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giovedì 16 febbraio 2023

SINISTRE PARALLELE

di DANILO CARUSO
 
Questa mia analisi ha un carattere storiografico e filosofico, non pretende di offrire una ricostruzione esauriente, bensì mediante lavori di sintesi degli eventi cerca di consegnare un risultato il quale mi sembra opportuno premettere ai momenti analitici e di riflessione in itinere. Intendo dimostrare, sotto un profilo vichiano, presa in esame la storia italiana novecentesca, e in particolar modo nei periodi seguenti ai due dopoguerra, come ci siano stati un “corso” e un “ricorso” dinamici. Naturalmente la facciata statica degli eventi possiede le sue esclusività cronologiche, tuttavia nell’operazione analitica che a breve illustrerò ho recuperato le linee profonde che mi consentono quest’azione di sovrapposizione formale fra il secondo e il primo dopoguerra in Italia. Ritengo metodologicamente il caso di parlare prima del secondo dopoguerra e di indicare successivamente la sua sovrapposizione al primo, però mantenendosi in controluce onde vedere per mezzo di questi raggi luminosi (concettuali) i quali attraversano tali due piani storici resi traslucidi (diacronia) le cose in comune (sincronia vichiana). Appunto ho rilevato simile parallelismo, evocato in apertura in maniera teorica, fra le vicende della dialettica nazionale borghesia/sinistra dopo il 1918 e dopo il 1945. A me sono apparsi un “corso” e un “ricorso” dove la grande borghesia italiana ha cercato di allontanare da sé il pericolo marxista. E ho notato che sembra esserci stata la medesima strategia perseguita nelle due fasi storiche prese in esame, tant’è che ho parlato di “sinistre parallele”. L’apparato borghese italiano industriale e latifondista, per due volte, da quanto si mostra a me nella veste di analista scientifico, nel corso del ’900 pare aver perseguito il tentativo di dividere il vario fronte delle sinistre allo scopo di portare alleato nel suo campo lo schieramento avversario più disponibile ai compromessi pragmatici e dunque meno intransigente nella ricerca di concretizzare i propri obiettivi ideologici di partenza. Cosicché è la Storia alla fine a mostrarci un reale cammino di progressiva emarginazione della sinistra radicale dallo scenario politico-istituzionale. E ciò si è svolto in due fasi fotocopia (primo dopoguerra e secondo dopoguerra), nelle quali la più recente ha contemplato la seconda sostanziale scomparsa dei marxisti dalle aule parlamentari italiane. Il mio presente lavoro d’analisi vuol sottolineare alcuni particolari aspetti storici, collegandoli inter se, al fine di raggiungere la nitidezza vichiana, ottenibile in conclusione, ma premessa in questa introduzione per un obiettivo di migliore comprensione di quanto mi sono prefisso di illuminare. Mi sembra che i fatti parlino secondo le direzioni analitiche accennate, e che io non sia andato fuori del seminato ipotizzando un filo vichiano nel sovrapporre due archi cronologici consecutivi, uno sull’altro. Partiamo allora col delineare il primo blocco cronologico. Le elezioni parlamentari italiane del ’48 si erano svolte in un clima di forte ostilità, proveniente dalla Chiesa e dagli USA, verso le sinistre, unificate in un cartello elettorale (comunisti e socialisti). La vittoria elettorale della Democrazia cristiana filoamericana portò quindi poi l’Italia in seno alla NATO (1949) e negli embrionali progetti di formazione dell’UE nell’immediato dopoguerra. Il capitalismo occidentale era riuscito a creare un argine antimarxista saldo in tutta l’area d’influenza nordatlantica. E all’interno di questo spazio l’imprenditoria italiana seppe produrre il famoso boom economico che portò il Paese, in virtù della sua laboriosità e della sua intraprendenza, fra le prime potenze economiche mondiali. Il consolidamento del capitalismo in Italia avvenne non senza criticità. Il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, tre mesi dopo le lezioni del 1948 rimase vittima incolume di un attentato da parte di un soggetto solitario. Questa la versione ufficiale. C’è da pensare che quel gesto avrebbe potuto comportare un’insurrezione rossa e la possibile conseguente messa fuorilegge del Partito comunista. All’epoca del Terzo reich i comunisti furono espulsi dal Parlamento tedesco, e i nazisti diventarono maggioranza assoluta. La strage di Portella delle ginestre, avvenuta il primo maggio 1947, su cui gravano ombre, aveva a suo tempo e a suo modo indicato il cammino dentro il quale l’Italia stava andando a immettersi. La scissione del sindacato unitario nazionale dei lavoratori italiani nel 1950, con la nascita della cattolica CISL e della moderata di sinistra UIL, testimoniano ancora una volta come de facto si andasse svolgendo un processo d’indebolimento della sinistra italiana comunista. D’altro canto la DC al suo interno aveva una sorta di troncone integralistico religioso nel quale furono riciclati soggetti che plaudirono alle antisemite leggi razziali fasciste, una specie di area filo franchista la quale in Parlamento presentò una interrogazione alla Camera dei deputati circa la immoralità nella diffusione del romanzo “Lolita” di Nabokov in un anno in cui la Chiesa non aveva ancora abolito l’Indice dei libri proibiti (1966). Nonostante il boom economico, la società italiana sottostava a un clima di controllo sociale alquanto reazionario. Nel corso dei decenni si andrà affievolendo, e saranno introdotte leggi di “sinistra” come quelle sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Leggi che superarono referendum abrogativi sostenuti da MSI e DC. È sui generis la storia del Movimento sociale italiano, eredità del fascismo e della RSI. Soprattutto in relazione a quest’ultima1 sarebbe dovuto essere un partito di sinistra non marxista, però in Parlamento andò a sedere a destra in antitesi ai “fratelli” comunisti e socialisti. Il recupero di posizioni da fascismo di anni ’20 e ’30 lo trasformò, a mio avviso, in direzione involutiva, verso una destra vera e propria di stampo conservatore. Quello che è rimasto di autenticamente fascista è stato definito con un ossimoro “destra sociale”. L’appiattimento sul capitalismo occidentale comportò posizioni critiche interne. L’esperienza socioeconomica fascista, fra le cose positive del regime (ad esempio ricordata da uno scrittore di valore quale Antonio Pennacchi), la quale certamente non cancella altre cose molto negative, non è stata recuperata, ma anzi scartata a vantaggio del sistema liberista. Non dimentichiamo che il perno dell’economia italiana, prima dell’ultima guerra mondiale e dopo (per lungo tempo), fu l’IRI, una creatura fascista (assieme all’IMI: tutt’oggi la Germania ha un istituto pubblico di credito del genere, mentre l’Italia non più). I missini nel ’49 furono contrari all’entrata italiana nella Nato, tuttavia nel ’52, dopo un non facile travaglio, diventarono ufficialmente atlantisti. Se si pensa poi che i monarchici confluiranno nel Movimento sociale (AN aveva al suo interno Azione monarchica), si nota un’evoluzione di posizioni contraddittorie: i repubblichini di Salò cantavano «a morte la casa Savoia». Il fronte filocapitalistico occidentale nel secondo dopoguerra aveva ottenuto quanti più punti d’appoggio nel panorama politico in Italia. La crescita economica del Paese però non era così gradita poiché diminuiva i benefici stranieri dominanti sui mercati. In questo quadro si inserisce l’operato del presidente dell’ENI, il democristiano Enrico Mattei, perito nel 1962 in circostanze rimaste poco chiare. Nel 1963 con Aldo Moro venne formato il primo governo italiano di centrosinistra, dove i socialisti di Nenni accettarono la bontà della NATO. Tale Svolta che apriva ad alleanze organiche fra DC e PSI presenta complesse sfaccettature. La prima, più machiavellica, dà come risultato l’allontanamento dei socialisti dai comunisti, e ricaccia indietro lo spauracchio di governi PCI-PSI. Rappresenta ciò il dettaglio più vistoso e più radicale nei presumibili auspici del capitalismo occidentale. Non tutti gli industriali italiani capirono e valutarono bene la cosa subito. Infatti, d’altro canto, bisognava oramai fare qualcosa di “sinistra” al governo, e i socialisti, tra l’altro, chiesero l’erogazione dell’energia elettrica posta sotto tutela di un servizio pubblico. La nazionalizzazione prodottasi con l’ENEL (1962) è oggigiorno andata in fumo assieme ai suoi vantaggi per le masse. Durante il centrosinistra di governo fu varato lo Statuto dei lavoratori (1970), poi ammorbidito dal Job act del Governo Renzi che ha reso più flessibili, e quindi meno difficili, i licenziamenti. La paura borghese in Italia che il Partito comunista si potesse avvicinare al governo grazie all’idealistica visione cristiana della sinistra interna della DC, promosse due falliti colpi di Stato (nel ’64 e nel ’70). Il fatto che praticamente non fossero andati in porto indicherebbe iniziative “all’italiana” senza ipotizzabili speciali benedizioni dall’esterno, dove la divisione della sinistra (divide PCI et PSI, et impera) sarebbe potuta essere stata la soluzione gradita meglio. Dall’attentato di Piazza Fontana a Milano (1969) a quello di Bologna (1980) pare essersi attuata una strategia della tensione volta a costruire le condizioni emotive propizie all’accettazione di un regime governativo “forte” di sicurezza nazionale. Altrove, come in Cile, Argentina e Grecia, negli anni Sessanta e Settanta, golpes militari abbatterono governi democratici socialpopolari. Durante la seconda metà degli anni ’70, naufragato il centrosinistra governativo italiano sotto il peso delle sue contraddizioni, il Partito comunista ebbe in Italia una fiammata elettorale che sembrava proiettarlo al primato politico e dunque a una possibile prospettiva di guida del Paese. Con il segretario Enrico Berlinguer il PCI assumeva in quegli anni una posizione di distacco del nostro Paese dall’URSS, e parimenti abbandonava il proprio