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domenica 25 dicembre 2022

LE PROBLEMATICHE STORIOGRAFICA E PSICOLOGICA IN “FONTAMARA”

di DANILO CARUSO

La mia lettura del romanzo “Fontamara” dell’autore Ignazio Silone (1900-1978) mi prospettò dopo i primi due capitoli un che di aristofanesco (“Le donne all’assemblea”) e un altro quid di manzoniano (“Promessi sposi”). Dopo la lettura del cap. III le mie impressioni manzoniane non scomparvero, anzi trovarono un nuovo spunto. Questo è un capitolo dedicato in particolare al personaggio di Berardo, il quale è concettualmente imparentato con Renzo: entrambi hanno una vocazione agli spropositi e a mettersi in modo ingenuo in cattive acque. C’è poi l’impedito matrimonio con la candida Elvira, trasposizione di Lucia. Compare un sacerdote di paese organico al sistema di potere politico; si noti la paronomasia: Don Abbacchio / Don Abbondio. Non manca neanche la figura-simbolo dell’ingiustizia: il nuovo podestà (eco formale di Don Rodrigo). Appare altresì l’esempio archetipico del “vecchio saggio”: Zompa = Fra Cristoforo. Lo stesso fatto che il romanzo di Silone sia incentrato sugli umili, costituisce altra ulteriore tangenza tematica, al di là di quelle rinvenute nell’architettura dinamica narrativa. Letto il IV cap. di “Fontamara”, mi si pose con maggiore intensità un quesito: perché ridurre la materia descritta al livello del grottesco? La prima metà del romanzo suscita a distanza di molto tempo dalla pubblicazione (1933) simile sensazione, di certo non voluta né prevista da Silone. Il problema è ermeneutico. L’intenzione dell’autore si richiama a un ideale di giustizia universale, oppure il suo è un romanzo politico? Ed eventualmente che nesso esisterebbe tra il condizionamento ideologico e il suddetto effetto? I temi affrontati in “Fontamara” sono molto seri, ed è chiaro che l’apparenza di scene comiche produca una percezione distorta. In quale misura tale aspetto potrebbe rappresentare un limite nella redazione dell’autore? Noi leggiamo “I promessi sposi”, testo ancor più vecchio, senza inciampare in atmosfere da commedia antica degli equivoci. Mi chiedo se Silone sia rimasto vittima di impetuosità intellettuale. Puntualizzo, a scanso di essere frainteso, la mia parziale simpatia per Marx, ma per il Marx destruens (quello critico-analitico), e il mio distacco dal Marx costruens (quello politico-rivoluzionario). In sostanza il dilemma è: Ignazio Silone è critico o politico? Nella seconda metà del romanzo l’ardua sentenza. Il cap. V di “Fontamara” richiede un’attenta e obiettiva valutazione storica. Si descrive uno stupro di gruppo compiuto da militanti fascisti. L’atto, in sé e per sé, è gravissimo, ed è ovvio che sia oggetto della massima condanna (in qualsiasi forma di considerazione o da qualsiasi punto di vista lo si esamini). Non si possono mai assolvere stupratori, qualunque sia la loro veste. Quello che mi ha colpito, nell’ambito letterario dell’opera, è la non probabilità storica dell’accaduto. È l’unico caso di cui so di stupratori fascisti: siamo in Italia dopo i Patti lateranensi (il fascismo si era già affermato e non c’erano più disordini), neanche a proposito dell’epoca dello squadrismo postbellico ho letto notizie simili (e quello sarebbe stato un periodo che avrebbe avuto più credito). L’argomento è delicato, e non nego la possibilità di una realtà in qualche posto dei fatti criminali narrati, tuttavia d’altro verso questi Fontamaresi, alla maniera descritta da Silone, fanno pure la figura di deficienti totali (il che non mi piace, poiché non realistico), unici in Italia, a non saper dire: evviva Mussolini (o il duce). Tale comunità raffigurata non ha tratti sempre obiettivi, e scade spesso nel grottesco. Poi con un improvviso volo pindarico Silone, come sparando un colpo di fucile, introduce la tragica (e comunque spiacevolissima) scena dello stupro. Siano perseguitati e condannati severamente tutti gli stupratori, però collegarli a una categoria politica in simile guisa mi sembra un artificio di pura propaganda politica. Inoltre Silone descrive prima una stranezza poco decente: «In un angolo della piazzetta alcuni ragazzi e bambine giocavano allo sceriffo: lo sceriffo non può andare a piedi, deve andare a cavallo, e a turno ogni bambina faceva da cavallo». È credibile che in una comunità all’antica gli adulti stessero là a guardare, senza intervenire, e mettere nel ruolo di cavalli altri ragazzi? Un interessante documentario della RAI1 parla dell’ambigua e oscura personalità di Ignazio Silone. Costui fu spia della polizia sabauda ancor prima dell’avvento del fascismo, marxista espulso dal PCI, paziente di Jung. “Fontamara” trae la sua origine in un periodo di crisi profonda seguita alla morte del fratello (condannato al confino) a causa di malattia. I contenuti del documentario, condotto da Giovanni Minoli, sono da collegare alle mie analisi pregresse, le quali vi trovano un forte sostegno. Il disagio esistenziale di Ignazio Silone rappresenta la chiave di lettura della sua opera letteraria e della sua personalità. Non mi pare il caso di muovere rimproveri alla sua contraddittoria vita, segnata nella prima metà da pesanti esperienze di famiglia. La scomparsa del fratello, in particolare, fu una detonazione psichica che lo gettò fuori di un contatto ordinato con la realtà. Da comunista e collaboratore della polizia italiana, divenne poi – sempre contemporaneamente – anticomunista e antifascista (e in seguito pure collaboratore della CIA). Beneficato da Don Orione in passato, in “Fontamara” si trovano posizioni alquanto anticlericali. Il testo in questione più che “romanzo storico” mi pare “romanzo psicologico”: l’autore più che fare giustizia per mezzo della letteratura crea le basi letterarie di quello stesso farsi giustizia. È indubbio che i fatti di “Fontamara” costituiscano obiettive possibili gravissime ingiustizie di quell’Italia, tuttavia da è da chiedersi se la produzione di Silone, da “Fontamara” in poi, avrebbe avuto luogo senza quegli spiacevolissimi vissuti di gioventù. Lo scrittore finì in cura da Jung; la cosa sembra essere giovata nel progresso di un suo recupero dalla personale crisi. Un recupero che purtroppo non fu mai completo: la mancanza di un orizzonte di risanamento ideale si nota sempre nelle sue parole. Silone rappresenta quindi uno scrittore da comprendere comunque nella sua soggettività, e da giudicare in relazione a connotazioni biografiche e storiche obiettive: in tale maniera potremmo apprezzare il suo anelito di giustizia davanti ai soprusi e alle violenze. Forse, in fondo al suo animo giaceva un triste “cupio dissolvi”, la porta al cui accesso egli ha lasciato un po’ socchiusa al lettore che avesse voluto sino in fondo inoltrarsi nelle radici narrative della sua opera. Alla conclusione della lettura di “Fontamara”, non potei fare a meno di notare nuove anomalie in quel tessuto narrativo, il quale pur rimanendo possibile, assume tratti surrealistici e anche contraddittori. Silone racconta: «I militi erano venuti a Fontamara e avevano oltraggiato varie donne; questa era stata una prepotenza odiosa, però in sé assai comprensibile. Ma l’avevano fatta in nome della legge e alla presenza d’un commissario di polizia, e questo non era comprensibile. […] I cosiddetti fascisti, a varie riprese, come si udiva raccontare, avevano bastonato, ferito e anche ucciso persone contro le quali la giustizia non aveva nulla da dire e solo perché davano noia all’Impresario, e questo poteva anche sembrare naturale. Ma i feritori e gli assassini erano stati premiati dalle autorità, e questo era inspiegabile». Cosa c’è di comprensibile in uno stupro? Rimango sconcertato di fronte a un simile ragionamento prospettato nella prima metà del brano. Che di fatto poi fosse accaduto quanto descritto in tale sezione, con le modalità esposte nel romanzo, pare improbabile: gli squadristi furono violenti come i rivoluzionari marxisti; distrussero, uccisero, nella prima metà degli anni ’20, ma poi la situazione si normalizzò. Uno stupro, se non documentato nei fatti, quale quello evocato nell’opera di Silone, davanti a un rappresentante delle forze dell’ordine, all’epoca dei Patti lateranensi e nel periodo in cui lo Stato fascista aveva compiuto una memorabile azione contro la criminalità in Sicilia grazie al prefetto Mori, lo giudicherei un episodio letterario da non generalizzare. E con tale punto di vista valuto altresì la seconda sezione del suddetto brano: fatti di violenza possibili, però anacronistici nella loro collocazione narrativa. Più avanti nel romanzo dice il suo autore: «Per strada trovammo Baldovino Sciarappa che maltrattava ad alta voce sua moglie, cui addossava ogni colpa per la rovina della casa; e la povera donna lo supplicava di tacere e di rinviare la discussione, i rimproveri, le battiture a più tardi nell’intimità della famiglia […]. […] Americo parlava di Elvira, non certo per dirne male, ma, insomma, ne parlava. Berardo gentilmente, come se si ricordasse di un affare da regolare, chiamò Americo dietro la cantina, nell’orto; e poco dopo lo ricondusse dentro che gli sanguinavano un orecchio e la bocca». Baldovino e Berardo usano violenza fisica inaccettabile, tuttavia non sono membri del PNF, né tanto meno Silone condanna la loro condotta: perché tali eccezioni? Inoltre, cosa che mi ha lasciato alquanto perplesso, i Fontamaresi ambirebbero a compiere un attentato terroristico (naturalmente da disapprovare) ai danni del podestà usurpatore: ciò che mi ha disorientato non è tanto l’atto in sé, qui comprensibile nell’ambito storico e letterario, ma la sua causa. È il problema dell’acqua a provocare un simile desiderio, non lo stupro: questo gravissimo passaggio, che griderebbe vendetta, finisce nell’oblio (quasi a testimoniare la sua scarsa credibilità in quelle vistose forme). Silone in detti particolari non mostra molto rispetto nei confronti delle donne, e identica condotta mantiene agli occhi dell’obiettività storica. Condivisibile lo spirito di quanto segue: «Le sedi delle banche erano l’una più grandiosa dell’altra, e alcune avevano delle cupole, come le chiese. Attorno a esse vi era un gran vivaio di personaggi e di automobili. Berardo non si stancava di ammirare. “Ma hanno la cupola” io obiettavo “forse sono chiese.” “Sì, ma con un altro Dio” rispondeva Berardo ridendo. “ll vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra, il Denaro. E comanda su tutti, anche sui preti come don Abbacchio, che a parole predicano il Dio del cielo. La nostra rovina” aggiungeva Berardo “forse è stata di aver continuato a credere al vecchio Dio, mentre sulla terra adesso ne regna uno nuovo”». L’autore di “Fontamara” accantona molta storia reale nel suo racconto. Il governo fascista, tra l’altro, fece approvare leggi bancarie per rimediare a situazioni le quali avevano portato a grossi scandali nel periodo umbertino. E poi riguardo alla burocrazia italiana: non era paragonabile a quella sovietica nei termini espressi da Trotzkij, perseguitato da Stalin, la cui URSS non sembra(va) preferibile al fascismo italiano. Lo sterminio degli Ucraini all’inizio degli anni ’30, voluto da Stalin, è reale (con milioni di morti per inedia): “Fontamara” rappresenta un romanzo contro le ingiustizie, tuttavia più che apparire testo storico si presenta quale opera distopica. Lo accolgo in simili vesti, accostandolo a “Il tallone di ferro”2: il fascismo in Italia ebbe larghi e grandi tratti negativi, ma dimenticare le violenze rivoluzionarie in Russia, lo stalinismo, e che questi fenomeni erano il contraltare della situazione maturata in Italia, significa guardare alla storia con un occhio solo, chiudendosi alla seria comprensione d’insieme degli avvenimenti storici3. Nel suicidio di Teofilo, il sacrestano di Fontamara, si cela forse il proprio simbolico olocausto da parte di Silone: tale episodio evoca a mio avviso una giustizia espiatoria in relazione ai benefici ricevuti dallo scrittore tramite il contatto con Don Orione. Che il romanzo di Silone sia una costruzione letteraria di profonda ascendenza soggettiva lo testimonia oltre alla già ricordata influenza de “I promessi sposi”, il seguente brano: «Una sera, di fronte alla nostra locanda, trovammo un grande attruppamento di persone. Un traino militare aveva perduto una ruota e si era rovesciato su un fianco, contro un muro, e varie persone si sforzavano inutilmente di rimetterlo in piedi facendo più rumore che sforzo, come spesso si usa in città. Berardo si fece avanti, si tolse la giacca e il cappello, si chinò sotto il carro, si mise in ginocchioni sotto il carro, e con la schiena, lentamente, sollevò il carro dalla parte con la quale toccava terra e lo resse finché il conducente non rimise a posto la ruota tra l’ammirazione dei presenti». Comprendiamo che Silone ha letto “I miserabili”, e dunque quale genere di mattonelle rivestivano la stanza del suo Io. Il suddetto brano è molto incidentale nel narrato, però molto significativo al fine di cogliere sfaccettature psicologiche nella complessa personalità dello scrittore. Ciò che succede nel finale di “Fontamara” sa di inconcepibile se generalizzato sullo sfondo della realtà quotidiana di allora, per tanti motivi. La polizia arresta per caso due ignoranti fontamaresi, sospettandoli di essere sovversivi divulgatori di stampa clandestina. Berardo perde il lume della ragione, dopo la morte di Elvira prende ex abrupto una singolare coscienza politica, e confessa falsamente di essere il propagandista ricercato. Silone offre al lettore un cattivissimo esempio di istigazione a un inutile martirio. Non dimentichiamo che lui collaborò per un decennio con le forze dell’ordine italiane, iniziando prima dell’insediamento di Mussolini al governo. Tale ideale romantico-decadente emendamento letterario, alla luce del suo comportamento globale, non lo assolve dalle personali responsabilità: dov’era stato nella realtà il suo eroismo? Al di là di tutto questo, rappresentante una possibilità narrativa (un genere però da me non gradito, giacché si carica di sinistre connotazioni), noto altresì il fatto che lo scrittore faccia morire Elvira in maniera gratuita e illogica. Quanto si legge alla fine di questo libro esaminato si avvicina a “Noi” di Zamjatin4. Se “Noi” costituisce un racconto distopico sull’URSS, “Fontamara” oscilla fra il grottesco (comico e tragico) e il distopico (in relazione alla realtà italiana, portandola lontano da un realismo obiettivo). A onor del vero, e non della demonizzazione indifferenziata di alcunché, debbo però aggiungere che, se da un lato non venne ucciso direttamente e subito neanche Gramsci in carcere, esistono documentati particolari casi di reali abusi e violenze da parte di funzionari ed esponenti del regime fascista: tra di essi voglio ricordare la spiacevolissima vicenda di Benito Albino, figlio di Ida Dalser e Mussolini (è stato realizzato un film sull’argomento). Quando si parla di storia ci vuole serietà, studio, abbandono di spiriti faziosi. E dunque credibilità in quello che si dice. Come si può ritenere verosimile che la poverissima gente di un paesino qualsiasi, all’improvviso, si metta a fare un giornalino, e che venga perciò per giunta presa a schioppettate? Questa messa in scena sembra propaganda politica, non storia… L’Italia liberale, sparò sulla popolazione, con Bava Beccaris… La politica socioeconomica del fascismo (del quale non si vogliono affatto trascurare i pesanti lati negativi) non fu antiproletaria: i provvedimenti assunti negli anni lo testimoniano (la riforma agraria del 1940 ad esempio). Il realismo letterario del fascista Pirandello (nel ’34 Nobel per la letteratura) non ha il corredo di ombre siloniano, e quello che i partigiani fecero col cadavere di Claretta Petacci (uccisa in circostanze poco chiare) nemmeno Silone è arrivato a immaginarlo e proporlo in “Fontamara”. I partigiani assassinarono pure il filosofo Giovanni Gentile, ma i fascisti non avevano ammazzato il dissidente liberale Benedetto Croce (lasciandolo anzi nel Senato del Regno, il quale era di nomina regia).



NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
 
1 La storia siamo noi – Il caso Silone
 
2 A questo romanzo londoniano ho destinato parte di un mia monografia: Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017).
 
3 Per uno spunto d’approfondimento suggerisco un mio scritto: Mussolini, il fascismo e la borghesia contenuto nel mio saggio Note di critica (2017).
 
4 A quest’altro romanzo distopico russo ho dedicato un saggio: L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015).

venerdì 7 ottobre 2022

INDUISMO E OCCIDENTE

di DANILO CARUSO

Il sistema religioso induista contiene tutte le grandi possibilità della filosofia occidentale. Spiegherò simile affermazione in dettaglio, superando la radicale forma dicotomica Occidente/Oriente. Per evitare un fraintendimento a monte preciso che non si tratta di equiparare bensì di collegare. Parto da una considerazione cui sono giunto a conclusione rispetto all’impressione e alla riflessione di partenza. Essendo junghiano, dopo aver visto che la filosofia greca antica altro non ha fatto che ripensare l’Induismo in maniera razionalistica ottenendo varie differenti direzioni di pensiero speculativo conseguenti, ho pensato di avvalermi dello schema di Jung relativo alla struttura caratteriale umana che distingue: due facoltà razionali (la ragione in senso stretto e il sentimento) e due irrazionali (la percezione e l’intuizione). Nel consueto cerchio quadripartito derivante ho collocato l’Induismo nella posizione dell’intuizione. Detta religiosità infatti ha sviluppato tale dimensione. Non si è espressa in guisa razionalistica al pari dei Greci, ha usato argomentazioni residenti sul piano del mito (alla stregua di Platone). E là è rimasta pur formulando principi molto profondi e molto pregni di ricchezza concettuale. L’Induismo ha colto intuizioni, e tali le ha lasciate nella fissazione delle sue verità. Non ha argomentato alla maniera filosofica occidentale, ha assunto un’apparenza dogmatica, la quale in virtù però della propria profondità retrostante non offre un dogma vuoto. L’Induismo presenta una forma di idealismo non costruito con canoni razionalistici. Qui ritornano Jung e la facoltà intuitiva quale modalità non razionale. Gli induisti hanno percorso simile direzione con notevolissimi risultati. E la riprova di ciò si recupera nel fatto che la razionalità junghiana è contigua all’intuizione, e nella veste di filosofia greca ha rielaborato contenuti di una pregressa e poi contemporanea fase intuitiva induista. In parole povere abbiamo un pilastro idealistico in comune visto, descritto, e concepito nelle speculazioni da due punti di vista collegati, ma separati nel loro porsi alla mente umana. L’Induismo coglie una verità, la intuisce, cioè la trova al di fuori di una procedura e di un cammino razionalistici, e quindi la offre. La filosofia greca, in quanto momento valorizzante la Ragione, il logos, coltiva la trattazione sul percorso che porta a una verità proposta. Direi che ci sono due modi mediante i quali una stessa cosa è stata detta. E mi riferisco al pilastro verso cui i filosofi sono stati dialettici, vale a dire che vi si sono relazionati in termini analogici vari o di contrasto sempre differenziati in rapporto all’autore. L’Induismo parla di un Brahman universale e totalizzante da cui deriverebbe la molteplicità di atman, gli Io che diventano empirici incarnandosi e paragonabili all’“Io penso” kantiano. Nell’emanazione fenomenica del mondo compaiono i quattro elementi greci e l’etere (il contenitore, la spazialità, la chora platonica). Platone possiede un impianto molto induista. Oltre a una cosmologia fenomenistica la quale squalifica la realtà sensibile, mirando a proiettarci alla volta del metasensibile (Brahman), pensiamo alla proposta politica principale del grande filosofo ateniese che tripartisce la società in tre categorie le quali ritroviamo uguali nella società indiana induista. Il più importante allievo di Socrate rivela altresì la presenza dei tre “guna” nel suo pensiero, cioè i tre caratteri specifici di ognuna di quelle tre classi sociali, i quali poi sono qualità individuali operanti in interiore homine: da un lato sapienza/coraggio/continenza, dall’altro virtù/passione/ignoranza. Ogni sistema ha colto sfumature di cose analoghe. Platone e l’Induismo sono concettualmente imparentati. Rammentiamo anche il tema della metempsicosi. Colgo lo spunto delle analogie platoniche allo scopo di aprire un nuovo versante della mia analisi. Riguarda la teologia emersa dal pensiero cristiano: il Dio unico e creatore di tutto. Questa non è la tesi originale biblica veterotestamentaria1. In “Genesi” gli Dei vengono fuori dal Caos, e poi un demiurgico Dio platonico ordina e monta il cosmo da una materia a lui parallela e non creata. L’idea che Dio sia “uno” proviene dagli antichi Veda, l’idea che non esista una indipendente materia separata dalla sostanza divina è di matrice induista. Mi pare che la teologia cristiana delle origini abbia preso spunti dal pilastro orientale. L’incarnazione divina stessa nel Messia ci riporta pure al concetto di avatàr. Ritornando alla Grecità, l’intellettualismo etico di Socrate, per cui colui che ha raggiunto la conoscenza non può più compiere il male inconsapevolmente (e dunque non dovrebbe metterlo in atto), rappresenta nuova tangenza induista. Nell’Induismo la “virtù” sopra accennata costituisce “conoscenza”: conoscenza che tutto si rivela transeunte e non merita attaccamento. Perciò, come in Socrate, il sapiente saprebbe infallibilmente che cosa è bene e che cosa è male. Del resto in Aristotele il sapere sommo rimane fine a se stesso, e il medesimo Dio aristotelico si mostra “atto puro” e “causa finale”: simili aspetti evocano il Brahman e il relazionarsi a esso. Nella filosofia greca tale tendenza intellettualistica dell’etica è culminata negli stoici. Il vivere-secondo-Ragione costituisce per loro il massimo, e tale posizione è scaturita da conoscenza. Analoga si manifesta la mentalità induista la quale ovviamente presenta la cosa nella forma del vivere-secondo-le-intuizioni-illuminanti partite con i Veda. Le ellenistiche atarassia e aponia possiedono equivalenti postulazioni nell’intuizionismo induista. A proposito dello stoicismo e al suo concetto di “fato” pensiamo altresì al parallelo concetto di Dharma, il quale a sua volta ci rammenta la rincarnazione esposta nel “Fedro” di Platone. Stoici e induisti poi condividono la visione ciclica di generazione/distruzione/rigenerazione dell’universo. Volendo chiudere questa serie di cenni alle tangenze voglio richiamare l’ontologia eleatica, Pirrone di Elide, Plotino. Quest’ultimo nella cosmogonia parte da un Uno il quale emana una realtà discendente in direzione della materialità similmente al Brahman. E pure Plotino sostiene che il compito da perseguire sia il ritorno a una realtà immateriale. Successivamente la filosofia occidentale ha ripreso la parentela ontologica induista con più marcata evidenza attraverso Spinoza, Berkeley, Kant, l’idealismo tedesco, e in modo particolare attraverso Schopenhauer. L’Induismo e la filosofia, così come li ho descritti sopra lo sfondo junghiano, appaiono delle macrofasi concettuali e cronologiche: all’Induismo orientale ha fatto seguito la filosofia greca e occidentale. Se guardiamo lo schema caratteriale di Jung da me ricordato all’inizio, vediamo che dopo la ragione (in senso rotatorio) troviamo la percezione. Che cosa mettere in questa casella? Io metto il capitalismo, il quale è fondato su un’ideologia ponente la sua produzione commerciale nel campo della percezione. Lo spirito capitalistico gioca tutta la sua esistenza sfruttando i lati della sensibilità e della sensualità. Da questa parte siamo sull’asse delle facoltà junghiane irrazionali in antitesi rispetto all’Induismo, il quale predica la rinuncia, il distacco riguardo al sensibile e a una materialità giudicati impermanenti (panta rhei), non sede di felicità. Il capitalismo realizza la felicità umana dentro la chora, l’Induismo fuori del fenomenico. Per tale motivo simili due visioni del mondo, seppur accomunate dal concetto di “predestinazione weberiana”, sono antitetiche, e la seconda mantiene una vicinanza migliore col Cattolicesimo e il suo risanante e beatifico paradiso. L’ultima casella junghiana sarebbe contemporaneamente rappresentante dell’optimum di partenza e della meta ideale da raggiungere e recuperare. Siamo nel “sentimentale” e nel “femminile”. Io ci metto il matriarcato originario. Diotima che spiega a Socrate: ecco l’immagine emblematica e chiave per capire la mia individuazione di simili quattro macrofasi. Come ci fa intendere Platone nel “Simposio”, se la filosofia si declina perlopiù al maschile, la religione dovrebbe declinarsi perlopiù al femminile. Altrove ho spiegato perché ritengo che l’umanità sia giunta sulla Terra da altri pianeti2. A questo punto credo che l’Induismo abbia mantenuto memoria di un sentimento anticapitalistico in quanto l’industrializzazione sregolata (penso a Venere) possa aver distrutto, sostenuta da brama di arricchimento, diverse civiltà planetarie nel nostro sistema solare (aggiungo Marte e Fetonte). Mi spiego così l’incisivo appello induista a non legarsi alle cose. Poi la mentalità capitalistica ha ripreso via via a diventare sulla Terra di nuovo dominante a partire dai Sumeri3. L’Occidente ha comunque mantenuto nel suo DNA tratti induisti. A conclusione di questo scritto si può comprendere meglio quell’affermazione di Simone Weil per cui «chaque religion est seule vraie». Dall’Occidente all’Induismo esiste un unico solco all’interno del quale sono fiorite diverse piantine alimentate da un solo tipo di terra: ambienti differenti e distanze hanno creato specificazioni varie. L’analisi che ho sviluppato ha fatto emergere elementi di filosofia della storia cui debbo sommare la mia teoria degenerativa delineata nella mia monografia “Letteratura e psicostoria” (2022). Anche in un altro mio saggio, “Critica dell’irrazionalismo occidentale” (2016), avevo affrontato temi storiografici e di filosofia della storia inerenti al passato e al futuro. Colloco l’ipotetica linea distopica della prima pubblicazione fra i punti cardinali junghiani della percezione (capitalismo) e del sentimento (matriarcato). Dunque, alla degenerazione dovrebbe seguire una positiva rinascita per mezzo di quei passaggi futuri che ho descritto nella seconda mia opera citata, nelle sezioni intitolate “La lancia di Atena”4 e “La nuova Sparta”5. Appare pertanto possibile nel contesto della mia filosofia della storia raggiungere forme di equilibrio e di benessere universali.




LA CRONOGRAFIA DISTOPICA DELLA MIA TEORIA DEGENERATIVA STORICA RIPORTATA IN “LETTERATURA E PSICOSTORIA






 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Partita a scacchi”
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
 
1 Nel mio saggio Radici occidentali (2021) si veda la sezione intitolata Sul biblico “Cantico dei cantici” e su Gn 1,1:
https://danilocaruso.blogspot.com/2021/08/sul-biblico-cantico-dei-cantici-e-su-gn.html
 
2 Per approfondire rinvio qui (altra sezione di “Partita a scacchi”):
https://danilocaruso.blogspot.com/2022/05/scoperte-stellari.html
 
3 Nella mia pubblicazione Note di critica (2017) si trova una parte grazie a cui poter condurre approfondimento: Radici sumere di Ebraismo e capitalismo:
http://danilocaruso.blogspot.com/2017/11/radici-sumere-di-ebraismo-e-capitalismo.html

mercoledì 10 agosto 2022

L’INDIVIDUALISTICO E AUTODISTRUTTIVO ATTIVISMO DI MARTIN EDEN

di DANILO CARUSO
 
“Martin Eden” è un romanzo di Jack London (1876-1916) pubblicato nel 1909, un anno dopo “The iron heel” (altro romanzo londoniano cui ho dedicato la metà di un mio saggio1). “Martin Eden” rappresenta un’opera contenente diversi spunti autobiografici. La vita di Jack London è stata alquanto sregolata, il che sta alla base della sua prematura scomparsa. In questo testo egli castiga a livello ideologico cose che praticò. Quest’opera sta sullo stesso piano del suo socialismo e de “Il tallone di ferro”. È da notare che come si suicidò Martin Eden così il medesimo London pose più o meno indirettamente fine alla propria vita provocandone a causa di sregolatezza il termine precoce. “Martin Eden” costituisce una sorta di avvertimento che il suo autore non ha saputo cogliere, nonostante si sia sforzato di indicare i chiari pericoli di quel percorso esistenziale. Il messaggio dell’Inconscio collettivo nell’archetipo (negativo) di Martin Eden (l’attivista irrazionale e non molto riflessivo, più impetuoso che altro) non è stato colto appieno dallo scrittore californiano. Il quale ha lasciato tale romanzo sempre a mo’ di monito, ma altresì quale emendamento della sua condotta pratica, nonché nella veste di velata profezia della sua morte. L’ombra di “The iron heel” si risente in “Martin Eden”. Anche se vagamente, dacché la storia narrata è diversa, si notano certe analogie situazionali fra i protagonisti maschili principali di tale due testi. In entrambe le opere sono presentati quali volti a ricercare confronto e affermazione al cospetto della borghesia. In “Martin Eden” però rispetto all’altro precedente romanzo la cosa assume una prospettiva più tragica. L’individualismo portato avanti da questo personaggio possiede una radice protestante, rappresenta il classico attivismo della società americana delineato da Max Weber. Nella creazione di questo protagonista letterario Jack London inserisce degli assi cartesiani chiari e precisi: Herbert Spencer e Friedrich Nietzsche. Il richiamo che a costoro rivolge Martin Eden nell’esporre il suo orizzonte di pensiero è molto eloquente. Lo scrittore americano ha intuito delle verità analitiche filosofiche e le mette in scena attraverso il suo personaggio nella narrazione. Costui rappresenta un simbolo del generale attivismo weberiano, che London vuole in qualche maniera condannare in ossequio al suo socialismo. “Martin Eden” costituisce una sorta di compagno de “Il tallone di ferro, rappresenta in primis un romanzo politico dove si castiga l’attivismo borghese, mentre il precedente – sebbene apertamente distopico – celebrava il socialismo (alla fine trionfante). Si tratta di un’accoppiata di romanzi legati cronologicamente e idealmente. Allorché parlai di “The iron heel” dissi che a mio avviso là c’era il tocco di una mano femminile sparso in aggiunta nel testo londoniano. La stessa impressione ho avuto altresì in “Martin Eden” in qualche passaggio, dove mi è parso di leggere alcuni brani i quali potessero essere il prodotto di un intelletto femminile. In entrambi i casi credo si possa indicare la “mano fantasma” di Charmian, moglie di Jack London. Completata questa introduzione possiamo addentrarci meglio nel telaio narrativo del romanzo e rilevare altri più approfonditi contenuti. Un primo aspetto del mio esame che tengo a riprendere subito è inerente all’attivismo di Martin Eden. Egli compare all’inizio un giovane incolto, di bassa provenienza popolare, un marinaio giramondo, che accidentalmente conosce Ruth Morse di famiglia borghese: «Lui era profondamente sensibile, irrimediabilmente impacciato». I due si innamorano. Da simile stilnovistica scintilla scatta la marcia di innalzamento intellettuale di Martin. Inizia a studiare, sostenuto da Ruth, e matura il desiderio di diventare uno scrittore. La fidanzata vorrebbe invece che lui investisse le sue abilità in qualche professione borghese più convenzionale e più stabile. Martin dal canto suo si ostina, fra alti e bassi, tra momenti di estremo disagio e di piccole gratificazioni (prima di giungere al conclamato successo), a perseguire il suo obiettivo di affermarsi nella società come scrittore. Ho già ricordato sopra che London ha connotato il suo protagonista facendogli professare una fede spenceriana e nietzschiana. Tale connotazione ideologica si ricollega direttamente all’attivismo formale protestante weberiano. Spencer è un apologeta del capitalismo industriale, odia la presenza statale, apprezza la massima libertà individuale. Figura chiaramente quale ideologo nel solco dello spirito attivistico alla radice della società americana. A proposito della connessione di Martin Eden con Nietzsche posso aggiungere qualche parola di migliore approfondimento. In una mia analisi passata2 ho evidenziato i motivi per cui la filosofia nietzschiana scaturisca del tutto da elementi luterani rielaborati in una veste biologicizzante. Il volontarismo di Lutero (fratello gemello dell’attivismo calvinista) ritorna nella “volontà di potenza” di Martin come manifestazione appunto attivistica omogenea all’attivismo weberiano: a monte di tutto esiste un nevrotico schema mirante in modo irrazionale all’affermazione di sé quale segno di una elezione (in senso lato). Nel personaggio londoniano ritroviamo simile nevrosi. Non vediamo in lui riflessione e buonsenso. Egli percorre tutto il “cursus honorum” attivistico. Lo vediamo sfacchinare qua e là ciecamente.

 
Tutte le parti del romanzo che in tal senso possono apparire digressive, sono invece strutturalmente – in relazione all’ideale edeniano – agiografiche. Jack London mostra nella sua interezza e nella sua nitidezza quale dovrebbe/potrebbe essere il cammino di ogni Americano ortodosso (ortodosso, ovviamente, in relazione all’ideologia sociale dominante capitalistica). Il fatto che di ciò l’autore californiano non faccia apprezzamento, bensì condanna, si rileva dal fallimento esistenziale finale di Martin (nonostante sia approdato al successo) e dal suo suicidio. L’estremo gesto possiede un quid di romantico, a ulteriore dimostrazione che di culto della ragionevolezza nella mente del protagonista londoniano non ce ne fosse. Si suicida in maniera irrazionale come un qualsiasi Werther3, prigioniero del recinto nevrotico anziché aprirsi a nuove salvifiche soluzioni. Adesso è giunto il momento di esaminare questo rapporto sentimentale fra Ruth e Martin, dopo aver dipinto lo sfondo in cui si cala. Questa relazione, la quale si era costruita con l’ambiziosa meta di innalzarsi a matrimonio, costituisce il secondo asse portante del romanzo accanto al primo su descritto. Quantunque la coppia si fosse formata in modo spontaneo e senza ostacoli da parte della famiglia di lei, Martin e Ruth a lungo andare vengono a trovarsi su piani psichici differenti. Lei appartiene a quella categoria la quale altrove4 ho definito “tipi freudiani”. Vale a dire: la sua consapevolezza della libido è bassa, si mantiene a un grado di coscienza animale (lo Es freudiano). E si contrappone a lui il quale nutre una vocazione da “tipo junghiano”. Cioè di colui che potrebbe rielaborare la libido freudiana in vista di una nuova fase (la “fase culturale” junghiana) in cui questa non sia solo potenza animale: «Lui era ribelle, selvaggio, e in guise segrete la di lei vanità fu toccata dal fatto che egli era venuto così dolcemente alla sua mano. Allo stesso modo lei fu agitata dall’impulso comune di addomesticare la cosa selvatica. Era un impulso inconscio, e più lontano dai suoi pensieri che il suo desiderio era riplasmare l’argilla di lui in una somiglianza dell’immagine di suo padre, la quale l’immagine lei credeva essere la migliore al mondo. Non c’era là altro modo, al di fuori della sua inesperienza, per lei di sapere che il contatto cosmico che lei prendeva con lui era quella la più universale delle cose, amore, il quale con uguale potere trascinava uomini e donne attraverso il mondo, cervi costretti a uccidersi reciprocamente nella stagione degli accoppiamenti, e guidava anche irresistibilmente gli elementi a unirsi». Lucrezio e Schopenhauer traspariscono in tale brano. Martin Eden rimane in bilico sino alla autodistruttiva fine. Gode di talento e intelligenza tali da permettergli di smarcarsi dal giogo nevrotico, ma non sfrutta l’occasione, e getta tutto alle ortiche. In ciò Ruth gli dà una mano determinante. Ella non apprezza l’homo bensì il vir: non per niente è un tipo freudiano. Non dispone delle capacità intellettuale di Martin, e tutto sommato l’ostacola. Alla lunga gli mette i bastoni fra le ruote, sino al punto, delusa da lui, di rompere il fidanzamento. Ciò non vuol dire che Ruth sia disprezzabile. E colei che gramscianamente apprezza la conoscenza del latino: «I giocatori di calcio devono allenarsi prima del grande incontro. E ciò è quanto la lingua latina fa per colui che pensa. Allena». Non ha tutti i torti a chiedere un marito con una posizione salda. I livelli libidico e sociale cui appartiene glielo chiedono. Il mondo è strutturato perlopiù di mediocrità, e chi ci nasce quasi sempre non se ne libera. Ruth rappresenta una di costoro, incontra il talentuoso Martin, e dal canto suo non ne trae uno spunto di reciproca crescita spirituale junghiana. Fallisce il destino di una coppia il quale poteva essere più brillante e che però soccombe sotto la pressione ideologica dominante circostante. La madre di Ruth parlandole di Martin lo disprezza e privilegia il primato canonico dell’attivismo weberiano dove la felicità poggia le sue basi nella proprietà e nel denaro (il diritto alla felicità nella società americana indica queste due vie): «Lui non ha un posto nel mondo. Egli non ha né posizione né salario. Lui non è pragmatico. Amandoti, lui dovrebbe, nel nome del senso comune, apprestarsi a fare qualcosa che gli darebbe il diritto di sposarsi, invece di tergiversare attorno a quelle sue storie e a sogni infantili. Martin Eden, io ho paura, non crescerà mai. Lui non si sobbarca la responsabilità e il lavoro di un uomo nel mondo come tuo padre faceva, o come tutti i nostri amici, Mr. Butler per esempio. Martin Eden, io ho paura, non sarà mai uno ben remunerato [money-earner]. E questo mondo è strutturato in modo tale che il denaro è necessario alla felicità. Oh, no, non queste gonfie fortune, ma abbastanza soldi da permettere comuni conforto e decenza». In “Martin Eden” è venuto a mancare l’apporto di Ruth: «Quanto era grande e forte in lui, lei lo aveva smarrito, o, peggio ancora, mal interpretato. Quest’uomo, la cui argilla era così duttile che lui poteva vivere in qualsiasi numero di nicchie di colombaia dell’esistenza umana, lei giudicava testardo e più ostinato perché ella non poteva plasmarlo per vivere nella di lei nicchia, la quale era solamente l’unica che ella conosceva. Lei non poteva seguire i voli della sua mente, e quando il suo cervello andava oltre lei, lei lo riteneva eccentrico. Nessun altro cervello era mai andato oltre lei. Lei poteva sempre seguire suo padre e madre, i suoi fratelli e Olney; perché, quando ella non poteva seguire Martin, lei credeva il difetto in lui. Era la vecchia tragedia dell’‘insularità che tenta di servire come mentore all’universale». Non c’è stato il salto di entrambi alla volta di una “fase culturale” junghiana.

 
Il romanzo londoniano in questione costituisce una distopia psicologica. Ruth è quella che «mentre consapevole che la povertà era tutt’altro che dilettevole, lei aveva un confortevole sentimento borghese che la povertà era salutare, che era un incitamento acuto il quale esortava su al successo tutti gli uomini che non erano stati degradati e sgobboni senza speranza». Anche ella fa professione di maltusianismo e attivismo capitalistico. Rimane prigioniera mentale del suo mondo borghese, con i di lei pregi e difetti della di lei ingenuità. Prima della rottura del fidanzamento Martin fa la conoscenza del benestante Brissenden, un intellettuale sui generis, il quale lo metterà in contatto con altri intellettuali economicamente disagiati, la cui scoperta sorprenderà in positivo Martin dato il loro valore di pensiero. Brissenden lo spronerà a confrontare il peso intellettuale di Ruth con altri parametri più validi e obiettivi. Egli la definirà: «Quella pallida, raggrinzita, cosa femminile [that pale, shrivelled, female thing]». Brissenden inviterà Martin a volgersi verso lidi più maturi. Però «lui l’amava al punto che lui non la capiva completamente, e lei non poteva capirlo perché lui era così grande che lui si era ingigantito oltre il suo orizzonte». Una coppia evidentemente mal saldata dal destino e destinata al fallimento per via di carenza razionalistica. Egli, alla vigilia del suicidio, dirà a lei, essendo stato cercato da ella dopo il successo editoriale allo scopo di rimettersi insieme, le parole della disillusione: «Ho paura di essere un commerciante accorto, che guarda attentamente dentro i piatti della bilancia, che cerca di pesare il tuo amore e scoprire di quale genere di cosa esso è». Non si rimetteranno più insieme. Da un lato perché ella era rimasta sempre la stessa borghese, dall’altro perché l’animo di Martin guardava senza interesse a Lizzie Connolly, una donna del popolo innamorata di lui. Martin Eden al posto di voltare pagina, di iniziare una nuova vita più serena, porta alle estreme conseguenze il proprio individualistico attivismo. Perde interesse al mondo e alla vita, e decide di annegarsi in mare.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Partita a scacchi”
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
 
1 Socialismo e finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017).
 
2 All’interno del mio saggio Filosofie sadiche (2021) la parte recante il titolo Leopardi e Nietzsche: i profeti del male?.
 
3 Al riguardo indico uno scritto della mia pubblicazione Considerazioni letterarie (2014): Considerazioni sul Werther goethiano.
 
4 Si veda nel saggio indicato nella nota 2 la sezione intitolata L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard.

giovedì 9 giugno 2022

GESÙ STOICO E DIONISIACO

di DANILO CARUSO

Le mie ricerche e i miei approfondimenti sui testi biblici mi hanno consentito negli anni, attraverso analisi non alla portata di tutti, di conquistare personalmente quelle conoscenze sull'autentica natura di contenuti che ho via via esaminato. Ciò non vuol dire che altri non sapessero quanto ho fatto emergere, ma di spiegazioni simili alle mie non ne ho incontrate. Tant'è che diverse scoperte ai miei occhi sono risultate novità assolute. Cosicché, proseguendo pressoché da solo nel deserto degli approfondimenti, ho continuato nella mia “ermeneutica contestuale” a recuperare i mattoni concettuali di quelle costruzioni letterarie bibliche che mi sono parse bisognose di procedure analitiche non ideologizzate al fine di impiantare in quella desertificazione personale i moventi culturali e concettuali che sfuggono ai più poiché non interessati di storia della filosofia, delle religioni e delle mitologie coeve alla redazione dei libri della “Bibbia”. Quanto ho praticato nel corso dei miei articolati lavori d'analisi, spinto inoltre dal fatto di non aver trovato in precedenza filosofica soddisfazione concettuale, è stato armarmi di buona volontà scientifica e scavare allo scopo di portare alla luce il background di pensiero dell'epoca soggiacente. Quindi ho capito che l'Ebraismo e il Cristianesimo non sono altro che costruzioni religiose umane non avulse dalle meccaniche storiche dei tempi in cui si sono sviluppati. Recuperate quelle dimensioni mediante fatiche intellettuali personali ho dunque presentato i miei risultati. Nel complesso, di esami approfonditi sulla mia scia ermeneutica non ne ho trovati. È possibile che in Italia o all'estero abbiano pubblicato larghi lavori di ermeneutica contestuale applicata ai testi biblici, però non mi è giunta notizia né tanto meno la sostanza di ciò a cui possa pormi alla fine accanto. Parlando dei miei studi, sono pervenuto a conclusioni definitive sulla cosmogonia esposta in “Genesi”1.In seguito a questa ottima base ho rivisto il prologo del “Vangelo di Giovanni”, di cui avevo parlato nel mio saggio del 2013 “Ermeneutica religiosa weiliana”. Allora dissi cose interessanti alle quali ne aggiungo di nuove adesso, e alle integrazioni accompagno degli emendamenti alla traduzione. Addietro mi adeguai all'analisi logica comunemente proposta con la canonica voltura, pur sempre cogliendo la natura concettuale del Logos giovanneo. A quel tempo mi fermai al versante culturale egizio-alessandrino mediato dall'Ebraismo filoniano. In altro saggio ricordai – e ciò era risaputo – la clonazione di Osiride e Iside nelle figure di Gesù e della Madonna2. Nella presente analisi recupererò un versante neotestamentario al quale ancora non avevo messo mano: quello culturale greco. Al pari dell'altro mitologico egizio non costituisce una mia scoperta la presenza di analogie fra Gesù e Dioniso. Ho voluto approfondire con migliore ampiezza non trovata simile aspetto, e altresì giacché c'entrava il prologo di Giovanni, a mio modo di vedere, ho avuto l'occasione nella rivisitazione del suddetto brano, alla luce della chiara conoscenza della cosmogonia ebraica, di scoprire tutta una serie di puntuali presenze concettuali stoiche. Affronterò i temi prospettati in dettaglio e con ordine. Pertanto mi pare il caso di riportare le molle che hanno fatto scattare la nuova indagine. Leggendo sopra il teatro greco e Dioniso mi sono documentato meglio sul suo mito (si vedrà meglio avanti). Lui viene ucciso e mangiato da Titani, Zeus incenerisce gli assassini e dalle loro ceneri, contaminate dal consumo precedente delle carni di Dioniso, si svilupperà una fuliggine da cui trarrà origine l'umanità. Gli uomini quindi nascono a priori con un elemento dionisiaco positivo da quel che resta della negativa materia titanica. Dov'è nei vangeli riportato tale concetto? Nel prologo di Giovanni. Ma qui bisogna fare molta attenzione: Gv 1,9 di solito viene pure secondo me mal tradotto, come ebbi modo di rammentare grazie alla lezione weiliana. Il participio presente “veniente” (erkómenon) è da riferirsi ad ánthropon e non a fos. È all'accusativo, non al nominativo: “la luce che illumina ciascun uomo che nasce (veniente al mondo)”, non “la luce che illumina ogni uomo era veniente nel mondo”. Dirò del lato dionisio del personaggio di Gesù dopo aver ripercorso tutto il prologo giovanneo alla luce di tutti i miei nuovi elementi: la citata perfetta visione cosmogonica ebraica e la rilevazione di presenze concettuali stoiche. Sia dunque lampante la guisa in cui è stato edificato il Gesù letterario neotestamentario. Dentro a tale personaggio si trova mitologia egizia, mitologia greca, filosofia greca. Se vuoi costruire una religione universale (ossia cattolica) devi preparare la macedonia giusta. E simile macedonia concettuale, dalla precisa architettura dinamica, doveva sposarsi con lo stoicismo grecoromano (filosofia-manifesto dell'attivismo piuttosto laico dello Stato romano). Il caso volle che Ebraismo e stoicismo fossero fratelli, figli di una semitica nevrosi attivistica risalente ai Sumeri3. La cosmogonia e la cosmologia stoiche sono formalmente identiche alla cosmogonia e alla pertinente teologia ebraiche veterotestamentarie. Il Cristianesimo costituisce per mezzo del momento neotestamentario le nozze romane tra i due fratelli. E l'incesto partorì il mostro torturatore e uccisore di streghe, omosessuali, Giudei, eretici, non cattolici. Ma questa è un'altra storia rispetto alla materia qui presa in considerazione. Qua voglio, tra l'altro, farvi notare gli elementi stoici del prologo di Giovanni a fianco dell'infiltrazione dionisiaca di 1,9. Spiegherò altresì le menzionate analogie fra stoicismo e Giudaismo, le quali offriranno migliore comprensione di ciò che dico. È questo il momento di indicare la “molla stoica” che mi ha condotto a smontare il prologo del Vangelo non sinottico ancor meglio del passato. È stata la preposizione “pros” di 1,1. Pros+accusativo rende un complemento di moto a luogo, l'idea di “... in direzione di...”. Vale a dire che là c'è scritto che “il Logos stava in direzione del Dio”. Dalla constatazione di un movimento ho rivisto pure “en archè”. I traduttori lo volgono quale un complemento di tempo determinato, ma a me è risultato che “en” sia preposizione temporale per il “tempo continuato”, non per quello “determinato”: nel corso di, durante. Oltre a ciò ho pensato che l'archè nella cultura greca è il “principio” nel senso di “causa”. Non possiedo perciò validi motivi per affidarmi al complemento di tempo determinato. Traduco allora con un complemento di stato in luogo, e più precisamente di moto entro luogo circoscritto: “dentro l'elemento primordiale”. La coppia di dettagli evidenziati mi ha spalancato le porte di una nuova visione, e sinceramente più congeniale, più contestuale delle trinitarie posteriori elucubrazioni teologiche. Mi sono ricordato del mio profondo studio su Genesi 1,1 e ho riportato quei risultati al riguardo del prologo giovanneo. Siamo in un contesto culturale di impronta ancestrale semitica sia nell'Ebraismo che nello stoicismo del I-II sec. d.C. Dunque la cosmogonia e la cosmologia giovannee non possono e non devono entrare in contrasto inconciliabile. Chi mirava a creare la religione universale (=cattolica) partendo dal Giudaismo sapeva che la filosofia di Stato stoica era geneticamente compatibile in funzione di quello che si è rivelato un funesto matrimonio, la cui prima vittima è stata l'Impero romano, caduto da lì a breve a causa di un calo demografico cui diede una bella mano la sessuofobia cristiana. Ma torniamo all'assetto cosmologico dell'incipit del Vangelo non sinottico al fine di inquadrarlo nel dettaglio culturale semitico. L'elemento primordiale dentro cui si trovava il Logos (1,1) è l'acqua-disordine-tenebre di Gn 1,1 (né “bereshit” là svolge il ruolo di avverbio di tempo bensì di soggetto, né qui “archè” sta in un complemento di tempo ma di luogo). Come in apertura di “Genesi” vien fuori la divinità (elohiym), nel prologo di Giovanni si trova il theòs. Il Dio stoico è fuoco, quello ebraico è il Sole. Vale a dire lo stesso soggetto concettuale visto, interpretato e sviluppato in due diverse maniere, una filosofica e una religiosa. Il movimento del venir-fuori-dal-disordine-acqueo da parte dell'elemento igneo è suggerito dal movimento proprio del Logos “in direzione del Dio”. In origine “dentro l'archè” si passò dal disordine all'ordine. Il discorso di “Genesi” rispecchia tale cliché. Mentre qua causa efficiente e causa formale rimangono indistinte, Giovanni introduce la distinzione maturata nella riflessione stoica. La struttura della realtà ha avuto un esplicito progetto, il quale la regolamenta e la tiene in piedi: si chiama “Logos”. Il movimento di questa causa formale, di cui tuttavia esiste l'equivalente veterotestamentario nella figura della Sapienza divina tirata fuori dall'abisso a opera di Dio, può intendersi quale momento logico, concettuale, al modo hegeliano dell'Idea che si volta all'attuazione. Hegel possiede radici religiose e filosofiche non casuali, non dimentichiamo che il suo ispiratore generale, Spinoza, era Giudeo. L'immanentismo stoico ha caratteri protohegeliani, i quali tuttavia non si possono allargare al prologo giovanneo. Ho parlato di isolato movimento logico. Il Cristianesimo si svilupperà sulla base delle comunanze tra stoicismo e religione ebraica. E, a quanto la storia ha mostrato, sulla base dei peggiori contenuti (misoginia, omofobia, intolleranza) predisposti a sadica esaltazione nevrotica. Nel pensiero cristiano lo spirito filosofico greco è morto, dopo essere stato imprigionato e soppresso. Dicevo dell’incontro giovanneo fra Theos e Logos. Il Vangelo non sinottico rappresenta la chiave di volta della costruenda architettura teologica stoico-cristiana. Perché mettere qualcosa nel canone evangelico che non si tiene in linea con i primi tre, qualcosa appunto di “non sinottico”? Semplice, poiché gli altri vangeli non offrono una simile prospettiva filosofica. Il testo di Giovanni costituisce una sorta di anello nuziale fra Ebraismo alessandrino e stoicismo romano. Togliendo il “non sinottico” la teologia cristiana non può celebrare l’abbraccio col potere politico dominante di matrice stoica. Il prologo di Giovanni recupera gli elementi centrali della vecchia cosmogonia giudaica veterotestamentaria e l’arricchisce in immagini e concetti. In aggiunta a quanto detto in questa sede, oltre che a quello esposto nel mio saggio “Ermeneutica religiosa weiliana” (contenuti che non ripeterò ora), va rilevata la radicalizzazione luce/tenebra, ordine/disordine. Ciò che viene definito come “bene” è un porre sotto il dominio dell’ordine, della luce, scacciando le tenebre provenienti dall’acqueo disordine. Tale nevrotica impostazione svela corollari: il maschile-fuoco impersona il positivo, il femminile-acqueo il negativo. Da assurde dicotomie del genere è emersa la misoginia cristiana, e si tratta di roba strutturale di quella teologia, non di errori di un Cristianesimo mal interpretato e mal attuato4. Bruciare le streghe equivale a sanificare il mondo. Ho anticipato sopra l’infiltrazione dionisia ad hoc nel prologo. Il quale assieme al pensiero cosmologico stoico è allusivo, nella seconda metà del brano, di passione-morte-resurrezione di Dioniso. Più avanti delineerò i tratti dionisiaci evangelici del non sinottico, giacché tale Vangelo mirava a far presa nell’ambito di credenza, a suo tempo nutrita, orfico-dionisia. Adesso debbo puntualizzare il dettaglio di un’altra infiltrazione filosofica. Il prologo parla di “figlio-unico del Padre” allorché il Logos si è incarnato. Si tratta di derivazioni dal “Timeo” di Platone, il quale chiama “padre” una causa efficiente, “figlio” il prodotto, “madre” la causa materiale. La paternità divina su Gesù non prende le mosse dalla biologia normale. Il Theòs diventa Padre nel momento in cui delibera l’incarnazione del Logos, e nell’accezione platonica (la quale di conseguenza squalifica il “femminle”; che Gesù sia alquanto, per noi, maleducato nel rispondere alla madre Maria alle nozze di Cana, dove compie un dionisiaco miracolo, non è un caso: le ha proprio detto che essendo una donna non era in grado di esprimere un giudizio accettabile!). Le eresie trinitarie e cristologiche sono poi in seguito sorte poiché il prologo di Giovanni è soltanto allusivo delle dinamiche stoiche, non le disegna nitidamente. Infatti sono io il primo a non capire se qui Theòs e Logos fossero in origne sostanzialmente separati, o se fossero uniti e il movimento di cui sopra detto fosse figurato passaggio dal Logos-potenza al Theòs-atto produttivo. Allorché Giovanni afferma che “una divinità Figlio” ha reso visibile in qualche modo un Dio invisibile, si parla sempre in termini platonici non chiarificatori. Il fatto che asserisca che il Logos si trovi “nell’insenatura del Padre”, nel kólpos (cavità marina), mi suggerisce di aver letto bene “arché” di 1,1, però ciò non rende comprensibile la struttura gerarchica e la relazione tra i due con estrema chiarezza. Saranno appunto i teologi a dire tutto e il contrario di tutto, dove probabilmente la via di comprensione più sensata, e concettualmente accettabile, è quella derivante da una genuina lettura stoica. La quale andrebbe più verso l’immanentismo panteistico stoico, che hanno decisamente rifiutato di percorrere a vantaggio di invenzioni teologiche in lotta inter se (la guerra dell’aria fritta!). Per quanto concerne il sistema filosofico stoico possiamo dire quanto segue, rilevando le analogie del caso. Zenone di Cizio, il caposcuola, di origine e di mentalità semitiche, attribuisce la corporeità a Dio. Il che non è estraneo al “Tanak” dove la divinità giudaca passeggia e combatte in guerra (è evidente che gli attribuivano un corpo). E al pari degli Ebrei il Dio zenoniano è il “numero uno”5 cosmico, meglio definito quale ragione universale e attività originaria: il Dio che produce il cosmo ordinato e lo sostiene nella di esso esistenza (in virtù dell’ordine dato). Il “mio Signore e mio Dio” di Tommaso è espressione stoico-filoniana, richiamante l’ebraismo alessandrino (di ciò parlai nella mia monografia sopra rammentata), espressione la quale si riallaccia non a caso allo stoicismo. Gli intrecci giovannei mostrano le sfaccettature di un progetto teologico-religioso la cui sintesi doveva coprire tutti i principali lati culturali, ideologici, mitologici dell’Impero romano di quell’era. Potremmo altresì definirla un’operazione di “adescamento universale” in relazione al suo scopo emergente. Il nuovo contenitore cattolico proviene da un disegno di natura distopica e totalitaria e non per niente monoteistico (per la precisione, il giudaismo è enoteistico). Il Dio-Sole ebraico, di derivazione atonista6, ha il suo equivalente filosofico nel Dio-fuoco zenoniano di derivazione eraclitea. La congenialità semitica spinse Zenone di Cizio a simpatizzare per Eraclito. Il fuoco rappresenta il principio attivo, la causa determinante, la ragionevolezza ordinatrice (Logos). Il Dio veterotestamentario si manifesta attraverso la potenza solare, è de facto egli il Sole, è fattore che determina e ordina dopo essere uscito dall’acqua-oscurità-disordine la materia cosmica. A lui si contrappone la Natura, l’Universo. Gli stoici rispetto agli Ebrei svilupparono la dimensione panteistica, e proprio in virtù del Logos, al quid divino di progettuale che si riporta nelle cose (sarebbe la metessi platonica trasfusa nelle stoiche “ragioni seminali”). Lo stoicismo ha portato nel Cristianesimo l’idea di Logos, a sua volta poi diversamente sviluppata. Senza Zenone di Cizio non ci sarebbe stato nessun Verbo di Dio incarnato. Il Logos stoico è 1) fondamento veritativo-logico, 2) progetto e causa determinante della realtà, 3) traduttore di norme comportamentali. Detto con parole di Gesù: 3) la via, 1), la verità, 2) la vita. Ritengo opportuno dire a proposito del punto 3) che l’etica del dovere semitica (dell’ubbidienza al Dio di riferimento, al Logos) nei Giudei si codificò nella Torah, negli stoici in un’etica più laica, però pur sempre nevrotizzante, in quanto costruzione razionalistica estremistica. Il razionalismo stoico costituisce l’espressione di un maschilismo7, di cui la tradizione giudaicocristiana rappresenta la manifestazione socioreligiosa. L’attivismo degli stoici e quello degli Ebrei sono fratelli gemeli, poi cresciuti in case diverse. Il Logos di Zenone è un momento intermedio nella cosmogonia giudaica fra il Dio “numero uno”, principio determinante, e la materia disordinata alla volta di cui si dirige il soffio divino (ruach), il veicolo di determinazione attuante. Simile dimensione di intermediazione sarà introdotta nell’Ebraismo alessandrino da Filone, da cui il recupero del ponte concettuale cristiano-stoico. È una sorta di giro attorno alle stesse cose per poi saldarle nell’esaltazione messianica del Verbo incarnato, il Mediatore tra Dio e gli uomini. La nuova religione universale (cattolica) nasce da salse concettuali semitiche e si lega alla parallela (più moderata) misoginia grecoromana8, portando però odio e ostilità verso gli eccessi che la Storia plurisecolare ci ha mostrato. Tengo a far notare che l’imperativo comportamentale (nevrotico) che porta Abramo a ubbidire a Dio quando costui gli comanda di sacrificargli il figlio Isacco è lo stesso, nella forma (nevrotizzante), che agli stoici comandava il suicidio (o altro di esagerato): che in un caso sia dovere-religioso e nell’altro dovere-politico non fa differenza, sempre di dovere semitico si tratta (correlato a forme attivistiche: la provvidenziale elezione storica dei Romani, l’elezione divina d’Israele; il Cristianesimo puntò sui primi, a cui diede un abbraccio mortale accelerando la crisi sociale imperiale in direzione della catastrofe la quale spalancò le porte all’oscurantismo medievale). Quando Simone Weil afferma che la Chiesa cattolica è stata la madre di tutti i totalitarismi moderni, e quando io porto alla luce simile verità nel testo orwelliano di “1984”9, non siamo usciti fuori del seminato, bensì abbiamo ben rilevato il meccanismo mentale semitico “dovere-ubbidienza”, declinabile in vari modi. Il poliedro semitico del cristianesimo nelle sue facce stoiche ci mostra illuminanti contenuti i quali ci fanno ben comprendere che la religione di Gesù è una invenzione a tavolino, e che lo stesso evangelico Messia risulta un quasi totale personaggio letterario, il quale, contaminato di non poche ascendenze contemporanee, rimane distinto dal presunto Gesù storico (l’attivista politico-religioso radicale). Il suo essere Verbo divino incarnato, Figlio-Logos, originario medium produttivo cosmico, costituisce una serie di idee precedenti lui e consolidate a posteriori sopra di lui. La persona storica di Gesù fu accidentale. Più che altro la sua morte (storicamente vera o falsa) si prestò al di lui inserimento nella nuova teologia universale ebraico-stoico-romana. Questa andò a riprendere motivi filosofici, religiosi, mitologici omogenei al progetto di una religione unificatrice per tutto l’Impero romano. Cosicché ad esempio ritroviamo il Zenone che afferma il Logos presente nella nostra anima in Gv 1,9. Ritroviamo altresì la dicotomia ontologica stoica agire/patire nell’idea di Passione di Gesù Cristo (la quale, come meglio vedremo, riprende evidenti tratti dionisiaci). Per “patire” Dio doveva incarnarsi in un Figlio corporeo giacché la sola materia-corpo rappresenta la parte passiva della realtà. Dio sta all’opposto. Un’idea rilevante degli stoici, che ci ricollega alla cosmogonia ebraica, è quella per cui il principio supremo, visto nella veste di divinità-logica, si serva nell’atto determinante-reggente di uno pneuma, di un soffio-caldo: vale a dire, tradotto in termini veterotestamentari, della ruach (lo spirito, soffio animante). Il trinitario Spirito Santo “che è Signore e dà la vita” esce da suddette cose (gli gnostici pensavano lo Spirito santo al femminile). E dobbiamo inoltre dire che la Trinità cristiana ha il suo modello stoico nella triade dell’inno di Cleante: Zeus, Logos e Pneuma; cioè la prototrinità pagana già predisposta a beneficio del neopagano distopico Cristianesimo. Nel momento in cui parlo di distopia totalitaria non esagero, non costituisce ovviamente una mia scoperta (da studioso ho indagato per bene vari segmenti nei miei lavori), né tanto meno dico non per tutti delle novità. L’ideale di libertà autentica (esagerato d’altro canto nel nevrotico attivismo protestante liberista) dentro lo stoicismo e il Cristianesimo ha subito forti restrizioni: gli stoici insegnavano che l’uomo sapiente e coscienzioso si sarebbe dovuto adeguare “liberamente”, idest spontaneamente, al Fato, al destino (il prodotto della razionalità del Logos il quale ha già hegelianamente preordinato i corsi storici). Ebbene, non troverete nessuno più stoico di Giobbe, il precursore dei praticanti l’etica stoica. Giobbe si adegua spontaneamente, “stoicamente”, alla volontà divina, ossia alle deliberazioni del Dio-Logos. Alla fine verrà premiato in virtù della sua attivistica caparbietà di condotta, ma nel frattempo una vera libertà umana, un’autonomia morale kantiana, è stata cancellata alla radice. Nel Cristianesimo esiste una sola Verità di cui hanno nella storia pagato il prezzo non poche persone all’interno di un regime sociale illiberale durato secoli. La tradizione giudaicocristiana ha proposto di sacrificare la propria libertà a vantaggio di contenuti nevrotici (si vedano ad esempio Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro10). Arrivati a questo punto possiamo rivolgere lo sguardo al panorama religioso-mitologico greco, il quale avevo rammentato in apertura di disamina. Sarà possibile dunque vedere quanto di mitologia greca si è infiltrato nella tetrade evangelica, soprattutto nel non sinottico, inerente a temi orfico-dionisiaci. Diciamo che l’orfismo rappresenta il lievito del formantesi Cristianesimo. Dalla di quello esaltata inquietudine spuntano le radici popolari cristiane. Al di là di quell’ingenuo slancio, tuttavia non torbido nell’orfismo, non si sarebbe sviluppata una dimensione fideistica di massa. Il Cristianesimo è intervenuto su un terreno fertile: questa è stata la sua astuzia costruttiva, questa è stata la sua fortuna nell’allargarsi presso la credulità dei più. Ritroviamo idee orfiche basilari poi centrali nella visione cristiana. Una è l’idea di passione, del martirio, i quali purificano (si pensi al “battesimo di sangue”), facendo recuperare l’elemento divino dionisio (illustrato più sopra) in sé. L’orfismo assume una dicotomia corpo/spirito analoga a quella stoica: da simili contenuti le concezioni cristiane sessuofobiche e di disprezzo generale della corporeità (le cosiddete “sante anoressiche” costituiscono tristi exempla di tali principi, già nevrotici, elevati a più distruttiva nevrosi). Quel che conta è il divino nell’uomo, al punto tale che gli orfici sono i teorici della successiva dicotomia cristiana anima/corpo: sono loro a dire che esiste un’anima immortale. E l’orfismo è esistito quantomeno dal VI sec. a.C. L’esistenza umana nella mentalità orfica servirebbe a pagare le colpe all’interno di uno schema metempsicotico. I Cristiani sostituirono alla rincarnazione punitiva il temibilissimo inferno. La visione degli orfici raffigura concettualmente Zeus nei tre moment di causa originaria, causa strumentale e causa finale in relazione alla realtà, realtà la quale assorbe in maniera panica (una tangenza stoica, non sviluppata in direzione panteistica da parte del Cristianesimo, il quale si limitò a postulare soltanto l’ubiquità di Dio). La teogonia orfica culminava con le vicende dei Titani uccisori di Dioniso, una sequenza che distaccava dalla tradizione veicolata da Esiodo. E giunti a Dioniso dobbiamo allora approfondire i legami fra di lui e il Gesù evangelico. Nel momento in cui ho focalizzato meglio tali aspetti ho ottenuto una più nitida e più definita cornice sull’origine del Cristianesimo, al quale ho dedicato la mia attenzione da una vita essendo nato in una società cristianizzata da secoli. Cominciamo col dire che Dioniso nacque in una grotta e il suo destino era quello di succedere a Zeus nella signoria cosmica. Il piccolo, a detta del mito, venne al mondo con delle corna. Gesù Bambino non le ha, però ha il bue cornuto del presepio. Il toro è un animale correlato all’immaginario dionisio: il bue cornuto del presepio suggerisce l’evidente inconsapevole prosecuzione di un topos neopagano. E lo fa assieme all’asinello, a sua volta associato a Dioniso e all’uccisore di Osiride (Seth/Tifone). Allorché nacque il Cristianesimo, in ambito culturale pagano si diceva che i fedeli adorassero una divinità teriomorfa dalla testa di asino. Ho visto su un libro la foto di un’antica rappresentazione di ciò, e la mia ipotesi è che non si trattasse di una presa in giro volta al disprezzo da parte dei Romani, ma che invece i primi Cristiani tendessero a rendere più percepibile il sostrato della nuova religione, in particolar modo il sostrato orfico-dionisiaco. Cioè quello a livello popolare di maggior diffusione, il quale costituì la base del successo presso la massa ingenua disposta alla credulità nei confronti di un’abile costruzione propagandistica. Venne tenuta, non a lungo, in epoca medievale, ogni primo dell’anno una “festa degli stolti” nella quale veniva ricordato l’asino dell’entrata a Gerusalemme di cui Gesù si servì: in questo contesto festoso nel momento in cui si pregava la preghiera era chiusa da un raglio in luogo del consueto canonico “amen”. Sia Dioniso che Gesù appena venuti al mondo ricevono l’omaggio di altri intervenuti all’evento. Suddetto Dio grecopagano nella cultura cretese, la quale non era di radice aria, si manifesta come Dio bambino che è destinato alla morte (nel mito muore giovanissimo). I Cretesi avevano stabilito dove fosse stato il suo sepolcro isolano. Dioniso, figlio di una donna comune, viene elevato al rango divino tempo dopo la nascita. Nelle sue vicende non manca un’ascensione finale in cielo (ennesima tangenza con Gesù). Nell’orfismo Dioniso rappresenta colui che è nato tre volte: nel grembo materno, nella coscia di Zeus in funzione di incubatrice (dopo che la madre morì precocemente prima di partorirlo correttamente), nella resurrezione post mortem. Gesù mostra un percorso parallelo: alla coscia di Zeus sostituisce il battesimo con la discesa dello Spirito Santo. Non sempre la madre di Dioniso è stata identificata dal mito con una donna semplice: Persefone poteva comparire sua madre. Da ciò la familiarità di detto Dio con l’elemento infero. Ade marito di Persefone era pure chiamato Zeus sotteraneo, perciò tale appellativo si riflesse sul figlio Dioniso (Gesù scese agli inferi). Dioniso e Gesù hanno familiarità con l’elemento acqueo-marino: entrambi hanno a che fare con la navigazione e le imbarcazioni. Se Gesù seda una tempesta stando sopra una barca, Dioniso ha una sua epifania sempre su un’imbarcazione. La mitologia dionisiaca intravede in questo un Zeus-figlio complementare di un Zeus-padre, e lo fa in un’ottica unitaria padre-figlio. In particolare il padre si indirizza al pubblico maschile, il figlio a quello femminile (il Gesù evangelico ha avuto contatti con varie donne). Nella prima parte della mia analisi ho parlato del mito orfico riguardante l’uccisione di Dioniso ora possiamo riprenderlo allo scopo di ricollegarlo meglio a Gesù. I Titani fecero a pezzi il corpo del Dio greco al fine di mangiarlo, un corpo che la mitologia greca trasfigura nell’immagine di un agnello/capretto. I Titani ne consumarono e furono poi inceneriti da Zeus, con la conseguente antropogonia già rammentata sopra. Ritornati a Gv 1,9 siamo nelle condizioni di poter ulteriormente chiarire i passaggi evangelici riguardanti l’ultima cena e l’istituzione della liturgia eucaristica. Essa possiede un’origine dionisiaca. La scena di Gesù che comanda di prendere e mangiare del pane rappresentante il proprio corpo ricalca in guisa dinamica, non statica, il mito di Dioniso e la passione pagana dionisia trapiantatasi assieme al corredo dell’immagine del vino nel nuovo culto cristiano (il vino inerisce a uno dei due momenti del rito cristiano menzionato). Gesù e Dioniso sono Agnus Dei. Il consumo della carne, simbolico o meno, nella liturgia eucaristica e nel rito dionisiaco serve a garantire il contatto col divino. Dioniso è legato alla vite, ai tralci, all’uva. Tant’è che gli orfici lo chiamavano pure Eno (=vino). È consequenziale che nel consumo simbolico di carne divina del rito cristiano ci si accompagni altresì al consumo di vino. Si tratta delle due facce della medaglia dionisia. Che il Vangelo non sinottico si apra col miracolo di Cana non è casuale. Il vino e la coppa di vino dionisiaci indicano l’esigenza di uno stadio mentale esaltato, eccitato, una follia, una militanza obbediente e irrazionalistica, la quale ritorna nell’epistolario paolino: i folli per Cristo. La follia erasmiana costituisce una moderna teorizzazione di quell’ideale cristiano di fanatismo. L’antica festa ateniese delle Antesterie dedicata al culto dionisiaco è servita da modello per elaborare il Triduo pasquale cristiano. Si svolgevano a fine dell’inverno nel corso di Antesterione (mese lunare corrispondente a un periodo tra febbraio e marzo) e avevano la durata di tre giorni. I Greci pensavano che in quel terzo giorno i defunti potessero tornare pro tempore in mezzo ai viventi. Le analogie sono evidenti. Dioniso rappresenta un Dio che risorge al pari di Gesù. L’iconografia cristiana e quella dionisia rappresentano entrambi con la barba. Il tema della “maschera” fa parte del corredo immaginifico di Dioniso, e “maschere” saranno nella teologia cristiana di lingua greca le “personae” trinitarie. Ulteriormente dionisia si mostra di nuovo una particolare devozione, quella al Sacro Cuore di Gesù. Il cuore di Dioniso non fu né mangiato né incenerito bensì recuperato da Atena. Kerényi fa notare che la radice κραδ- è etimologicamente ambigua giacché indica sia il concetto di “cuore” che quello di “albero-di-fico”, e di tale legno era il fallo divino collocato all’interno di ceste, a loro volta poste sul capo durante le processioni dionisiache. Qua si chiude un altro cerchio. Gesù nei vangeli sinottici maledice un fico sterile: non è un episodio privo di profondo significato. Nel Vangelo di Giovanni sostiene di essere la vite e che altri fungano da tralci. Tutte queste immagini hanno provenienza dionisia. Costituiscono un portato orfico. Altresì, il tema del membrum virile si riallaccia alla sponda egizio-osiridea. Già in passato vidi collegati Osiride e Gesù in simile dettaglio che ritroviamo nel culto dionisio. Si rileva così alla fine accanto alla stratificazione egizia una stratificazione greca pertinente: il perizoma di Gesù crocifisso nasconde motivi osiridei e dionisiaci. Il membrum virile di Osiride ucciso ricompare nella stella cometa dei magi (i quali nient’altro sarebbero che maghi), riguardo a Dioniso si tratta di un simbolo adottato – come detto – nella celebrazione della divinità (il perizoma di Gesù parrebbe una sorta di evocativo “tabernacolo” ad hoc). Nella figura evangelica di Gesù compaiono diverse stratificazioni, le quali soltanto un buon analista, un ottimo medico legale dell’ermeneutica letteraria, può dissotterrare. A distanza di molti secoli pochissimi sono in grado di percepire il neopaganesimo del Cristianesimo, e di avere la sensazione di entrare in un tempio pagano mettendo piede in una chiesa (a me ormai capita così). Un’attenzione molto particolare e un pregresso studio molto approfondito (che io ho condotto anni fa11) merita il discorso neotestamentario di “Gesù come nuovo Adamo”. Se non si capisce che cosa era l’Adamo veterotestamentario, non si comprenderà mai quest’altra sottile analogia con Dioniso. L’Adamo originario è un androgino, poi diviso in due, da cui Adamo ed Eva sessualmente differenziati. Anche Dioniso era androgino o quantomeno effeminato. L’orfismo riguardo all’argomento del nuovo Adamo offriva l’aggancio con Fanete (=colui-che-brilla), mostruosa creatura primigenia ermafrodita, altresì denominata Dioniso. Comprendiamo benissimo, arrivati alla fine, che il Gesù costruito quasi due millenni fa non sia più genuinamente riproponibile a società dove orfismo e stoicismo non esistono più quali fenomeni socioculturali in atto. Sono rimasti però forme attivistiche cristiano-protestanti e il diffuso ingenuo desiderio della massa di affidarsi a qualcosa di rassicurante. Il Cristianesimo cattolico di oggi possiede un volto ufficiale diverso da quello della sua naturale sostanza storica, la quale è finita gradualmente nell’ombra al cospetto della gente in seguito all’emancipazione illuministica. Sicché misoginia, omofobia, intolleranza sono state sfumate per diventare pressoché non più visibili. È il Messia evangelico a definire “cani e porci” coloro che non si uniformano a lui. La parola κύων in greco antico costituisce un termine fortemente spregiativo se riferito a persone, e in particolar modo era destinato alle donne. Infatti, a mio avviso, il “τοῖς κυσίν” al Vangelo di Matteo 7,6 è al femminile e non al maschile. Risulta molto probabile per me che Gesù abbia usato un’espressione generale utilizzando i due generi distinti: “alle cagne e ai porci” copre meglio l’estensione semantica di riferimento con superiore qualità retorica. In verità anche “τῶν χοίρων” potrebbe essere tecnicamente al femminile, però tutta l’idea così suonerebbe ferocemente misogina, parlando di “cagne e troie”. Adotto la traduzione di mezzo: cagne e porci. Infine è di nuovo il Redentore a sostenere di non aver portato quiete e tranquillità bensì disordine e divisione di matrice religiosa (Mt 10, 34-39)12.


NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Partita a scacchi”
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
 
1 Si vedano i seguenti miei lavori: 1) Sul biblico “Cantico dei cantici” e su Gn 1,1 nel mio saggio Radici occidentali (2021); 2) nella mia opera Teologia analitica (2020) la parte intitolata L’acqua e il Dio biblico; 3) Radici sumere di Ebraismo e capitalismo all’interno della mia pubblicazione Note di critica (2017); 4) e anche per vari argomenti qui trattati la mia monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013).
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2021/08/sul-biblico-cantico-dei-cantici-e-su-gn.html
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/03/lacqua-e-il-dio-biblico.html
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2017/11/radici-sumere-di-ebraismo-e-capitalismo.html
 
https://www.academia.edu/6280171/Ermeneutica_religiosa_weiliana

2 In Note di studio (2016): Iside e Osiride, Cristo e la Madonna. Nel suddetto saggio si trovano altre sezioni rilevanti in relazione all’argomento affrontato nell’analisi generale: L’origine del male; Novità contraddittorie del messaggio evangelico; Il centurione romano: uno stratagemma mediatico. Un altro mio scritto pertinente, a parte, è L’origine ideologica del Cristianesimo, dentro la mia opera Considerazioni critiche (2014).
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2014/10/lorigine-ideologica-del-cristianesimo.html

3 Per approfondimenti si veda il terzo lavoro indicato nella nota 1.

4 A tal riguardo suggerisco la lettura di alcuni miei saggi: quello indicato nel punto 2) di nota 1 e di altri due recanti i titoli L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017) e Parricidio dantesco (2021).
 
https://www.academia.edu/43625458/Teologia_analitica
 
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
 
https://www.academia.edu/33666516/L_apologia_dell_irragionevole_di_Robert_Hugh_Benson

5 Su questo dettaglio un approfondimento a pag. 13 della monografia indicata al punto 4) della nota 1.

6 Allo scopo di approfondire suggerisco di leggere la sezione Radici egizie del mio saggio menzionato al punto 4) di nota 1, là già sottintesa.
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2014/09/radici-egizie-nella-cosmogonia-ebraica.html

7 Al fine di un approfondimento indico il segmento intitolato La nascita della filosofia nella mia pubblicazione Percorsi critici (2020).
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/la-nascita-della-filosofia.html

8 A tal proposito consiglio di leggere il mio studio I protopatristici Aristofane e Giovenale contenuto nel saggio ricordato nella nota precedente.
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/08/i-protopatristici-aristofane-e-giovenale.html

9 Si legga il mio saggio Il Medioevo futuro di George Orwell (2015).
 
https://www.academia.edu/11340638/Il_Medioevo_futuro_di_George_Orwell

10 In mie pubblicazioni: dentro la mia monografia Letture critiche (2019), Il machiavellico disegno della “follia” erasmiana; all’interno del saggio al punto 2) della nota 1, Cristianesimo razionale e nazional-socialismo in Thomas More.
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2018/08/il-machiavellico-disegno-della-follia_29.html
 
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/cristianesimo-razionale-e-nazional.html

11 Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi, nella mia opera Considerazioni letterarie (2014).
 

12 Si veda meglio nel mio studio intitolato Un inquietante brano neotestamentario: evangelismo armato e ambiguo nudismo, contenuto all’interno del mio saggio indicato nel punto 1 di nota 1.
 
https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/un-inquietante-brano-neotestamentario.html

domenica 8 maggio 2022

SCOPERTE STELLARI

di DANILO CARUSO

Di recente per quanto concerne le mie ricerche e riflessioni su civiltà extraterrestri sono venuto a conoscenza delle idee dello scienziato John Brandenburg. Prima di riallacciarmi a lui è d’uopo una premessa1. E dico innanzitutto – come già chiarito in passato – che mai nei miei scritti ho vantato la pretesa dell’originalità. In alcuni casi mi è capitato di notare, in un secondo momento, che elaborazioni per me autonome avessero avuto i loro risultati già indicati da qualcun altro prima: ciò non è stato frustrante, anzi è stata – tutto sommato – una soddisfacente prova che avevo visto bene e che le mie capacità analitiche sono valide. Riguardo all’argomento di adesso ricapitolerò il mio pensiero (allora autonomo e inoltre distinto dalle ipotesi di Zecharia Sitchin il quale da tempo conoscevo). Sono partito coll’ipotizzare l’arrivo degli umani sulla Terra prendendo a modello le migrazioni e gli spostamenti sul pianeta: perché una simile cosa non doveva essere possibile su scala interplanetaria? Pertanto nella cesura “flora, fauna preistoriche” / “presenza umana e nuovo sistema naturale” ho visto una demarcazione così forte da farmi rifiutare il dogma evolutivo, da un lato, e da indurmi a credere che tutto l’apparato preistorico fosse stato rimosso con passaggi non naturali (anche deliberate intenzionali distruzioni/alterazioni ambientali). Dalle notizie su Marte di cui disponevo allora – le quali non erano gran che – credetti che la desolazione del pianeta rosso seguisse a un ecosistema uguale a quello terrestre umano (andato in rovina per cause non naturali). In quest’idea mi sosteneva l’approfondimento su Venere: è più vicino al Sole, però mantiene la sua atmosfera e possiede un ambiente di superficie paragonabile a un pianeta vittima di un inquinamento letale (là piove acido). Marte è più lontano dal Sole, tuttavia rimane in condizioni peggiori. Allora, secondo me, quanto era successo lì non doveva essere un prodotto non artificiale. Misi in campo l’ipotesi bellica interplanetaria e la già evocata distruzione ambientale a causa di eccessiva industrializzazione sregolata. Accanto a tutto ciò – altra autonoma idea, la quale non avevo rilevato da nessuna parte – mi convinsi che la fascia degli asteroidi del nostro complesso planetario solare fosse non un pianeta mancato bensì un pianeta distrutto per motivi bellici. Ipotizzo (ignoro se qualcun altro lo abbia fatto prima di me) che Plutone sia un pezzo di tale pianeta distrutto, un pezzo catapultato verso l’esterno e restato ancorato alla gravità solare. Ho notato che l’orbita di tutti gli altri pianeti (Plutone è stato declassato) sta sullo stesso piano, mentre quella di Plutone è inclinata sensibilmente (come se fosse un acquisto disomogeneo posteriore). Legai la distruzione del pianeta mancante alla catastrofe marziana. Nei periodi in cui io pensavo, e scrivevo poi, suddette cose, più o meno contemporaneamente John Brandenburg ha scoperto sulla superficie di Marte nel 2011-14 due teatri di eventi nucleari non naturali. Due punti precisi e ravvicinati dove i parametri fisici sono soltanto riconducibili a esplosioni nucleari di probabile origine bellica (simile discorso è stato basato da parte del fisico americano sopra una stringente analogia la quale non offre alternativa migliore). Durante l’azione di approfondimento dell’ipotesi brandenburghiana mi sono reso conto, grazie a nuove informazioni, che il mancante pianeta previsto dalla legge di Titius-Bode nell’orbita della fascia degli asteroidi non fosse stato un postulato astronomico solo ai miei occhi ma addirittura avesse ricevuto un nome: Fetonte. La denominazione non si mostra casuale poiché il mito greco dà di costui un racconto che ben si addice. Fetonte era figlio di Apollo. Il padre un giorno acconsentì alla di lui richiesta di condurre il carro solare. Tuttavia il figlio non ne fu pienamente capace e si schiantò sulla Terra devastando il Nord Africa. Zeus dunque lo uccise fulminandolo, e caduto in un fiume fu infine trasformato in un cigno. Il pianeta mancante ha dato adito a riflessioni circa le ragioni della sua scomparsa. È stato colpito e mandato in frantumi accidentalmente centrato da un corpo naturale vagante nello spazio? Negli anni ’60 lo scrittore sovietico e cultore di ufologia Kazantsev chiese a Niels Bohr se la fascia degli asteroidi attuale potesse essere un pianeta annientato dalla tecnologia nucleare, e il fisico danese rispose che era possibile. A me piace la tesi della causa (prossima o remota) intelligente. Dunque proseguirò l’analisi attraverso due romanzi russi di fantascienza. Un primo romanzo uscito nel 1960, “Sul decimo pianeta” di Anatoly Ivanovich Mitrofanov, narra di una missione spaziale diretta verso la fascia degli asteroidi. Nello spazio planetario a ridosso della Terra si trova la stazione satellitare sovietica Komsolia. I cosmonauti terraformano la Luna e scoprono su Marte presenze di una civiltà. Ricevuto un SOS proveniente da Cerere raggiungono il frammento di Fetonte abitato. La spedizione promossa dall’URSS e capeggiata da Komsomol Medvedev trova su Cerere i sopravvissuti della distruzione di Fetonte. Gli antichi e progrediti Fetontiani, cercando di bloccare pericolosi fenomeni di vulcanesimo provocati dalla vicinanza di Giove mediante l’uso di esplosioni atomiche, avevano mandato in pezzi il pianeta. I superstiti su Cerere, in pericolo di completa estinzione, poiché tale pianetino rischiava di essere colpito da asteroidi circolanti della fascia tra Marte e Giove, vengono dunque trasferiti sulla Terra. Non è da trascurare un dettaglio di questo romanzo fantascientifico (romanzo che si ricollega alla mia originaria idea che Atlantide potesse trovarsi sopra un altro pianeta: al di là delle colonne d’Ercole, in alto, al di là del cielo). L’uso di cariche termonucleari, il quale ha distrutto Fetonte, è stato con successo applicato nel corso dell’adeguamento lunare da parte dei Sovietici allorché il periodo di rotazione sul proprio asse del satellite naturale terrestre è stato portato a 24 ore. Il secondo romanzo di cui parlerò è “Fetonte” di Aleksandr Petrovich Kazantsev, uscito all’inizio degli anni ’70. Il testo, tripartito, consente di nuovo l’accostamento col mito platonico atlantideo. Nella prima sezione si tratta delle vicende sul pianeta precedenti la sua distruzione. Due potenze mondiali, due razze (i faccia-lunga e i testa-tonda), si contendono il dominio. La civiltà fetontiana dispone della forza nucleare. Un forte incremento demografico induce i faccia-lunga a emigrare parzialmente su Marte e sulla Terra (pianeti abitabili). Nello schieramento dei testa-tonda alcuni pensano di sbarazzarsi dei rivali grazie alle armi nucleari al fine di recuperare zone di occupazione popolare. A causa di un complotto scoppia il conflitto bellico. Un gruppo misto (lunghi e tondi) ripara sulla Terra. La guerra nucleare devasta Fetonte e dalle loro basi orbitanti marziane Fobos e Deimos i testa-tonda colpiscono i nemici sul suolo di Marte. I Fetontiani sulla terra vedono in cielo il disastro nucleare cancellare il loro pianeta d’origine. Le donne dei testa-tonda di Fobos e Deimos optano alfine a beneficio di una pacifica esistenza sul futuro pianeta rosso. Sulla Terra e su Marte proseguono dunque delle discendenze miste. Detta storia raccontata viene collocata un milione di anni fa. La seconda sezione dell’opera letteraria kazantseviana ricomincia la narrazione da 13.000 anni or sono. Il matriarcato marziano decide di riprendere un contatto colla Terra e invia una spedizione. I Terrestri scambiano per divinità gli arrivati e poi vengono salvati dall’impatto di una Luna ancora vagante, e non ancorata in modo satellitare stabilmente e senza pericolo a seguire, grazie a loro. È ipotesi dello scienziato sovietico Felix Yurievich Ziegel – accolta da Kazantsev – che la Luna, Fetonte e Marte corressero in principio lungo la medesima orbita planetaria (quella della fascia degli asteroidi): mi chiedo però, sulla base della legge di Titius-Bode, cosa ci fosse nell’orbita (libera?) pro Marte (Plutone?). La terza sezione del romanzo salta ai secoli futuri XXI e XXII. In quest’epoca si scopre tutta la verità, e che i Sumeri hanno radici culturali nelle quali vennero a mettere mano i (post-Fetontiani) Marziani. Il matriarcato di Marte però giudicò inopportuno, infruttuoso, difficile, il mantenimento di quel contatto con una civiltà molto primitiva. E la cosa fu sospesa in vista di un avvenire più consono. Nel finale del testo sono ora i Terrestri in virtù della loro tecnologia a restaurare l’ecosistema marziano abitabile. I Marziani, i quali sino allora, dalla distruzione della superficie di Marte, non avevano avuto più un suolo adatto alla vita possono tornarvi uscendo dalle città sotterranee ormai in decadenza avanzata. Nelle mie riflessioni ho giudicato possibile che i pianeti abitati da esseri umani nel nostro sistema solare possano essere stati anche quattro (quelli da Venere a Fetonte) e che eventi bellici promossi da una temibile e nefasta espansione capitalistica e industriale abbiano prodotto i danni ormai visibili. A proposito della matrice capitalistica nel disastro interplanetario voglio rammentare che ho rintracciato i semi di una simile vocazione nell’antica società sumerica, la quale riprodurrebbe la forma mentis di un passato cancellato2. Alcune cose intraviste sulla superficie marziana dei nostri giorni sembrano prodotti non naturali (ad esempio il celebre volto di pietra). Riguardo a Venere e a Fetonte non si può parlare di oggetti archeologici. Comunque, sulla Terra le cose strane non sono poche: le piramidi, le pietre di Nazca, et cetera. Vedere nella letteratura più antica memoria di qualcosa che sia potuto succedere su un diverso pianeta, a mio modestissimo avviso, non costituisce fantascienza. Senza dubbio ci vuole chirurgica precisione a ritrovare tali reperti conoscitivi, giacché non rappresenta una passeggiata in un testo, o presso qualsiasi testimonianza, scorporare la sovrastruttura mitologica dal possibile sostrato reale, e quindi localizzare questo.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Partita a scacchi”
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
 
Per ulteriori approfondimenti:
 
 
Si veda questo mio studio: