto di indesiderabili casi.
Gran parte della scuola italiana è indubbiamente sana, tuttavia sui fenomeni che la squalificano si dovrebbe intervenire ancor di più e incisivamente. È stato un bene aver reintrodotto una forma di esami di riparazione, il voto in condotta e il giudizio con il voto numerico decimale laddove non c’era.
Attraverso le brecce costituite dall’elasticità precedente poteva passare ciò che non doveva passare se non prima meritevole.
Non è di buon auspicio che ragazzi non completamente formati vengano ammessi, non per causa loro, ai successivi gradi scolastici inopportunamente perché saranno i cittadini e i professionisti di domani.
Certo quasi tutti i professionisti sono qualificati, però per quanto ridotta che sia la schiera di chi esercita da semincompetente una professione questo non ne legittima la potenzialmente nociva persistenza.
Da tutte le scuole, e specialmente dall’università, dovrebbe uscire esclusivamente gente preparata. Mettendo da parte il discorso dei professionisti, che cittadini sarebbero anche quelli che hanno ricevuto un’educazione scolastica limitata all’obbligo? È diffusa l’impressione che a scuola non si impari quanto si possa veramente imparare. Dove si studia educazione civica? Quale studente conosce la Costituzione italiana o ha ricevuto nozioni in favore di una sua spontanea e autonoma crescita politica nell’ottica di formazione del cittadino?
Queste domande non sono prive di significato perché quando i maggiorenni votano contribuiscono a dare un indirizzo politico alla società, e che società sarà quella in cui gran parte dei giovani non capisce da chi e in quale maniera si farà governare? Neanche la presunta “morte delle ideologie” ha aiutato la gioventù contemporanea. Quella del ’68 era fortemente politicizzata, ma aveva delle idee in materia. Nella scuola dell’obbligo dovrebbe apprendersi a capire la politica e imparare la storia d’Italia nel Novecento per non essere indifferenti al mondo in cui si vive.
Sconoscere la storia della propria nazione e il modo di funzionamento delle sue istituzioni è gravissima mancanza ovunque. John Stuart Mill, uno dei teorici più autorevoli del liberalismo nell’Ottocento, parlò di tirannia della maggioranza del popolo non qualificata a scegliere politicamente, e propose per rimediarvi di dare facoltà di esprimere singolarmente più voti ai soggetti istruiti in politica.
Ai nostri giorni, con tanto di riguardo, parrebbe il caso di ribaltare quel ragionamento di Stuart Mill, e dire che piuttosto di dare ad alcuni la possibilità di esprimere per esempio 3-4 voti individualmente è meglio fornire a ognuno l’istruzione di base necessaria che rende eguali in un regime democratico e mantenere il principio di un voto a persona.
La scuola italiana non deve certamente ritornare all’epoca della bacchetta, ciò nonostante deve avere vie chiare: il giusto ordine, migliore selezione. Essa ha motivi di prestigio nella sua tradizione: le adozioni della bandiera dell’Unione europea e del tricolore in ogni aula (come similmente negli USA con la loro bandiera) e di un’uniforme ufficiale per gli studenti (come in Giappone) non sarebbero provvedimenti di vuota esteriorità ma simboli di uno status. Tra l’altro la questione dell’abbigliamento scolastico è pure problema di sostanza di cui ogni tanto si parla: l’uniforme taglierebbe la testa al toro.
Il lodevole obiettivo di conseguire “un pezzo di carta” rischia di provocare come effetto collaterale un livellamento culturale verso il basso a causa dell’ipotesi che la concessione con manica larga di alcuni titoli non corrisponderebbe nella realtà a quello che presume.
La storia testimonia d’altronde che “un pezzo di carta” da solo non è fondamentale nel creare il sapere. Un esempio canonico italiano: il filosofo e politico Benedetto Croce non era laureato, eppure era lo stesso che influenzò il panorama culturale italiano del secondo dopoguerra. La cultura e la scienza hanno estensioni superiori e a volte non coincidenti con gli edifici di studio.