precedente rifiuto dell’inserimento italiano nell’Organizzazione del trattato nordatlantico e nelle strutture comunitarie europee. Simile svolta sui generis dei comunisti italiani – l’eurocomunismo – ottenne varie non indifferenti adesioni di dirigenze comuniste in Europa. Le pesanti ingerenze sovietiche dei vicini decenni precedenti in Ungheria e Cecoslovacchia avevano lasciato i loro strascichi. Da tale idea di autonomia da Mosca, sulla falsariga jugoslava, venne fuori la proposta di Berlinguer di un “compromesso storico” in Italia, ossia la coalizione tra schieramenti socialprogressisti la quale recuperasse a beneficio del progetto l’appoggio di cattolici non conservatori e del PSI in direzione di una grande stagione innovatrice. L’intenzione non sortì unanimi entusiasmi né ebbe grande successo in termini di consenso elettorale. Dopo le elezioni politiche italiane del ’76 un governo monocolore della DC guidava il Paese grazie all’appoggio esterno di altri partiti, fra cui il PCI. Nel ’77 i comunisti di Berlinguer chiesero di partecipare direttamente al governo, ma la dirigenza democristiana e gli Usa si opposero. In mezzo alle difficoltà politiche di allora emerse un nuovo monocolore (di nuovo guidato da Giulio Andreotti) con esplicita maggioranza parlamentare costituita da democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti e comunisti. La marcia verso un più pieno ingresso comunista nel governo aveva un qualificato sostenitore in Aldo Moro, la cui tragica morte nel 1978 rappresenta una vicenda rimasta non molto chiara nella storia della Repubblica. Frutto di quegli anni Settanta carichi di spinte anelanti a una migliore giustizia sociale, in aggiunta al divorzio, all’aborto e allo Statuto dei lavoratori, fu nel 1978 il gratuito e universale servizio sanitario assistenziale statale (SSN) che correggeva la parzialità della “cassa mutua” prevista con la Legge Mariotti del 1968 e basata su un criterio assicurativo a pagamento. Nel ’79 i comunisti interruppero la loro organica collaborazione governativa ritornando all’opposizione. Iniziò allora, fra delusioni, una lenta agonia del PCI, culminata con la caduta del Muro di Berlino (1989), cui fece subito seguito la svolta della Bolognina proclamata dal segretario Achille Occhetto che annunziò il cammino di trasformazione del PCI nel venturo sostitutivo Partito democratico della sinistra. L’aggettivo/sostantivo “comunista” parve essere caduto in disgrazia, e il crollo dell’URSS accelerò il processo di metamorfosi. Il Partito comunista fu dunque sciolto nel 1991. Da tale operazione politica sorse il già detto PDS e, per dissenso e in contrasto, il Partito della rifondazione comunista. Prima che tramontasse la stagione della cosiddetta Prima repubblica, e si passasse alla legge elettorale maggioritaria (con quota di un quarto di proporzionale), il governo tecnico di Azeglio Ciampi insediatosi nel 1993 aveva contemplato al suo interno tre ministri del PDS (Visco, Barbera e Luigi Berlinguer). La loro partecipazione piena al governo terminò subito con impreviste dimissioni in segno di disapprovazione perché la Camera dei deputati aveva respinto quattro autorizzazioni a procedere su sei richieste dalla magistratura a carico di Bettino Craxi. Il primo vero tentativo di esperire il “compromesso storico” auspicato da Enrico Berlinguer durò quasi niente. Nel 1998-2000 il post-comunista dei DS (Democratici di sinistra, ulteriore evoluzione del PDS) Massimo D’Alema fu Presidente del consiglio dei ministri (vicepresidente Sergio Mattarella), governi sostenuti dal Partito dei comunisti italiani creato dopo una scissione dal PRC passato all’opposizione durante il primo governo Prodi. Nel secondo di quei governi D’Alema era stato incaricato quale sottosegretario alla difesa l’ex missino e fuoruscito da Alleanza nazionale Romano Misserville, il quale fu costretto a dimettersi subito per via di polemiche generate dalle sue simpatia fasciste e per aver paragonato D’Alema ad Almirante. La storia dei due ricordati governi Andreotti ebbe una sorta di vichiano ricorso ravvicinato con i due governi di Romano Prodi appoggiati dal PRC (1996-98 e 2006-8). Nel 2007 i DS si fusero con la centrista formazione politica della Margherita al fine di costituire il Partito democratico. Alle elezioni politiche italiane del 2008 la scelta del segretario del PD Walter Veltroni di non allearsi per le elezioni coi comunisti di Fausto Bertinotti (presidente uscente della Camera dei deputati) causò, in virtù del meccanismo elettorale l’uscita, perdurante, di un considerevole schieramento di esplicito e tradizionale richiamo marxista dal Parlamento italiano. Da quel momento a sinistra del PD soltanto alcuni piccoli partiti, non paragonabili al vecchio PCI, ai suoi consensi elettorali, e soprattutto alla sua impronta ideologica. L’era dei prodiani avvenuti, in un modo o nell’altro, determinanti “compromessi storici” (finché durarono) è scomparsa per l’assenza di un partito comunista di peso alle elezioni politiche. Prima della svolta di Occhetto uno su tre votava nel dopoguerra il PCI al Parlamento. Ai nostri giorni il consenso elettorale marxista si è enormemente ridotto. L’estromissione dei comunisti post-sovietici dalle aule di Camera e Senato è stata pressoché totale. Terminata questa prima sintesi possiamo passare alla seconda cui la suddetta è da sovrapporre al fine di ritrovare le analogie che ho indicato in partenza d’analisi. La Rivoluzione russa e la nascita dell’Unione sovietica nel 1917-18 rappresentano degli eventi chiave per la comprensione del primo dopoguerra italiano. L’avvento del fascismo al potere in forme via via graduali e sempre più esclusive all’inizio degli anni Venti, a mio avviso, non può essere classificata come un sintomo consequenziale di una crisi istituzionale del sistema liberale ereditato dal periodo post-unitario. Dal mio punto di vista si può parlare di una evoluzione tattica liberal-borghese mirante all’autoconservazione della classe sociale dominante degli industriali e dei latifondisti. A costoro era chiaro l’obiettivo di evitare una rivoluzione armata marxista pure in Italia. E perciò giocarono la migliore carta del momento, cioè quella di dividere lo sfaccettato schieramento delle forze politiche di sinistra allo scopo di contrapporre il segmento più propenso a compromessi coi borghesi ai rivoluzionari filocomunisti russi, i quali, con un’esperienza di avvenuto socialismo reale, costituivano davvero un terrificante per loro problema di tenuta sociale e politica. Non è stato il fascismo a conquistare il potere, è stato il sistema liberal-borghese a compiere l’unica mossa per sé intelligente, e a sacrificare, come direbbe Sun Tzu, assediato dal “pericolo rosso”, una parte del proprio potere a vantaggio di una sinistra non marxista, la quale era disposta alla collaborazione col vecchio apparato liberale, che i marxisti, rimasti coerenti, avrebbero invece voluto abbattere sulla falsariga russa rivoluzionaria. Non ci voleva gran che a sbarazzarsi dei fascisti. Il punto della questione era impedire che questi facessero fronte unito e unico coi marxisti. La borghesia italiana giocò il più classico dei machiavellismi: divide et impera. Certamente perse una fetta non indifferente di potere, ma restò in vita, tutelata entro quei nuovi strategici limiti. Le politiche sociali del fascismo furono dei realizzati progetti di “sinistra”. Se da un lato poterono rappresentare delle conquiste proletarie superiori al passato prefascista, dall’altro non lesero più di tanto i borghesi, i quali invece si ritrovarono una massa più acquietata e non sensibile ai richiami rivoluzionari marxisti. Il fascismo italiano fu un’esperienza politica governativa sui generis e irripetibile. Da un canto costituì un freno reazionario borghese alle “spinte rosse”, tuttavia da un altro – sempre in termini di politica sociale ed economica – rappresentò un progresso apprezzabile. Il fascismo è stato polimorfo. Ha messo in atto anche cose molto deprecabili quali le leggi razziali antisemite, l’entrata in guerra accanto alla Germania (con le sue nefaste conseguenze), l’invasione dell’Abissinia, lo squadrismo e – io aggiungerei tra l’altro – i Patti lateranensi. Avere resuscitato il Cattolicesimo a una riconosciuta e rinnovata dimensione politica statale, per me, è stato un grave errore mondiale2. Il fascismo perseguendo una linea anticomunista (in funzione della quale fu celebrato in Occidente a suo tempo) sbagliò pressoché tutta la politica estera. Se c’era una cosa che si doveva conservare del sistema liberal-borghese era la marcata separazione fra religione e politica. Aver riconsegnato alla Chiesa la dignità di Stato costituisce un errore sotto tutti i profili i cui effetti perdurano tutt’oggi. Non dimentichiamo che il Vaticano non intralciò le leggi razziali contro gli Ebrei in Italia, e quando il governo Badoglio le abolì ne chiese addirittura un mantenimento di alcune parti. A causa della misoginia cattolica Mussolini evitò di allargare il suffragio politico nazionale alle donne. Il fascismo, in quanto coagulo anticomunista, conteneva diverse anime: quella di destra evidente dei nazionalisti confluiti, quella dannunziana fiumana progressista, quella monarchica liberale massonica, quella dei post-marxisti (come Mussolini, Bombacci, e altri), e infine quella tardiva cattolica. In parole povere era come un dado. Ma la costruzione del “dado fascista” aveva una storia ordinata cronologicamente, ed ebbe la sua ultima faccia nella RSI. Alle elezioni politiche svoltesi nel ’19 un terzo dei deputati era andato al Partito socialista e un quinto al Partito popolare: il campanello d’allarme era suonato molto forte per l’apparato borghese, pressato a sinistra dai marxisti e a destra dai cattolici. Il problema principale però proveniva da sinistra, dove una magmatica area contemplava uno spazio rivoluzionario filosovietico di cui facevano parte Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, poi fra i fondatori, assieme a Nicola Bombacci, del PCI nel 1921. Gramsci in quegli anni dirigeva un suo periodico, l’“Ordine nuovo”, su cui promuoveva l’avvento di uno Stato comunista in Italia sul modello russo. Sosteneva ante litteram una sorta di “compromesso storico” antiliberale. Contestualmente a simili aspirazioni nello schieramento di sinistra marxista, fu dalla piccola borghesia che emerse una proposta diversa, sì non di richiamo fortemente proletario ma neanche di evidente derivazione altoborghese. I “Fasci di combattimento” costituitisi nel ’19 e guidati dall’ex socialista Benito Mussolini si prefiggevano in origine dei precisi punti programmatici in direzione di un migliore equilibrio sociale: colpire i redditi provenienti dal grande capitale e le proprietà religiose, tutelare i lavoratori attraverso un limite orario alle prestazioni d’opera e all’introduzione di salari minimi, garantire l’inserimento operaio negli organi di gestione industriale (quest’ultimo aspetto – la socializzazione delle imprese –  connotò la sansepolcrista Repubblica di Salò). I liberali provarono a formare nel 1919-21 dei governi assieme ai socialisti, una specie di “grande coalizione”, cosa cui il PSI rimase sordo altresì in occasione dell’arrivo mussoliniano. A tal riguardo è da rammentare l’indeterminatezza in quell’epoca di Pietro Nenni, più in là vicepresidente del primo governo di centrosinistra repubblicano presieduto dal democristiano Aldo Moro. Nenni fu in origine repubblicano, e, al pari del socialista Mussolini, interventista. Nel ’19 aderì brevemente al fascismo divenendo pure lui antimassimalista. Quando il 15 aprile 1919 la sede dell’“Avanti” fu assaltata e devastata da estremisti nazionalfascisti, Nenni espresse un plauso. Nel corso delle divergenze tra socialisti e comunisti, Nenni divenuto socialista sarà successivamente definito con astio un Mussolini in miniatura. Togliatti non mostrò in era fascista simpatie per Nenni, il quale in effetti nel dopoguerra assieme a Moro diede una grande spallata all’ideale di sinistra unitaria. Che fosse giunto a fare il Ministro degli esteri nel primo governo di Mariano Rumor la dice lunga sulla sua collocazione ideologica nazionale e internazionale. L’azione politica gramsciana nel primo dopoguerra in virtù, tra l’altro, dei destabilizzanti effetti ricercati, spinse la grande borghesia, delusa dall’azione di contenimento liberale governativo, a ripiegare sui fascisti. Industriali e latifondisti sostennero pertanto le famose “squadre” contro i marxisti e i loro seguaci proletari. Il progetto di usare un pezzo di sinistra non marxista da anteporre ai filorivoluzionari era entrato all’opera con lo stesso uso della violenza previsto da un contesto di sovvertimento non pacifico quale quello avuto luogo in Russia poco prima. L’uccisione della famiglia dello Zar era un fattaccio vivo nella memoria monarchco-borghese, assieme agli altri fenomeni di violenza rivoluzionaria. Lo “squadrismo fascista” agì, in maniera ingiustificabile e ovviamente da condannare, in modo omogeneo e in funzione preventiva filoborghese. Lo squadrismo pregovernativo diffuse terrore e violenza antimarxista su ampia scala, fatti nella loro qualità (non estensione) riallacciabili in linea concettuale poi a eventi quali la strage di Portella delle ginestre e l’attentato a Togliatti. Nel primo dopoguerra l’ordine istituzionale monarchico-borghese lasciò il “lavoro sporco” all’“opportunismo fascista”. Il PNF nato nel ’21 abbandonò la esplicita precedente vocazione ideologica di sinistra: era sorto il partito fascista dalle diverse contraddittorie anime. Pure la Chiesa, oltre a tutto l’Occidente russofobo, finì per benedire il “fascismo monarchico”. La frantumazione del PSI in tre tronconi autonomi (comunisti di Gramsci e Togliatti, vecchi socialisti tradizionalisti di Nenni, socialisti riformisti di Matteotti) completò un quadro in parte spontaneo e in parte ricercato di globale “divide et impera” esercitato sulla sinistra dai liberal-borghesi. Alle elezioni politiche italiane del ’21 liberali, nazionalisti e fascisti si presentarono alleati e uniti nel “Blocco nazionale”. Le tensioni e lo scontro sociale provenienti dalla dicotomia borghesia/proletariato continuarono nel frattempo a crescere, il che promosse il boom fascista dei consensi antimarxisti. Alla fine del ’22 i fascisti consapevoli della loro reale forza politica idearono quella che in effetti risultò una messa in scena: la Marcia su Roma. Il re Vittorio Emanuele III non firmò il decreto proclamante lo stato d’assedio emanato dal governo del liberale Luigi Facta (il quale Facta voterà di lì a breve la fiducia parlamentare al governo Mussolini). Il re quindi, nella cui persona, a norma statutaria, risiedeva il potere esecutivo e di nomina del Capo del governo, diede l’incarico di Presidente del consiglio dei ministri a Benito Mussolini. Avrebbe potuto legittimamente potuto revocargli la nomina in qualsiasi momento prima del luglio del ’43, quando per giunta un Mussolini appena dimessosi fu arrestato e in seguito liberati dai Tedeschi. Giunto a questo punto dell’analisi in merito al secondo segmento storico esaminato eviterò di essere ripetitivo ricalcando cose che ho detto altrove parlando del fascismo. Rinvio perciò il lettore ad altri miei scritti riguardanti la dimensione di sinistra del fascismo3. Essendo ormai arrivati al tratto conclusivo del percorso argomentativo tengo qui a evidenziare altri contenuti. Il ’900 italiano rappresenta un pezzo di storia europea e mondiale in cui il faro ideologico dominante è stato costituito dagli USA. Il capitalismo americano in seguito alle due guerre mondiali (le quali io considero una unica “peloponnesiaca” contesa intestina capitalistica) che hanno visto uno scontro di fondo tra Americani e Tedeschi (la cui rilevanza Jack London aveva intuito in principio del secolo XIX) ha indicato la via a tutto l’Occidente. E tale via è sempre stata di rifiuto e di chiusura nei confronti del marxismo. L’Italia ha fatto parte di simile schema. Dal punto di vista statunitense lo sbaglio epocale del fascismo fu quello di allearsi coi Tedeschi, desiderosi di rivalsa dopo la sconfitta nella Grande guerra. Come non dimenticare le grandiosi celebrazioni negli USA degli aviatori fascisti in occasione della seconda crociera atlantica di Italo Balbo nel 1933? Il fascismo ha sfidato il capitalismo americano dopo Pearl Harbour e ha perso la guerra. È finita così quella sui generis coabitazione tra borghesi italiani e vocazioni di sinistra del fascismo durata in Italia per un ventennio. Nonostante tutti i danni causati e i tragici errori compiuti è difficile non riconoscere all’azione fascista nel settore socioeconomico una vocazione di sinistra (pensiamo ad esempio ancora alle osservazioni di Antonio Pennacchi). Io credo che al di là di simile specifica e circoscritta esperienza fascista nel campo dell’economia, in virtù dello Stato etico, non ci sia stato nient’altro nella storia italiana così poderosamente, e concretamente, di sinistra (non trascuriamo che Lenin aveva ammirato il socialista Mussolini). L’IMI e l’IRI sopravvissero alla caduta del fascismo lungamente, smantellati da politiche liberiste. Secondo me, non è iperbolico ritenere che il fascismo sociale monarchico e infine quello sansepolcrista repubblicano di Salò abbiano contribuito a creare dei precedenti in favore di una presa di coscienza popolare, i cui germi autenticamente socialisti siano sopravvissuti e trasmigrati idealmente nella base del più grande partito comunista dell’Occidente, che è stato il PCI. Il regime fascista non pose in subalternità ideologica la massa del popolo nei riguardi di un primato d’azione imprenditoriale liberista. La guerra partigiana del 1943-45 fu la nemesi marxista sopra l’epoca dello squadrismo degli anni Venti. Penso che la suddetta consapevolezza di poter attuare in Italia politiche socioeconomiche di vera sinistra sia alla base dell’attivismo comunista post-bellico. Altrove non avevano la diretta percezione di una apprezzabile fattibilità avvenuta. Comunque sia la mia personale idea sul tema centrale della dialettica liberalborghesi/socialcomunisti è la seguente, e ragiono da simpatizzante del giustizialismo peronista4. La proprietà privata se priva una parte dell’umanità e della società del diritto alla partecipazione a condizioni di benessere di base, di cui garante la comunità statale, si mostra indubitabilmente nella veste di nocumento a degli esseri umani. Pare proprio che sostenere in astratto un diritto universale senza tener conto degli effetti collaterali concreti non sia saggio: saggezza sta nel dare a seconda dei casi in base a bisogni e meriti. L’esclusivo, altresì pratico, primato di questi ultimi entra in conflitto con il sistema costitutivo statale, un consorzio della razionalità: si rivela irrazionale ammettere che l’insieme dei cittadini sia vincolato in previsione positiva di notevoli sperequazioni, anche a livello internazionale. Infatti, chi reclama una minore presenza dello Stato, proclama il desiderio di giocare la partita senz’arbitro. L’eccesso di accumulazione della ricchezza in poche mani, non pubbliche, rappresenta qualcosa da evitare affinché non ci siano in assoluto sacche di povertà nel mondo. Se è ragionevole prevedere dei tetti all’arricchimento individuale, è compito dell’apparato statale, super partes, tradurre nella realtà concreta tale principio di giustizia sociale, non meno importante di quello della libertà. Qualsiasi abilità imprenditoriale non può vantare il diritto a tramutarsi in vampiro a scapito di tutti. Nel momento in cui la proprietà privata sottrae indebitamente spazi di benessere a una più equilibrata distribuzione sembra doveroso intervenire: liberté, ma anche égalité e fraternité. Il principio di solidarietà sociale, alla radice della fondazione dello Stato, merita dal canto suo una più efficace applicazione legislativa.




NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
 
1 Per un iniziale approfondimento sulla Repubblica sociale italiana indico un mio studio: L’utopia della RSI contenuto nella mia monografia La morte delle ideologie (2011).
 
2 Sia pur brevemente, è doveroso dare un mio accenno di spiegazione a simile affermazione. Una considerevole parte delle mie indagini scientifiche si è concentrata sulla storia e sulla letteratura cristiano-cattoliche. Ho raccolto svariati elementi che mi inducono a giudicare largamente negativi l’azione e il pensiero della Chiesa nella società. Indico qui appresso alcuni miei lavori, che mi sembrano significativi in funzione di eventuale approfondimento, dove argomento con chiarezza e profondità obiettive: Parricidio dantesco (2021), Teologia analitica (2020), L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017), Il Medioevo futuro di George Orwell (2015). Dentro all’altra mia opera intitolata Letture critiche (2019), Il machiavellico disegno della “follia” erasmiana.




 
3 In aggiunta a quello già menzionato nella nota precedente: La democrazia corporativa, sempre contenuto nella pubblicazione là ricordata; Mussolini, il fascismo e la borghesia, quest’altro invece presente nel mio saggio Note di critica (2017).

 
4 Per approfondire il peronismo suggerisco dei miei studi al’interno della mia monografia indicata nella nota 1: Il giustizialismo peronista e La Fondazione “Eva Perón”.

mercoledì 1 febbraio 2023

LE IMPLICAZIONI FILOSOFICO-POLITICHE DEL MIO SCHEMA PSICANALITICO

di DANILO CARUSO
 
In un mio precedente scritto avevo introdotto ed esposto la mia teoria sui tipi psicologici ponente la bipartizione fra “tipi freudiani” e “tipi junghiani”1. La distinzione da me operata ha posto l’accento sul grado di libido individuale maturata dal soggetto, sicché i due sistemi analitici di Freud e Jung, sebbene alternativi, non entrassero in contrasto estensivo, bensì avessero un’opportunità di coesistenza a seconda dello psicanalizzato. Le due forme libidiche descritte da questi due autori, secondo me, non sono assolute, ma caratterizzano due gradi (fase naturale e fase culturale, in Jung): uno più basso freudiano e uno più nobile junghiano. Simili modalità esistenziali coabitano inter homines, e l’obiettivo sarebbe raggiungere una maturità culturale junghiana, staccandosi dal livello freudiano più vicino al bestiale. Questo stadio di partenza può rimanere dominante nella vita. Predomina in tal caso la dimensione pulsionale animale nella ricerca del soddisfacimento degli appetiti corporei. In un soggetto del genere l’uso della razionalità non è adeguato allo status di “essere umano”, ed esso rimane limitato a funzioni essenziali volte al mantenimento del proprio posto nel consorzio sociale. La psicologia comportamentista, a mio avviso, si calibra sul gradino più basso psichico-libidico, e mi pare che qui la strategia sia quella di un ammaestramento di una scimmia evoluta. La mia partizione degli antropomorfi dotati di linguaggio articolato, costruita sulla base della constatazione della maturità della libido, la quale ha purtroppo comportato una sorta di aristotelica dicotomia discriminante “animale/razionale”, dove tutto si gioca su una gamma intensiva a proporzionalità inversa, ha intravisto un’occasione di migliore approfondimento nel pensiero di Thomas Hobbes. Una cosa che non ho ancora ben legata alla mia teoria distintiva tra “freudiani” e “junghiani” è il quoziente intellettivo, il quale nel primo tipo, secondo me, è perlopiù inferiore rispetto al secondo. I soggetti “junghiani” possiedono una padronanza del logos aristotelico nel senso vero e proprio, contrariamente a chi ha una testa letteralmente vuota e vive, gettato per caso nel mondo, non interessandosi (seriamente) della sfera umanistico-scientifica. La società capitalistica predilige individui facilmente plasmabili, imbottiti delle più varie distrazioni e stupidità, gente da ammaestrare, come chiarito da Marcuse, senza particolare fatica ricorrendo agli strumenti mediatici e a piccole gratificazioni. Ho ritrovato simile categoria di persone nella riflessione filosofia hobbesiana, la quale si contrappone a quella sociopolitica aristotelica: il che fa pendant con la mia dicotomia “freudiani/junghiani”. Thomas Hobbes ha confusamente rilevato gli effetti di una libido freudiana sopra l’agire umano che nella sua visione rimarrebbe condizionato da meccaniche sensistiche. In parole povere si è arenato alla superficie dell’introspezione, non avendo avuto la capacità poi di Schopenhauer di cogliere qualcosa che non era sottoponibile a parametri di rigore matematico. Comunque per Hobbes la possibile libertà umana di assentire o dissentire all’input rimane succube di qualcosa di istintuale. Infatti egli definisce «l’uomo un lupo per l’uomo». Prende atto cioè del soggetto “freudiano” con accanto alle sue pulsioni appetitive di base e di soddisfazione corporale le altre pulsioni strumentali miranti alla distruzione esterna. Dall’assenza, che il filosofo inglese generalizza nei confronti di tutti gli antropomorfi umani, di un’aristotelica e pacifica forza ordinatrice (logos), egli postula il radicale, presociale, «bellum omnium contra omnes». Io giudico che abbia fatto di tutta l’erba un fascio. Non credo che tutti siano lupi, reputo che nella costituzione dello Stato ci siano possibilità spontanee, razionali, pienamente “umane”, alla maniera aristotelica: pensiamo al colonialismo greco-antico. Ovviamente inquadro le due vie nell’ottica della mia bipartizione “freudiani/junghiani”, consapevole che un qualsiasi raggruppamento umano è stato sinora misto. Non si è mai storicamente realizzata una società che accorpasse fasce sul criterio della maturità libidica e del quoziente d’intelligenza. Il che è poi in sostanza l’ideale aristocratico della repubblica platonica. Lo Stato è quasi sempre sorto sulla Terra seguendo il modello hobbesiano. A tal riguardo, al fine di inserire con chiarezza la sociologia di Thomas Hobbes nel mio primo gradino psicologico, è il caso di ripercorrere il pensiero hobbesiano pertinente. Il filosofo inglese, come Freud, puntualizza che per gli antropomorfi in questione (al pari di qualsiasi bestia) è centrale l’obiettivo della propria autoconservazione, cercando di evitare ogni situazione di pericolo. Simili due propositi, le due facce di una stessa medaglia, mi hanno fatto pensare alla hegeliana dialettica “signore-servo”. Il tipo freudiano, scoperta la sua inferiorità di fronte a qualche suo pari più temerario, allo scopo di avere salva la vita cede la sovranità al Leviatano, allo Stato hobbesiano il quale si pone al di sopra dei cittadini in una autonomistica concentrazione del potere. Il Leviatano non deve giustificarsi, è uno Stato etico. È esso a stabilire cosa è bene e cosa è male. Quest’altra sfaccettatura mi fa volgere lo sguardo ulteriormente in direzione di Nietzsche e de Sade2. Il Leviatano persegue nella concezione di Hobbes la “forma” del bene, quale sia la concreta sostanza appare relativo. Lo Stato assolutistico hobbesiano per sopravvivere si trasforma in “volontà di potenza”, il metro di se stesso è esso medesimo, non un’etica razionale. Simile Stato tirannico, che Hobbes definisce un Dio (a dimostrazione che non si fonda sulla Ragione, ma sull’aspetto deterrente echeggiato dal paragone col terrificante mostro biblico), sembra un oppressore. In effetti il moderno Stato borghese a economia capitalista ricalca il modello hobbesiano e produce la marcusiana compressione sociale di deboli tipi freudiani, vittime di aver ceduto all’assalto del “padrone”, il quale ha imposto la sua “potente” signoria-di-classe. Chi detiene il potere della forza armata del Leviatano controlla tutto, a cominciare dall’indottrinamento mediatico (a seconda delle ere) sopra le masse. La forza militare fa la differenza (pensiamo al peso attribuito ai difensori nella repubblica platonica). I golpes con più alta probabilità di successo sono opera di generali o colonnelli: come dice Machiavelli i disarmati hanno poche speranze di successo. E anche nella conservazione del potere politico la forza militare mantiene il suo compito strategico centrale. Il Leviatano è perciò il mostro più terrificante. I singoli homines-lupi sono costretti nella quasi totalità a inchinarsi a esso, a condannarsi alla frustrazione di una libido freudiana mortificata e inappagata (principio di realtà). Non ci vuole molto a capire che tale garbuglio è patologico. La arendtiana “banalità del male” emerge dalla frustrazione dei miei tipi freudiani. La germania nazista aveva uno Stato hobbesiano. Con la propaganda di massa ha infine plagiato un popolo. Se i tipi che io definisco “freudiani” costituiscono obiettivamente la parte sociale (associata) vulnerabile, e si convertono di conseguenza in potenziali pericoli nei confronti di autentici stabilità, benessere, progresso, non mi appare esagerato studiare una forma pacifica al fine di disinnescare il problema. Costoro reputo siano i più propensi, tra l’altro, a delinquere, spinti a ciò da brame e appetiti pulsionali (passionali) non banditi da un corretto esercizio della razionalità. Mi pare lecito tutelare la parte migliore e più sana della società. Di fronte a tutta questa problematica, da cui peraltro si evince l’origine delle diffuse moderne comuni nevrosi, ho riflettuto a lungo ponendomi i più gravi dilemmi. Mi ha accompagnato da sempre l’idea dell’uguaglianza universale degli uomini. E nemmeno ora metto in dubbio che tutti gli esseri umani nascano eguali davanti al mondo, e che a tutti debbano essere concesse e garantite pari opportunità di crescita, di sviluppo, di formazione, di inserimento sociale. Tuttavia dopo decenni ho concluso che questa realtà in cui compariamo – per un motivo o per un altro – è la prima a diversificarci e a “discriminarci”. De facto siamo diversi e assortiti. Questa non è un a novità. Il campione del liberalismo, non soltanto inglese, John Stuart Mill propose di dare la facoltà di esprimere numericamente pro capite più voti politici alle persone di migliore qualità intellettiva rispetto al livello di base. Non ha parlato così un principe delle forme antidemocratiche. E a John Stuart Mill intendo proprio riallacciarmi, in una chiave più avanzata e parallela al pensiero scientifico post-ottocentesco. Prenderò in esame il diritto all’elettorato (attivo e passivo), nella fattispecie della nostra Repubblica italiana. A una determinata età da noi si diventa maggiorenni, e quindi si può accedere alla facoltà (a seconda dei casi previsti dalle leggi vigenti) di esprimere “un” voto per pubbliche magistrature popolarmente elettive, e di essere a queste eletti. Cioè si “discrimina” questo riconoscimento di diritti sulla base dell’età in relazione alla quale ogni individuo si ritenga sia diventato affidabile, capace, consapevole, responsabile. Ebbene, sono stato portato a credere che non sia il mito dell’età cronologica a rendere matura e saggia una persona. Sotto il profilo dello sviluppo della personalità, avere superato la soglia della ritenuta “maggiore età” non dice niente. Quanti irresponsabili, poveri di abilità e di conoscenza, adulti ci sono in giro ad esempio a cui si darebbe un’età mentale di otto anni? Daremmo a minorenni, nel corpo di qualcuno più in avanti negli anni la possibilità di indirizzare le sorti della società e dello Stato? A me, sinceramente, non sembra cosa buona e giusta lasciare correre una cosa del genere. John Stuart Mill e Montesquieu hanno parlato del problema della “dittatura della maggioranza” dentro un sistema democratico, che per me è la maggioranza dei “freudiani” all’interno della democrazia borghese, maggioranza sui cui poggia e specula il capitalismo. Chi vota deve “capire”, chi è votato non può essere qualcuno con “basse qualità intellettuali”. Ritorna qua il parametro del “quoziente d’intelligenza”. A chi pensasse inappropriato e superato un recupero delle osservazioni di Mill oggigiorno, giacché la moderna scolarizzazione avrebbe resi tutti eguali e abili, voglio ricordare un articolo del professor Tullio De Mauro, ministro della pubblica istruzione nel secondo governo Amato del 2000-2001, un preciso articolo datato 6-3-2008 e pubblicato sull’“Internazionale” (numero 734), nel quale l’eminente studioso ha evidenziato aspetti che ho sin qui evocato. All’inizio di questo secolo XXI nella fascia di popolazione italiana di anni da 14 a 65 il 5% è analfabeta; circa uno su tre ha le abilità di un bambino che non ha completato la scuola elementare; quattro italiani su cinque in generale non possiedono una qualità intellettiva all’altezza della realtà dove vivono, la quale li supera rimanendo nebulosa e lontana. Sempre nel suo articolo De Mauro ha lamentato che questi molto preoccupanti dati, emergenti da ricerca, non abbiano ricevuto un’adeguata attenzione da parte del mondo politico né tanto meno un’opportuna sottolineatura mediatica. Qual è il succo concreto di quest’interessante e profondo articolo? L’80 %, più o meno, degli Italiani vive in un proprio mondo di fantasia, impastato di arretratezze conoscitiva, culturale, tecnologica. Si può affidare il destino politico del consorzio in cui sono inseriti a costoro, cioè a persone che non capiscono le dinamiche politiche concrete attuali? Al cospetto di tale quesito propongo di sostituire il criterio dell’età cronologica con quello dell’età mentale effettiva (connesso all’espressione verificata di abilità cognitive e analitiche consone al potere di elettorato attivo e passivo). Questa periodica procedura si può realmente definire: esame di maturità. Al di sotto di un certo QI, secondo me, non si dovrebbe poter accedere alla possibilità di fare “cose complesse” superiori alle proprie attuali capacità, cose inerenti specialmente al bene pubblico e comune. Ovviamente c’è la speranza di migliorarsi, e si potrebbe verificare ogni 5/10 anni il QI individuale per attribuire il diritto di voto. Non penso di aver detto un’assurdità, o qualcosa di inattuabile. Periodicamente si fa il censimento popolare: si faccia il censimento intellettivo. La facoltà universitaria di medicina è a numero chiuso: si faccia similmente del diritto di voto e della politica una “facoltà a numero chiuso” a cui accedere dopo apposito accurato esame. Giudico che la salute dello Stato non sia meno importante della salute biologica. Reputo che se si facesse prezioso tesoro dello spunto offerto dal liberale John Stuart Mill la società potrebbe migliorare. L’ideale rimane che le istituzioni scolastiche e familiari possano essere realmente in grado di formare “persone” e “cittadini” proiettati al grado junghiano della personalità e artefici di un mondo equilibrato in tutti i profili. La meta di “un pezzo di carta” ancorato a una “mira di guadagno”, studiando poco, riflettendo poco, capendo poco del mondo (presente, passato e venturo) non genera gran che di positivo. Una società malata è destinata a crollare su se stessa in balia di sciacalli e avvoltoi di turno. In verità sono conscio che quando propongo di dividere la gente in α­+ (eccellenti) e α (normali) da un lato e β (deficitari) dall’altro possa io apparire distopico o in modo involontario sinistramente evocativo. Ho cercato di evitare queste fuorvianti non volute impressioni, mirando unicamente ad avanzare un’“idea”. Indubbiamente se ci fosse più “pensiero” in giro non ci sarebbe bisogno di idee come questa mia. La mia preoccupazione in relazione al futuro dell’umanità è per l’appunto quella che il mondo possa cadere in una spirale distopica, di cui ho sviluppato un modello storico degenerativo ipotetico3. Per il momento non mi sembra esagerato e fuor di luogo che “minorenne” debba essere considerato chi abbia un quoziente d’intelligenza inferiore al minimo richiesto, e “maggiorenne” (con i diritti della maggiore età) chi stia al di sopra della soglia. La Grecia classica ha trattato assurdamente le donne davanti allo Stato da perpetue minorenni. Di fronte a una tale assurda discriminazione di genere, lenta a scrostarsi, durata nella storia in varie forme, mi permetto di indicare il parametro che a mio modesto avviso è quello che realmente conta: il possesso di base di un “logos” efficiente (e dunque non deficiente) il quale connota il ζῷον πολιτικόν / ζῷον λόγον ἔχων. E simile tipo a me pare, nel mio modello sociopsichico, appartenere in primis agli “junghiani”. Una volta ho definito l’insieme di questi: comunità logica. Se qualcuno pensasse “illiberale” il mio progetto, rammento che nell’Italia “liberal-borghese” post-unitaria ebbero diritto di voto della popolazione 2 su 100 nel 1861-82, 7 su 100 nel 1882-1912, 1 su 4/5 nel 1912-23. Altresì voglio ricordare che il suffragio universale maschile giolittiano partiva dai 30 anni, riducibili a 21 con almeno una delle seguenti condizioni: 1) possesso della licenza elementare, 2) svolgimento del servizio militare, 3) pagamento annuo al fisco regio non inferiore a L 19,80. Nel 1912 il pane costava 38 c. al kg, l’imposta unica sui redditi era dell’8%, un bambino su cinque moriva entro i 5 anni; il proletariato, netta maggioranza popolare, in pratica era estromesso dalla politica. Oggigiorno, dopo il suffragio universale per età cronologica post-bellico (nel 1950 uno su otto degli Italiani era analfabeta), esiste il fenomeno dell’alto tasso dell’astensionismo che coinvolge un elettore su tre, idest un partito italiano fantasma sul 30%. Ciò non rappresenta motivo di encomio della democrazia borghese, la quale silenziosamente ha riacquistato un quid di quell’Italia unitaria liberale prefascista. Esistono ora moltissime persone che non sono motivate a recarsi alle urne: costituisce questo un enorme fallimento sociale non solo educativo. Davanti al quale non è facile replicare, dal mio punto di vista, che distopico, illiberale e antidemocratico sia il mio sistema proposto di suffragio universale per QI, nel momento in cui la realtà concreta si riveste già di tratti negativi significativi. La mia impressione è che nelle democrazie borghesi la politica sia per vari tratti una roba marcia connotata da affarismo e interessi personali (causa prossima), e che la causa remota di tutto quanto sia il far votare un elettorato non interamente qualificato sopra il quale germogliano e crescono rigogliosi i più pesanti problemi, per la cui soluzione, dunque alla radice, ho avanzato una “soluzione platonica”. Io ho riflettuto nel merito allo scopo di miglioramento, e non certo di peggioramento. Ho il dubbio che se per far studiare la gente ci vuole un “obbligo” (il che è un concetto agli antipodi di qualcosa compiuto “liberamente”, “spontaneamente”) forse l’errore stia a monte: non esistono gli obblighi di mangiare o bere. Aristotele direbbe che lo studio nutre l’anima razionale, e non quella vegetativa. Ma il logos è raggiungibile solo dalla prima. Potremmo lasciare liberi tutti quelli che non vogliono studiare ed esercitare il logos di vivere la loro vita come vogliono. Sarebbero in fin dei conti filosofi “cinici”. Con la conseguenza però che costoro finirebbero nel mio gruppo β disconnesso dall’esercizio delle prerogative politiche (nella polis ci vuole il logos: no logos, no polis). Umano è colui che indaga il mondo circostante, i bambini sono filosofi naturali, un peccato sprecare simile predisposizione dentro una società che vanifica le cose serie a beneficio di un’estetica del vuoto divertissement. Allorché tale coltura del niente svanirà non ci sarà più bisogno, secondo me, di dividere la massa in α e β: ci sarà un livello di base interamente di α senza più β. È stato Antonio Gramsci a richiamare in passato l’importanza degli studi umanistico-scientifici a vantaggio della classe proletaria, giacché questi costituiscono, tra l’altro, una palestra per il pensiero. Il quale se non si cimenta con i limiti alti dell’attività mentale non produrrà atleti all’altezza di una società che vuole essere giusta, sana ed equilibrata. Chi possiede scarse qualità di analisi e di sintesi, congiunte a una bassa acculturazione, cadrà sempre in balia di persuasori i quali non sempre sono limpidi e onesti. Tullio De Mauro nel suo articolo ricordato ci ha segnalato una grave lacuna contemporanea nell’adeguatezza intellettuale. Io ho legato tutti i fili della mia analisi nel modo migliore possibile, nella maniera più ordinata volta a rintracciare un’alternativa allo status quo problematico. Mi sono reso conto che la mia bipartizione fra “tipi freudiani” e “tipi junghiani”, introdotta da me in termini psicanalitici, è tutto sommato già operante nella repubblica platonica laddove il grande filosofo ateniese separa i filosofi-governanti e i difensori dalla terza categoria degli operatori produttivi materiali. Platone aveva già compreso quanto io ho spiegato sopra, e che cioè chi è ancorato alle “passioni freudiane” rappresenta un fattore di squilibrio se inserito nel contesto amministrativo della res publica. Al celebre allievo di Socrate non è sfuggita una superiore valenza della libido, la quale lui ha illustrato nel “Simposio”, un dialogo a cui io a tal riguardo ho dedicato un mio precedente studio mostrando le analogie del caso tra il pensiero platonico inerente all’eros e lo sviluppo della libido nella psicologia analitica di Jung4. Platone ha dunque posto quelli che io definisco “tipi junghiani” nelle prime due classi della sua repubblica, concentrando i “freudiani” nella terza. Prima della nascita della moderna psicanalisi non era possibile un ragionamento politico platonico chiarito alla mia maniera psicanalitica. Le conseguenze della mia impostazione investigativa e costruttiva si rivelano molto ricche poiché ci forniscono il modo di capire altresì perché il comunismo storico marxista è fallito nel Novecento. Puntualizzo che, da peronista giustizialista, sono favorevole a una abolizione della grande proprietà privata personale, lasciando solo il possesso esistenziale (il frommiano “avere esistenziale”) di quanto sia essenziale (come ad esempio la casa e quanto ci sta dentro). Sono quindi più vicino a Proudhon che non a Marx nel merito. Detto ciò, proseguo dicendo che il socialismo reale non ha avuto il successo che Marx e i suoi seguaci si aspettavano per il fatto di non avere attuato la mia separazione proposta tra α e β. Nell’amministrazione statale sono stati messi “tipi freudiani” i quali hanno necessariamente fatto naufragare l’esperienza marxista storica. Se in quella classe dirigente comunista si fossero trovati perlopiù “tipi junghiani” le cose ovunque, a mio avviso, sarebbero andate meglio. E ciò è quanto Platone ci aveva fatto intuire nella sua filosofia politica allorché creava categorie di matrice attitudinale. Simile inconveniente, trascurato nell’attuazione del socialismo reale, è stato poi evidenziato dall’idealista Trockij. Una burocrazia, che io definirei “freudiana”, ha preso il potere pratico, interponendosi nell’andare verso la direzione dei più sinceri ideali marxisti di giustizia sociale e di benessere universale. Ovunque permane, nello Stato liberal-borghese o nello Stato socialista marxista, un istintuale latente «bellum omnium contra omnes» nelle menti dei dirigenti non c’è pertanto il trionfo dell’illuministico ideale di liberté égalité fraternité. Nella fattispecie marxista la dittatura del proletariato è stata appunto la via erronea, quella che ha portato i “freudiani” al potere, creando la criticata “tirannia della maggioranza” (Mill e Montesquieu). Tant’è che Lenin ha dovuto correggere un po’ la prospettiva di approccio al potere sostenendo che la borghesia più illuminata avrebbe dovuto collaborare coi comunisti. Lenin aveva intuito qualcosa di platonico, purtroppo è morto precocemente nel 1924 a 53 anni, e non sapremo mai se la sua URSS sarebbe stata migliore di quella di Stalin. Avviandomi alla conclusione della mia analisi voglio fugare due possibili critiche ad hoc. Mi si potrebbe far osservare che io abbia elaborato un modello pseudoscientifico di suprematismo intellettualistico. Il che, nel mio caso, non sarebbe vero. È attualmente scientifica la procedura sanitario-giuridica che verifica le capacità di intendere e di volere di una persona verificandone in pratica l’efficienza intellettiva. Una cosa del genere non è assurda né tanto meno una novità, sarebbe semmai approfonditamente e periodicamente rivolta a tutti, sempre nell’ambito medico consolidato. Non si tratterebbe di qualcosa di razzistico-spiritualistico, ma di una selezione seria e obiettiva rivolta a creare condizioni di miglioramento sociale e non mirante a generare una nuova forma di razzismo. Non è razzistica la distinzione maggiorenni/minorenni, cambierebbe solo il criterio di individuazione: al posto dell’età cronologica il QI. Fugata questa possibile osservazione ne voglio prendere in esame un’altra che parimenti non si è celata alla mia attenzione. Non voglio assolutamente proporre una specie di nuova “lotta di classe”: α contro β. Ho sempre parlato in termini di ricerca di armonia sociale senza voler proporre contrapposizioni. Mi basti ricordare il simbolo del Partido justicialista argentino dove due mani sono strette inter se a indicare collaborazione e non antagonismo. La società allo scopo di crescere e di approdare verso lidi migliori ha bisogno di una pacifica dialettica di idee, da cui emerga quella che appare più utile al bene collettivo integrale. Non abbisogna di scontri di alcuna sorta e di competizioni nelle gare per la vuota esteriorità. Sicuro di quanto ho appena affermato, intendo infine superare dimostrato il vaglio di costituzionalità della mia idea allorché questa si configura in proposta legislativa. Il mio ragionamento non è sovversivo dell’ordine costituito, di cui anzi sono altamente rispettoso. Si tratta di una “riforma”, non di una “rivoluzione”. Partiamo dall’art. 48 della Costituzione italiana: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. […] Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». Procediamo adesso per gradi, incominciando dalla «maggiore età». Io non ho intenzione di sostituire il concetto indicato con saggezza dalla carta costituzionale, poiché appunto è quello giusto. Propongo, mantenendone la forma, di sostituire il criterio della “maggiore età cronologica” con quello della “maggiore età effettiva mentale (QI)”: la Costituzione resterebbe inalterata in quanto si andrebbe ad agire con legge a parte statuente la maggiore età in guisa diversa rispetto a ora. La non assurdità giuridico-costituzionale del mio procedere è ulteriormente ben dimostrata quando ad hoc si proclama: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile». Idest propter impotentiam utendi ratione. È infatti ciò di cui ho parlato io nella mia analisi. In Italia sino alla Legge 13 maggio 1978 n. 180 i soggetti dichiarati mentalmente inabili dal Giudice civile erano privati del diritto di voto. È esistito un dispositivo di legge che imitava il mio disegno. Si tratterebbe di recuperarlo e adeguarlo all’occorrenza da me disegnata. La Costituzione parla pure di esclusione dal voto per «casi di indegnità morale indicati dalla legge». E anche qui è possibile trovare una sponda utile. Chi, volontariamente, e non dunque per cause esterne alla propria volontà (quali ad esempio patologie mediche o disagi), rimanesse in uno stadio mentale arretrato in relazione all’età cronologica in atto per pigrizia negli studi e disinteresse verso il bene comunitario potrebbe essere imputato di questa «indegnità morale» testé evocata. L’art. 48 parla chiaramente, basta soltanto capire cosa ci vuol dire e cosa ci può dire con esattezza. Gli artt. 2-3 della nostra carta costituzionale restano centrali e fondamentali, nonché di sprone: «Art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. / Art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. […]». A tal riguardo è il caso che io faccia delle puntualizzazioni esplicative nella mia ottica. I β over 18 andrebbero equiparati in giudizio agli α a causa della loro accidia. Per i β non ci sarebbe un “carcere minorile” o una particolare “giurisprudenza minorile”. Gli under 18 rimarrebbero “minorenni” per convenzione naturale, chi entra negli α ci rimarrebbe a tempo indeterminato senza nuovi periodici esami (a meno dei casi di incapacità già previsti dalle leggi vigenti che dispongono l’adozione di un tutore). Il computo dell’età degli α, ai fini delle leggi già esistenti, rimarrebbe anche quello tradizionale cronologico (per cui non ci sarebbe nessuno sconvolgimento pratico). Tutti i β over 18 avrebbero un tutore, al pari delle donne nell’antica Grecia. L’art. 2 della Costituzione dove afferma i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» offre un’altra sponda di sostegno alla mia argomentazione. I β risulterebbero responsabili per via della loro voluta inadeguatezza intellettiva di “inadempimento di quei doveri”: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». L’art. 51, parimenti a quelli 2 e 3, resta un faro prezioso inalterato: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. […]». Tutte le mie parole non intendono sovvertire, ma riformare. Ho ragionato in maniera nitida cercando di sondare tutti gli angoli al fine di stare saldamente ancorato nell’alveo della legalità e del buonsenso. Ho dimostrato la ragionevolezza della mia argomentazione in vario modo. Il mio obiettivo analitico è stato quello di fornire uno spunto mirato a migliorare il sistema democratico. La Storia ci ammonisce severamente. Assemblee parlamentari elette a suffragio popolare possono legittimare governi autoritari e antidemocratici. Possono consegnare il potere a governi in grado di instaurare dittature di breve o lunga durata. Dittature le quali possono prendere in ostaggio politico i parlamenti elettivi, nella quale circostanza si rivelano composti da opportunisti e curatori di interessi ridotti e parziali. Viceversa assemblee parlamentari in larga maggioranza sane non aprono le porte a prospettive dannose e illiberali. Da dove simili nefasti regimi? Da elettori squalificati, secondo me. Qualificando l’elettorato attivo, sarà più qualificato qualsiasi parlamento. Un parlamento di superiore selezione nella guisa da me illustrata dovrebbe essere un argine più robusto alle maree speculative e affaristiche. Per quanto mi è dato capire tutto il problema ha la sua radice nel “livello freudiano”. Da simile impostazione la mia soluzione platonica che ricerca il Bene. Il XXI secolo dimostra ulteriormente in virtù della mobilità globale di idee e persone che il vecchio concetto di “razza” sia qualcosa di reazionario, e che radicarsi nelle differenze equivalga a chiudersi al futuro. Esiste de facto una sola razza umana, la cui unica differenza interna deriva dal grado di avvalersi del pensiero razionale. La barriera che può separare proviene dunque dall’incapacità di acquisire conoscenze obiettive delle dinamiche storiche e dello sviluppo degli eventi attuali. L’idea classica e conservatrice di “Patria” appare superata dagli effetti della mobilità globale, e supportarla di contenuti religiosi si rivela un irrazionale progetto di conservazione pseudoculturale, soprattutto quando questi contenuti si rivelano frutti di tempi arretrati nella civiltà. Cultura è apertura all’apprendimento da cui consegue crescita: l’isolamento mentale proviene da nevrosi (o malafede) e conduce a nevrosi, nonché è strumento possibile di condizionamento di soggetti ignoranti. La storia insegna che disegnare confini nazionali costituisce un’operazione accidentale, così come la filosofia mostra che ritagliare limiti mentali si rivela deleterio. La vita è movimento, chiudersi in sepolcri imbiancati non sembra ragionevole. L’obiettivo rimane la pacifica coesistenza globale nel benessere, e le chiusure producono attriti e ostacoli nel processo di  armonizzazione generale. Nessuno migliorerà con lo spirito di contrapposizione militante (nazionale e/o religioso). Nel ’900 i capitalismi nazionalistici produssero un grandissimo conflitto mondiale (1914-1945) combattuto in più fasi (sulla falsariga della guerra del Peloponneso). Sfumare i confini (per abolirli del tutto) diminuisce le tensioni: l’amalgama verso il meglio e l’incontro creano stabilità. A chiusura di tutto questo scritto invito a leggerne un altro, sempre mio, pertinente, dedicato al “Discours sur la servitude volontaire” di Étienne de La Boétie, una analisi che rappresenta più la torta di questa ciliegina, che non la ciliegina su questa torta5.



NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
 
1 Si veda nella mia monografia Filosofie sadiche (2021) la parte intitolata L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard:
 
2 Per approfondimenti indico il mio saggio citato nella precedente nota:
 
3 Vedasi nota 1.