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mercoledì 18 dicembre 2019

RAGIONAMENTO FILOSOFICO-GIURIDICO SOPRA LE ADOZIONI GAY

di DANILO CARUSO

È giusto, conforme a un principio di diritto razionale (naturale), consentire alle coppie gay la facoltà di ottenere “maternità surrogate” o semplici adozioni di “figli”? Dal mio canto etero ritengo che l’orientamento sessuale non debba mai comportare motivo di discriminazione, e che a persone ritenute dalla Legge maggiorenni sia lecito accoppiarsi in maniera libera nel rispetto della sanità del partner. Non giudico l’omosessualità né un reato (giurisprudenza laica) né un peccato (morale religiosa), però reputo che “matrimonio (stricto sensu semantico-concettuale)” sia quello alla base della “famiglia biologica”. Una “unione omosessuale” non ha la potenza (possibilità) procreativa naturale, e pur parificando questo legame nei diritti/doveri dei “congiunti” a quello (cosa che non respingo, ma auspico), ritengo che nel seno di una ufficiale unione omosex non possa entrare in forma organica un minore (da qualsiasi provenienza) in quanto il modello biologico non lo indica ammissibile. Una coppia omosessuale rispetta un “modello spirituale” (lecito) e non quello biologico ricordato, perciò i due non si possono sovrapporre riguardo al dettaglio dell’inserimento di figli: tale facoltà è “naturalmente” prerogativa di una coppia uomo/donna. Tutti gli artifici medici (e non) che coinvolgono terzi in maternità surrogate mi appaiono non rispettosi di un chiaro meccanismo “naturale”. Nel mio pensiero vincolo anche l’adozione di minori abbandonati alla famiglia biologica, non escludendo tuttavia l’ipotesi di affidamenti di minorenni a coppie di gay congiunti, nel tentativo di togliere quelli dalla precarietà in cui possano persistere, ma a condizione che la crescita ne sia monitorata sino all’eventuale maggiore età. Parlo di matrimonio nella sua veste di istituto soprattutto pedagogico in relazione alle figure genitoriali, le quali si presentano in Natura nelle forme fisiche del vir e della femina. Ciò che può sembrare discriminazione non rappresenta altro che una semplice constatazione della realtà: i figli nascono solo dal concorso (diretto o mediato) di tali suddetti poli. La coppia biologica è il modello progettuale naturale, ideale: con ciò senza sminuire le coppie omosessuali. Esiste una differenza ontologica fra i due schemi: dall’eterosessualità possono nascere i figli (physei), dall’omosessualità invece no (me physei). L’omosessualità è parà physin. Se l’ordine di Natura impedisce ai gay di procreare, credo che si debba prendere atto in modo semplice che tutto quanto sia ingresso di minori, in termini di maternità, in una coppia omosex non trovi un appoggio concettuale. Ho distinto un generico affidamento a carico di chiunque (il quale non equiparo a maternità). È vero che ci possono essere casi di coppie etero che non possono o non vogliono avere figli, tuttavia il modello genitoriale vir/femina permane nella sua costante validità. Nel matrimonio i coniugi sono liberi di tenere congressi carnali per puro piacere senza scopo procreativo, ma hanno normalmente pro tempore la potenza procreativa e sempre la validità di modello pedagogico naturale. In parole povere, non negando che una coppia omosessuale sia benissimo in grado di crescere e educare un bambino nella sua evoluzione, reputo che costui si troverebbe meglio a vedere davanti a sé la forma genitoriale canonica. E discuto da un punto di vista psicologico, io sono di orientamento junghiano. Con termini filosofici sopra, presi da Platone1, ho chiarito la distinzione, che non è discriminazione, di piani differenti, i quali, scaturiti da una riflessione razionale, producono risvolti giurisprudenziali, che ritengo obiettivi. Non li ho pilotati io, li ho solo seguiti: per me ciò che opera su livelli ontologicamente diversi non potrebbe essere commisto. La domanda non è: che cosa impedisce ai gay di tenere dei figli (in qualsiasi modo)? Ma: quale ragionamento universalmente valido dà la facoltà, da riconoscere sul versante giuridico, agli omosessuali di avere con sé dei bambini nella veste di figli? Distinguo la circostanza dell’affidamento, come detto, e prescindo da presunte buonissime intenzioni. Sottolineo soltanto che la Natura concede i figli allo schema femina/vir, al di fuori di esso mi è concettualmente, razionalmente, impossibile avvalorare come lecito un parallelismo in un altro campo. Ai miei occhi la questione è ontologica, con i relativi effetti in ambito pedagogico e giurisprudenziale. Ci sono due piani, uno spirituale e uno biologico. Eros e amicizia fanno parte del primo: dunque nessuna preclusione al costituirsi di unioni gay, parificate anche al matrimonio. Ma procreare è un fenomeno biologico: se non c’è un’accoppiata di fattori maschile e femminile non nasce nessuno. A mio avviso la dimensione spirituale gay, la quale nel campo delle sue proprietà non possiede una possibilità procreativa, non può invadere il piano biologico (per il semplice fatto che la Natura non l’ha previsto). Sottolineo questa dicotomia spirituale/biologico del mio ragionare, e mi fermo davanti ai meccanismi naturali. Può avere figli, adottati o surrogati, solo quello schema legittimato dalla Natura. La parità fra etero e omosessuali in ambito di unioni riguarda solo il piano affettivo, spirituale: per il resto la differenza biologica costituisce un elemento di forte dissonanza. Pretendere di avere dei figli da parte dei gay mi pare ragionamento in sé contraddittorio, equivalente al chiedere qualcosa senza possederne requisiti. Non sempre è lecito tutto ciò che piace, si potrebbe dire. Quanto dico scaturisce dall’osservazione dell’ordine fisiologico di Natura. Non ho per niente simpatia per le posizioni omofobiche, che ho sempre criticato, però non seguire una coerenza di analisi razionale non mi pare opportuno.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche

1 Per interessanti approfondimenti del mio punto di vista invito a leggere il seguente studio:

domenica 1 dicembre 2019

CRISTIANESIMO E VERITÀ IN SIMONE WEIL

di DANILO CARUSO

Simone Weil (1909-1943) è la dimostrazione del fatto che il Cristianesimo sia una costruzione pseudosincretistica neopagana. Nel suo pensiero ella manifesta in modo molto chiaro questo dettaglio della “nuova religione”, la quale non fa altro che recuperare categorie concettuali e filosofiche greche mediate attraverso l’Ebraismo alessandrino alla volta dell’edificazione di un credo che però in termini sociologici e psicologici fa un passo indietro rispetto al cosiddetto Paganesimo ufficiale. In questo non sono esistiti i problemi di deviazione nevrotica vissuti dal Cristianesimo nei suoi quindici secoli di auge: intolleranza religiosa e pretesa di esclusività (con la materiale e ideale distruzione degli avversari); misoginia cronica (sino al punto di inventare la categoria radicale della “strega”); violenza esercitata su coloro che sono stati intravisti quali nemici (barbare torture e cruente esecuzioni sono state attuate a scapito di streghe, eretici, non cristiani, omosessuali). Se si confrontano Paganesimo e Cristianesimo seriamente emerge che il primo era espressione di una società più liberale: la Grecia antica ha creato il modello democratico (non ha patrocinato qualcosa di paragonabile allo schema teocratico cristiano); la misoginia greca al confronto di quella giudeocristiana sembra qualcosa di più lieve nella sua incidenza comportamentale (c’erano sacerdotesse pagane: un’istituzione aberrante per i cristiani); il mondo culturale antico grecoromano pagano non creò mai dal suo interno l’equivalenza femminile=demoniaco. Nel pensiero teologico weiliano possiamo notare un tentativo di riedizione ideale del Cristianesimo, rivissuto da una donna nei termini più autentici mancati alla storia di esso. L’universalismo religioso della Weil rappresenta quell’ambizione fallita alla fine dell’Impero romano di dare un collante sociale rigenerativo: la decadenza della più grande costruzione politica dell’antichità europea necessitò di un rimedio il quale purtroppo nella sua concretizzazione ne accelerò il crollo. Il Medioevo inizia con l’Editto di Costantino, e dall’Editto di Teodosio in poi l’Europa piombò in una società orwelliana in stile “1984”. L’avere eretto un castello teologico, peraltro saccheggiando la filosofia greca, non è bastato ai cristiani per dare una facciata accettabile a quello che de facto è stato un “totalitarismo cristiano” ovunque questa religione abbia messo e consolidato radici. La Weil non ha mancato di sottolineare simile aspetto nell’esperienza storica della Chiesa. L’antisemitismo, così come lo conosciamo oggi, ha avuto una genesi religiosa cristiana, ed è finito per generalizzarsi in forma, per così dire, laica pseudorazionalizzata. Ai cristiani sono addebitabili crimini contro l’umanità: l’insieme degli punti negativi sopra delineati nelle loro attuazioni pratiche. La distruzione di tutte le civiltà precolombiane, la cristianizzazione forzata e violenta del Nuovo Mondo costituiscono temi di riflessione. Se Simone Weil non ebbe un rapporto idilliaco con la Chiesa c’è un motivo evidente: che proprio una donna “incarnasse” la nemesi di secoli poco evangelici nei fatti era una situazione inaccettabile. La pensatrice francese ha vissuto sopra la sua persona il travaglio di tutte quelle contraddizioni nell’auspicio di portarle a soluzione positiva. È morta, di tubercolosi aggravata da anoressia, vivendo una “passione” come le sante anoressiche di moda in un periodo del passato. Viene bandita dai manuali di storia della filosofia quasi fosse una pietra di scandalo, quando invece dal suo pensiero scaturisce un giudizio storiografico inappellabile e severo a carico del Cristianesimo nella più ampia parte di questo. Simone Weil è stata, forse, l’unica che possa definirsi “cristiana”, una donna che ha compiuto una scelta di fede profonda, ma portandola alle estreme conseguenze. Sino al punto di smascherare la radice di provenienza di tutto l’apparato ideologico cristiano: nient’altro che neopaganesimo. E ciò non è motivo di stupore all’occhio dello storico privo di una distorcente lente di fede. Nel Cristianesimo parlano, con voce manipolata, schemi concettuali presi dalla Grecità, a cui si è dato un abito stretto e fastidioso. La filosofa francese nella sua sincera visione ha preteso di vedere in tale fenomeno la preesistenza di elementi cristiani, però la verità storica è il contrario, corrispondente alla dinamica su evocata. Il Cristianesimo ideale weiliano, un po’ cupo, pessimistico, porta dentro di sé un rifiuto del mondo. Reca quella percezione di decadenza mondana dell’Impero romano nei suoi ultimi tempi. Come allora, nell’animo della Weil rivive la crisi dello spirito che attraversa alcune epoche storiche. Il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali, capitalistiche manifestazioni di una intestina e unica lotta (paragonabile alla Guerra del Peloponneso nella forma). Simone Weil ha colto il disagio di un animo genuino di fronte all’affermarsi del dominio del capitalismo su scala pressoché globale: non è stata comunque l’unica ad avvertire il problema, il tema del predominio della tecnica sull’autenticità umana è un esempio connesso dibattuto da varia filosofia. Ella prima rispose alla chiamata spirituale libertaria con un’adesione all’anarchismo, cioè proprio liberazione-da-un-dominio. Poi si volse in direzione più mistica, alla volta di un Cristianesimo rigenerato dai suoi deficit ideologici e storici. E nel far questo ella attuò una versione ideale della “nuova fede” di antica memoria. Lei riprende mattoni greci idealizzandoli in forma cristiana: è una grande madre del Cristianesimo. Si può dire che faccia una rifondazione teologica, e ciò è lampante segnale non solo della crisi a lei contemporanea nel mondo, ma anche del fallimento storico-ideologico del Cristianesimo ufficiale nella sua plurisecolare vita. Non si può di certo additare lo Stato pontificio quale modello evangelico o di Regno di Dio in terra. E se non persiste qualcosa di positivo proprio là, non si può addurre la scusante degli errori umani. Tutti sbagliano: non è accettabile sostenere che alcuni lo facciano in buona fede e altri in mala fede, soprattutto nel momento in cui questi ultimi non godono dell’assistenza divina. Allora i crimini contro l’umanità del Cristianesimo sarebbero peggiori se compiuti contro la volontà di Dio; e se alcuni reclamano misericordia si nota poi d’altro canto la difficoltà a essere comprensivi altresì con i secondi (meritevoli di analogo riguardo). Perché l’antisemitismo cristiano che ha provocato persecuzioni e vittime dovrebbe essere ascritto a “errore umano”, e l’antisemitismo nazista (di irrazionalistica matrice sociopolitica luterana) dovrebbe invece essere un crimine contro l’umanità? Simone Weil è scomparsa nel 1943, prima che la barbarie dell’Olocausto venisse alla luce, ma lei non si sarebbe arroccata dietro giustificazioni scusanti nel fare paragoni: avrebbe intravisto nei fatti storici di ogni tempo l’obiettività di fondo. Sino all’ultimo Concilio ecumenico cattolico, chiusosi nel 1965, la liturgia del venerdì santo proclamava: Oremus pro perfidis Iudaeis. Vale a dire una manifestazione, se non vogliamo definirla apologia, di antisemitismo a quasi trent’anni dalle Leggi razziali di epoca fascista, che a paragone delle direttive della Chiesa contro gli Ebrei nel corso dei secoli hanno avuto un’applicazione circoscritta nello spazio e nel tempo, e prima della caduta del fascismo non hanno causato vittime (contrariamente alle persecuzioni dei cristiani nei secoli precedenti). In materia di antisemitismo Chiesa e nazismo raramente vengono accostati. La Weil nel dopoguerra, probabilmente, avrebbe affrontato questo problema non soltanto storiografico. Ella fu persona di estremo rigore nella sua indole personale, molto sensibile in generale e nei confronti di quanto accadeva e accadde nel mondo prima di lei. Il peso delle contraddizioni attorno a lei finì per schiacciarla, però ella visse sempre in maniera coerente, senza rifugiarsi in zone di sicurezza create ad hoc dall’umana ipocrisia. Amò gli ideali di solidarietà e fratellanza maturati nell’umanesimo greco antico. Tanto idealistica fu la sua filosofia di vita religiosa che perse il contatto col verso realistico degli eventi. Lei infatti invertì l’ordine storico causa-effetto in qualcos’altro di ideale: le prefigurazioni pagane del Cristianesimo. Indubbiamente una bella operazione concettuale, prova di una mente raffinata nel produrre filosofia. Tuttavia in questa weiliana dicotomia storia/religione risulta non facile stare con obiettività logica (e ciò lascia spazio là alla fede) nel secondo polo. Con metro scientifico, lontano da condizionamenti fideistici, non possiamo fare a meno di notare come nei Vangeli ci sia un recupero, e non l’attuazione ideale di una potenza passata, di immagini e contenuti teologici pregressi. Gesù Cristo è una riproposizione di Osiride. La Maddalena lo vede per prima risorto perché è Iside a ritrovare il marito. La croce cristiana deriva da quella egizia. Il Cristo vi è crocifisso in perizoma giacché di Osiride, ucciso e fatto a pezzi, non si trovò il membrum virile: il perizoma è allusivo. Questo membrum nella mitologia pagana finì in cielo a fare la cometa, quella dei re magi (ma sarebbe meglio dire maghi con chiarezza, senza acrobazie retoriche, poiché erano astrologi). Simone Weil non ha torto sostanziale nei suoi collegamenti teologici diacronici: è stata filosofa, non storica, costruttrice dunque di una prospettiva metafisica che ha contemplato l’inversione logico-storica di causa-effetto. Nessuno può biasimarla per ciò: la strada è quella giusta, lei ha voluto percorrerla in direzione opposta. Qui sta la grandezza di lei: trovare la forza di compiere quel cammino, vedere quella luce che gli altri non vedevano. E dunque grazie a lei riscoprire tutto un mondo antico, occidentale e orientale, che il Cristianesimo totalitario e ufficiale, al contrario del Paganesimo, volle confinare nell’angolo della falsità e della bugiarderia. Riscoprire le radici, soffocate, della civiltà occidentale. Sembra paradossale dirlo, ma a livello di idee, la pensatrice francese pare aver fatto un’azione di proiezione del presente sul passato nello stile di “1984”, derivando la sua escatologia di conseguenza. Storicamente la Chiesa ha preteso proiettarsi in tal guisa sul mondo antico. La Weil è stata soltanto formalmente analoga, in lei albergava una tensione mistica: lei cercava, non imponeva una Verità a ritroso. La Verità di Simone Weil è metafisica, non sociopolitica.


NOTA

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche

lunedì 25 novembre 2019

“SIDDHARTHA” E LA NOLUNTAS HESSIANA

di DANILO CARUSO

Hermann Hesse (1877-1962) è stato uno scrittore molto profondo. I suoi elaborati recano l’impronta di un duro travaglio spirituale, il quale lo condusse a essere un paziente di Carl Gustav Jung (e in precedenza di un seguace di costui). L’irrequietezza fu per lo scrittore una fonte da cui trarre ispirazione nella redazione di romanzi divenuti celeberrimi. “Siddhartha” (uscito nel ’22) è uno dei suoi capolavori letterari che possiede una forte struttura logico-narrativa junghiana1. L’omonimo protagonista vi compie un iter ascrivibile a un sistema concettuale legato alla psicologia analitica oltre che a schemi filosofico-religiosi informanti parallelamente, ma con tono sostanziale subordinato, l’esposizione. In partenza Siddhartha, figlio di un bramino, è una persona dotata di un’indole caratteriale, in termini junghiani, logico-percettiva. Nel testo egli è animato da un desiderio di ricerca razionale rivolto all’Universo, e nell’ambito della cultura indiana che fa da omogenea cornice allo schema junghiano, il giovane vuol raggiungere l’“atman”. Si può paragonare questo all’Io penso kantiano, poiché costituisce il fondamento della coscienza individuale, quel “sé” termine del riferimento della percezione personale. Perciò sta alla base di una rappresentazione del mondo. L’atman sarebbe un elemento posto a subire una trasmigrazione nel ciclo vitale di nascita e morte, una catena di reincarnazioni in relazione alla quale i mistici indiani hanno cercato di trovare una via di fuga. Mosso dal desiderio di raggiungere la liberazione dalle passioni e dalla brama prospettata dal “nirvana”, Siddhartha e il suo fraterno amico Govinda si aggregano a un gruppo di asceti mendicanti nella speranza che le pratiche di rigore da costoro praticate possano insegnare il percorso mirante a sfuggire al principio che regola le rinascite dell’atman (samsara). Il logico-percettivo Siddhartha si rende conto che nonostante tutte le mortificazione del “sé” personale, questo rimane sempre là. A livello di psicanalisi esso è infatti paragonabile al complesso dell’Io. Il protagonista del romanzo, che è un alter ego di Hesse (il quale nel 1911 si recò in India, parimenti al filosofo Pirrone di Elide all’epoca di Alessandro Magno, e assorbì la cultura religiosa indiana), si propone, rimasto deluso dall’esperienza con i samana, di trovare altrimenti la meta della propria ricerca, la quale in parole junghiane è possibile indicare nell’“individuazione”: l’assunzione di un armonico stato dell’Io col mondo, visto come negativo schermo ingannatore dalla religiosità indiana, scenario dell’esistenza (potenzialmente positivo) nella psicologia analitica. Dall’incontro col Buddha, Siddhartha e Govinda traggono lo spunto volto a operare la modificazione della propria personalità. Quest’ultimo personaggio, da logico-percettivo che era come il primo, diventa logico-intuitivo; l’altro si volge invece, nella sua insoddisfazione in sentimentale-percettivo, aprendosi a future esperienze svincolate da preliminari e astratti perimetri di sicurezza dettati perlopiù a priori sui fedeli di una tradizione antimondana. Siddhartha scopre il mondo-della-vita, dove è innestata la sua esistenza, e rileva, in maniera esistenzialistica, una nuova ricchezza, un rapporto positivo, nel legame tra l’Io e il resto dell’esistente, la Natura, l’Universo. Il problema inerente al giudizio della mondanità da etico-ontologico, piuttosto che partire da premesse formali negative, lascia il passo alla concreta esperienza, cosicché in guisa pratica possa maturare una coscienza della realtà fondata sopra la diretta esperienza di essa. Hesse ha privato il suo personaggio principale di una visione pessimistica in stile schopenhaueriano. Siddhartha quindi si dispone con animo meravigliato, con ingenuità, di fronte alla libido (junghiana), la quale alimenta il mondo. Il protagonista hessiano è paragonabile a un Socrate inquadrato dentro un profilo di riflessione esistenzialistica. Hesse nel suo raccontare riprende un motivo filosofico, quello della voce interiore, del dáimon socratico, che è stato tanto caro al pensiero dello junghiano Hillman (fondatore della psicologia archetipica). L’autore del testo sottolinea un significativo aspetto: l’auto-nomia del dáimon. Nel telaio narrativo, costruito con elementi progettuali provenienti dalla psicologia analitica, trova spazio inoltre il richiamo al concetto del Grande Madre, concetto nel quale la Natura, vita sensibile in atto, assume un valore adeguatamente rapportato al vivere umano. Siddhartha, che ha esperito l’eros con Kamala, e i frutti dell’arricchimento grazie all’intraprendenza (dopo essere entrato in contatto col benestante mercante Kamaswami, mediante l’interessamento della prima), giunge nel proprio cammino a un punto di saturazione, dove a causa dell’eccesso nella sua psiche emerge prorompente l’esigenza di una revisione generale. In Siddhartha termina, muore la “fase naturale” della libido (in seguito alla quale ogni vivente che vi perviene riceve la possibilità di condurre un riesame della personale esistenza, rimodulando ed emendando tutti quei modelli mentali che a una rinnovata luce apparissero ormai inopportuni e inefficaci, se non addirittura dannosi). Siddhartha lasciata la sua precedente vita alle spalle, come Dante si smarrisce in una situazione mortale per lo spirito. Purtroppo la vicenda del tentato suicidio del personaggio hessiano rappresenta una eco di quello reale tentato dal creatore del romanzo: Hermann Hesse nel corso della sua giovinezza attraversò momenti di disagio provocati dal suo ambiente familiare originario imbevuto di rigorismo religioso pietista. Siddhartha cerca di suicidarsi gettandosi in un fiume, ma da esso, pentitosi riemerge: è un’immagine molto allegorica, molto diffusa questa del rinascere dall’acqua. La rinascita spirituale proietta il protagonista dell’opera nella junghiana “fase culturale” (seguente quella “naturale”), e altresì lo porta più in avanti nel personale “processo di individuazione”. In questo momento egli muta ulteriormente il suo assetto psichico-caratteriale, il quale da sentimentale-percettivo muta in sentimentale-intuitivo. Siddhartha prende a stare, nella fase conclusiva della sua parabola, in compagnia di un barcaiolo imitandone il mestiere. Vasudeva costituisce al pari del Virgilio dantesco un simbolo della razionalità logica (contigua alla razionalità sentimentale, Beatrice). Quello rappresenta una figura che compare allo scopo di compensare il segmento psichico junghiano “sentimentale” del personaggio hessiano. In aggiunta a Vasudeva, l’immagine del fiume si riqualifica quale metafora della vita universale. In questi tratti del testo il vincitore del Premio Nobel (nel 1946) attua una serie di recuperi concettuali filosofici a proposito delle convinzioni che il suo protagonista assume. La visione del mondo assunta da Siddhartha si colora non solo di connotazioni religiose orientali indiane ma anche di toni eleatici, pirroniani. Nella ricerca della felicità (della liberazione: nirvana) l’Universo in sé non giocherebbe né pro né contro; la totalità dell’Essere sarebbe in modo concettuale inconoscibile e ineffabile, non esisterebbero in generale affermazioni vere che scarterebbero le contrarie false. Agli occhi di Siddhartha esiste possibile solo un mistico cogliere l’autentica atemporalità retrostante al fenomenismo, un’intuizione dell’unità dell’Universo: il linguaggio umano sarebbe figlio di un vuoto nominalismo. Nell’ultima parte del romanzo il protagonista rivede Kamala e si ricongiunge col figlio da lei avuto a sua insaputa. Il processo junghiano di individuazione di Siddhartha perviene al culmine col raggiungimento da parte di lui dell’archetipo del “vecchio saggio”. Questa porzione del prodotto letterario rievoca inoltre uno dei temi classici della psicologia, il quale riguardò da vicino Hesse: lo scontro generazionale. Alla fine dell’opera il suo autore ribadisce e puntualizza varie cose. Il fiume rappresenta la libido junghiana, la vita universale, in cui Siddhartha, aiutato da Vasudeva, che raffigura un virgiliano supporto (simbolo della razionalità, promotore della ricerca dell’ordine interiore), si rispecchia raggiungendo una “noluntas hessiana”. Al contrario di Schopenhauer, Hesse, con Jung, intravede nella libido (=voluntas) una radice positiva dell’esistenza. Trovare il proprio posto in quel meccanismo ridà una consapevolezza interiore psichica che produce la junghiana individuazione: sentirsi armonica parte di un tutto, dentro e fuori di sé. Il creatore del romanzo ribalta idealmente il pensiero schopenhaueriano e i principi religiosi indiani: il mondo non è un illusorio, malevolo contenitore della vita. È il teatro dove ciascuno si trova gettato-a-vivere, e nel quale usufruisce della possibilità di costruire un percorso positivo. Usando in modo adeguato ed equilibrato le facoltà umane, inquadrarsi in un’armonia universale non rimane una chimera. Siddhartha all’ultimo rivede pure Govinda, cui ribadisce che la Verità è l’Essere, e che Tutto è Vita. Nella chiusura del testo il suo autore affronta anche l’argomento del ruolo che l’“ombra” junghiana abbia nell’esistenza. Questo è quello di una catarsi, nell’auspicio migliore di un attraversamento potenziale dell’eccesso e di quanto sia male. Nel quadro junghiano del personaggio creato da Hesse l’ordine portato dalla funzione logica psichica consente uno schietto recupero di quella sentimentale, la quale a questo punto non si sofferma più in maniera pro tempore esclusiva su singole cose ma coglie l’Essere nella sua trasversale dimensione di sottofondo rispetto al fenomenico: l’Essere compenetra tutto il reale, illusorio o sostanziale che sia, e lo rende “amabile” e lo scioglie nella sua unità di base.

L'evoluzione psichica junghiana di Siddhartha


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche

1 Per approfondimenti: