di
DANILO CARUSO
Thomas
More (1478-1535) è un autore che ha dato vita grazie a una sua “fortunata”
opera a una ormai indispensabile categoria del pensiero: l’utopia. Il suo
libro, intitolato per esteso “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam
festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”, è rimasto una
pietra miliare nella storia della letteratura umanistica. Egli, provenuto dal
ceto nobiliare più basso, ebbe l’occasione di studiare in virtù della sua
giovanile intelligenza dopo essere stato notato dal cancelliere inglese John
Morton, un dotto ecclesiastico cattolico, presso cui il giovanissimo Moro
prestava servizio di valletto. Divenuto alla fine avvocato, avrebbe voluto
intraprendere la via religiosa, ma rimase a svolgere la carriera forense con
successo, ed entrò in politica approdando alla Camera dei comuni nel 1504. Nel
1509 si unì in matrimonio con una ragazza di 17 anni, la quale gli darà quattro
figli e morirà sei anni dopo (si risposerà subito dopo con un’altra donna di
quattro anni più grande). More fu nella sua vita legato da amicizia con l’agostiniano
Erasmo da Rotterdam la cui celebre opera intitolata “Elogio della pazzia”,
stampata nel 1511, fu a lui dedicata: si tratta di un testo che, tra l’altro,
deve aver avuto una grande influenza sull’umanista inglese. “Utopia” uscì nel
1516. Durante il regno di Enrico VII il popolarismo cattolico antimonarchico di
Tommaso Moro causò al pensatore un primo allontanamento dal mondo della cosa
pubblica. Il re, dopo aver portato fuori l’Inghilterra dalla Guerra delle due
rose, sostenuto dalla borghesia fondiaria, aveva promosso un piano di
intraprendenza navale (attivismo espansivo politico-commerciale). Sotto Enrico
VIII il filosofo riprese quella che era stata una pregevolissima carriera
politica sino a essere infine nominato cancelliere nel 1529. Tuttavia nel 1534
cadde di nuovo in disgrazia per via del suo integralismo religioso che non gli
permise di accettare il divorzio del nuovo sovrano da Caterina d’Aragona senza
scioglimento decretato dalla Chiesa cattolica romana. In seguito alla nota
vicenda fu posto in stato di arresto e condannato a morte nel 1535, dopo aver
rifiutato di riconoscere l’atto di separazione unilaterale del re e aver tenuto
in nessun conto gli appelli di chi voleva che si salvasse manifestandosi
accondiscendente altresì allo scisma anglicano. Dietro la facciata di questo
evento si celava uno scontro molto più grande fra lo schieramento filomonarchico,
appoggiato dai ceti borghese e nobiliare che ambivano a liberarsi dal peso del
controllo ecclesiastico romano (che in Inghilterra beneficiava del possesso di
proprietà che facevano gola), e i filocattolici tradizionalisti. La generica
pessima condotta del clero inglese aveva promosso sentimenti di odio nelle
masse verso la Chiesa di Roma: da ciò il popolarismo di More, un tentativo di
recuperare il popolo al suo schieramento e di dividere il fronte avversario
progressista. Dopo la Riforma luterana la vicenda del divorzio negato da
Clemente VII a Enrico VIII, che sposò comunque Anna Bolena grazie
all’approvazione dei vescovi inglesi, segnò la rottura fra l’Inghilterra e il
Papato. Il pontefice scomunicò il re provocando quale risposta la nascita di
una chiesa riformata nazionale. Thomas More portò alle estreme conseguenze il
suo credo ideologico di cui quasi un ventennio prima aveva esposti contenuti in
“Utopia”. L’analisi di tale testo condotto mediante spirito di obiettività
super partes, a mio avviso, costituisce l’unica strada per cogliere la
personalità del filosofo nel voler condurre un esame dell’opera. Si tratta di
una personalità che secondo me non fu esente da condizionamenti derivanti da
nevrosi. Ho trattato dunque l’articolata materia come avrebbero fatto un Freud
o uno Jung, seguendo un principio analitico scientifico, il quale niente ha a
che spartire con la tematica teologico-dogmatica in sé e per sé. Nessun
credente cattolico si senta perciò urtato dal vedere posto un santo in uno
spazio di esame, oltre che storico-filosofico, altresì medico-psicanalitico.
Nella mia analisi ho mantenuto il massimo rigore scientifico, chiarendo
puntualmente tutti i contenuti critici. A monte di ogni cosa che dirò voglio
premettere, completando i brevissimi spunti biografici sul filosofo inglese,
che egli fu un soggetto incline a pratiche di ascetismo e di autopunizione
corporale, e che questa non è la prima volta che gli studiosi lo mettono in
discussione discostandosi dall’uniformità celebrativa. Lo scrittore inglese fu
beatificato nel 1886 e proclamato santo nel 1935. Nel 2000 san Giovanni Paolo
II lo nominò patrono degli uomini politici, sottolineando tuttavia il limite
della di lui effettiva pratica di tolleranza giustificandolo col contesto
storico-culturale. Tra i vari patronati di More quello della KjG,
l’organizzazione dei giovani cattolici tedeschi sorta nel 1970. Nella mia
ispezione critica di “Utopia” ho cercato di far venire alla luce tutti i
dettagli e gli aspetti meritevoli di considerazione nell’auspicio che la
ricerca di una verità scevra da condizionamenti intellettuali possa giovare
alla conoscenza storica. L’intenzione redazionale di Tommaso Moro è di natura
promozionale cattolica, e ciò si rende già evidente nella lettera dedicatoria introduttiva a Pieter Gilles dove l’autore esprime il suo compiacimento per la
diffusione che sta avendo questa confessione religiosa nell’isola di Utopia
(presso cui addirittura, si dice, un ecclesiastico spinto da zelo vorrebbe
essere inviato nella qualità di vescovo). Quanto More ha scritto nella sua
tensione letteraria è farcito di aristotelismo cattolico in vario modo che sarà
via via chiarito. Alla fine dell’introduzione già si trova un richiamo al
concetto di “barbari” i quali, secondo Aristotele inferiori per intelletto,
avrebbero nella loro moderna riproposizione difficoltà a comprendere il libro
del pensatore inglese giacché vincolati a una naturale zavorra di deficit che
non gli consentirebbe di elevarsi al di sopra di ragionamenti elementari verso
cose più complesse. Il libro primo di “Utopia” mostra subito uno sfondo
politico attuale inquadrato in una forma mentis cattolica. Il filosofo inglese
va alla ricerca di una salvifica proposta di ordinamento sociale condendola
nell’incipit con un richiamo evangelico a non accumulare ricchezze, una cosa
che rivela il suo obiettivo di fondo: ostacolare il nascente moderno
capitalismo, il quale si porrà sotto l’egida religiosa dell’attivismo e del
volontarismo protestanti, allo scopo di salvaguardare e difendere de facto
l’egemonia spirituale e sociale della Chiesa romana. Perché lo fa? Valutata la
formazione giovanile di Thomas More sembra che egli agisca animato da un
convinto, e ingenuo, sentimento di gratitudine nei confronti del Cattolicesimo:
quello che è stato, prima della sua definitiva caduta in disgrazia, il suo
successo politico lo deve all’educazione cattolica e al vescovo che lo trasse
da una condizione sociale d’inferiorità. Dunque egli avrebbe interiormente
maturato un sentimento di devozione e ossequio nei riguardi della Chiesa che
alla fine non gli consentì una via di fuga davanti alla scelta tra confermare
la sua fede religiosa e abbandonarla a beneficio di evitare la condanna a
morte. Tommaso Moro ha seguito l’ideologia cattolica in maniera pura. Nel primo
libro di “Utopia”, non manca già un accenno misogino, il quale poi viene
accompagnato nel resto di quell’esposizione da altro evidente aristotelismo, un
pensiero filosofico al cuore della teologia tomistica e dell’istruzione in
generale durante il periodo di auge cattolico: «Negotiis prope muliebribus
emolliuntur, idem, bonis artibus instructi ad vitam et virilibus exercitati
laboribus, effeminentur». Il santo si è reso conto che l’accumulazione di
ricchezza di matrice capitalistica, cioè con attività imprenditoriale più a
rischio della cura del latifondo agricolo, va a scapito della tenuta
organizzativa del mondo cristiano europeo comune dove la Chiesa pretende dei
tributi: liberarsi di essa, delle sue esazione, attraverso il Protestantesimo
rappresenterà un’occasione di maggiore arricchimento. More lo ha capito, teme
il vento della Riforma ventura anche in Inghilterra, e attacca perciò il
nascente ceto imprenditoriale moderno inglese che specula sulla lana, invocando
su di esso una punizione di Dio. Rilevante tra l’altro un passaggio in cui si
critica una piaga dell’odierna società capitalistica: la ludopatia. Tommaso Moro ha perfettamente colto lo spirito eversivo nei confronti del cristallizzato
impianto societario europeo dei suoi tempi rappresentato dalla brama di
arricchirsi mediante un’attività di impresa non agricola. Il recondito
obiettivo del filosofo inglese è salvare la primazia politica e spirituale
dell’istituzione ecclesiastica romana. Che non abbia trasparente pura
ispirazione morale lo dimostrano le sue contraddizioni di natura morale. Se
avesse veramente voluto condannare delle ingiustizie sociali poteva prendere di
mira anche la misogina persecuzione delle streghe, invece non fa nessun cenno,
anzi si lascia sfuggire riferimenti alla cristiana mentalità
tomistico-aristotelica. E di Aristotele va a riproporre il concetto della
limitazione dell’accumulo di ricchezza, allo scopo di ostacolare monopoli e
oligopoli di stimolo protoprotestante e anticattolico. L’accumulazione
capitalistica tenderà a evadere sempre e ovunque nel suo slancio il pagamento
di tasse, e ciò allora andava a scapito della Chiesa di Roma. Dunque il
ragionamento di Moro rivela un progetto di conservazione dello status quo
minacciato piuttosto che una disinteressata attenzione alla massa. Essa da non
impoverire troppo al fine di evitare fermenti rivoluzionari. Il capitalismo
porterà una radicalizzazione dei rapporti sociali a tutti i livelli, a danno
della vecchia gerarchia feudale medievale incentrata sulla produzione agricola
dove gli ecclesiastici cattolici stavano ai primissimi piani. Thomas More
difende quel mondo con convinzione e con ingenuità. Il suo attaccamento a quel
mondo cattolico, il quale ne determinò in un primo tempo la fortuna, lo
spingerà poi, acriticamente, all’estremo devozionale sacrificio. Però, egli,
ben analizzato, non mostra, come evidenziato, chissà quali pregi di pensiero. È cattolico integrale e aristotelico. Parlando di norme veterotestamentarie a
proposito del furto, oltre a essere impreciso, formula pure un’espressione
antisemita (sufficiente a rivelare prontamente la mentalità dell’autore, la
quale era poi quella comune cattolica di quei secoli): «Servos et quidem
obstinatos». Più ampiamente notiamo ciò in una preoccupante difesa da parte
dell’autore inglese dell’istituto schiavistico. Il Vecchio Testamento legittima
la schiavitù, Aristotele lo fa in maniera pseudofilosofica, la Chiesa non dice
niente in contrario, e Tommaso Moro propone allora con un discutibile
meccanismo di sostituire la pena di morte nei confronti dei ladri con la
riduzione servile. Il pensatore inglese ammanta il ragionamento inizialmente di
un alone di bontà cristiana, o almeno di quello che si crede essa possa essere
in astratto senza vizi di pregiudiziale religiosa. Quello che spiega dopo
sconcerta sotto diversi aspetti. In primo luogo afferma che chi si rifiutasse di
essere sottoposto a un regime di schiavitù può essere punito attraverso
violenze. E maestra di violenza all’epoca di lui era l’Inquisizione grazie a
persecuzioni non solo di streghe ed eretici. More non disapprova la moda
violenta del suo tempo, e di quello precedente, anzi ne fa un naturale
accoglimento: una prassi di cui egli stesso, poi, a piani ribaltati, rimarrà
vittima (volontaria). Se il filosofo inglese da un lato esprime contrarietà
alla pena capitale, dall’altro propone una condanna (in relazione al furto) che
degrada totalmente l’essere umano privandolo della sua dignità (come facevano i
torturatori dell’Inquisizione). Perché san Tommaso Moro non dice niente contro
le esecuzioni a morte, le torture per eresia e stregoneria? La sua parzialità
non lascia dubbi sul fatto che egli sia figlio organico della comune forma
mentis cattolica dell’era in cui visse. Violenza, per lui, può essere rivolta a
questi schiavi quando non servono i padroni a perfezione. Una cosa che turba
enormemente chi lo legge è scoprire una analogia col trattamento riservato agli
Ebrei nella Germania nazista. Questi schiavi di More dovrebbero essere
riconoscibili a prima vista dall’abbigliamento di un singolo colore, e inoltre
dovrebbero avere una parte dell’orecchio mozzata visibile onde garantire una
facile identificazione. Pare evidente che il filosofo inglese abbia derivato la
proposta di un segno di riconoscimento collegato al vestiario dalle
ecclesiastiche norme antisemite vigenti allora. Tali schiavi vengono altresì
privati, sempre al pari dei Giudei, durante il predominio cristiano, dei
diritti comuni a tutti quelli considerati normali. Nella fattispecie della
proposta di Moro non possono possedere denaro: punizione la condanna a morte,
pure per il donatore. Qui cade del tutto lo pseudoevangelismo a monte del
ragionamento del filosofo. Sembra, dunque in fin dei conti, che tutto il
progetto normativo abbia come scopo quello di reperire manodopera a basso
costo, per riproporre il modello sociale schiavistico aristotelico, di
mantenere gli schemi gerarchici feudali legati all’economia latifondistica
agricola e alla supremazia cattolica. Tali schiavi dovrebbero essere trattati
al pari di animali, i tentativi di modificare la loro situazione da reprimere
inoltre con la morte di persone libere eventuali complici. A simili ridotti in
schiavitù verrebbe anche interdetta la facoltà di comunicare con un proprio
pari. Si tratta nel complesso di un’idea giuridica disumana la quale toglie al
condannato tutta la sua dignità di essere umano, un’idea che invece il suo
sostenitore loda nel suo testo per l’efficacia correttiva dell’umanità di
trattamento. Thomas More ha illustrato questa sua proposta, nel quadro
narrativo di “Utopia”, dicendo che essa fosse una mirabile legge di quella
immaginaria isola, tuttavia non è molto difficile concludere che al di là di
tutti i retaggi giurisprudenziali del passato organici all’opera, un simile
provvedimento normativo è degno della Germania nazista. E lascia turbati che
Tommaso Moro sia stato canonizzato nel 1935 dopo la fine del decennio
pregovernativo dei nazisti, con il cui governo di coalizione il Vaticano
stipulò un concordato nel ’33. Tra parentesi: nel governo di Hitler esisteva un
Ministero per gli affari religiosi affidato a Hanns Kerrl, per il quale il
nazismo era un’espressione di Cristianesimo razionale. Chiesa e nazisti non
andarono a lungo d’accordo riguardo ai termini di rispetto concordatari, e il
Vaticano, leso nei suoi interessi, ruppe apertamente le intenzioni di un buon
rapporto con i nazisti nel ’37. Alla luce di questo breve inciso critico, il
quale può invece fornire uno spunto analitico significativo, possiamo giudicare
lo Stato utopiense come il tentativo politico-filosofico reazionario (in
relazione all’imminente moto riformatore socioreligioso protestante) di
tradurre la Cristianità in termini di un’organizzazione (pseudo)razionale,
sulla falsariga dell’affermazione di Kerrl: un Cattolicesimo razionale. Alla
fin fine questo costituisce quanto il Santo inglese cerca di attuare
appoggiandosi ad Aristotele e alla teologia classica della Chiesa romana
sistemata nel Medioevo. La prospettiva “nazionalsocialista” (cattolica e
inglese) di More auspica a livello internazionale che la Francia abbandoni le
sue mire politiche in Italia, lasciando ovviamente campo libero a Roma: è bene
che le monarchie assolute cattoliche europee badino a frenare l’espansione del
capitalismo dando aristotelici (più che evangelici) esempi contro
l’accumulazione di ricchezze. Questo telaio naturalmente doveva mantenersi
sotto l’autorità papale. Quando al termine del primo libro di “Utopia” lo scrittore
avanza l’abolizione della proprietà privata sta proponendo l’estrema soluzione
mirante a eliminare il capitalismo anticattolico, non una misura di giustizia
sociale: l’attivismo protestante, sulla base dell’analisi weberiana,
giustificherà teologicamente l’intraprendenza di impresa economica. Moro ha
visto con chiarezza il destino della Chiesa romana e che i suoi tributi
rappresentano un ostacolo pratico e ideologico al moderno capitalismo. Se
abolisce la proprietà privata delle persone fisiche, gli unici proprietari
rimanenti saranno gli Stati nazionali e soprattutto la Chiesa, la quale potrà
incamerare meglio (e più pacificamente) i proventi delle sue esazioni in ambito
internazionale. Che lo scrittore inglese evochi Platone sull’abolizione della
proprietà privata, sembra uno specchietto per le allodole. Volendo costruire un
machiavellico Cristianesimo razionale non richiama neanche principi evangelici.
I suoi obiettivi sono: tenere la massa calma lontana da spiriti sovversivi
causati dall’indigenza, lasciare l’impalcatura del potere feudale cattolico intatta,
garantire gli introiti tributari a Roma. Il capitalismo, che metterà l’abito del
Protestantesimo, costituisce un concreto pericolo, perciò se non si potesse
attuare un freno aristotelico all’accumulazione di ricchezza sarebbe il caso di
ricorrere all’extrema ratio platonica di abolire la proprietà personale. E poi
è il caso di puntualizzare che la “Repubblica” di Platone riserva la comunanza
dei beni non a tutti e con un’impostazione differente rispetto alle distorte
evocazione di Thomas More. L’isola di Utopia, di cui Moro fa descrizione sotto
ogni riguardo al secondo libro della sua opera, possiede una forma organizzativa
gerarchica feudale imperniata su una gerontocrazia di tipo patriarcale e sul
primato dell’attività agricola. Le abitazioni degli Utopiensi hanno porte
esterne senza chiusure interne, al termine di ogni decennio mediante sorteggio
ciascun nucleo familiare viene assegnato a diverso alloggio. Gli incarichi
amministrativi sono elettivi, ma l’autore non chiarisce molto bene la modalità
del suffragio (che rimane avvolta nel dubbio: con quale prassi si sceglie chi
ha diritto di esprimere le preferenze?): al vertice dello Stato sta un capo a
vita, una specie di Fuhrer. È prevista la pena di morte per i complotti
politici. L’impianto politico illustrato dal santo inglese è fondato sulla
“famiglia” di stampo agostiniano. I precedenti richiami a Platone si mostrano
ulteriormente contraddittori poiché il filosofo ateniese sopprimeva
quell’istituto nelle prime due categorie sociali allo scopo di combattere il
familismo. Thomas More nel fondare la sua visione sociale sul concetto di
famiglia mostra di nuovo la sua radice cattolico-aristotelica. Tutti i
cittadini, per così dire, liberi sono obbligati a uniformare il proprio
abbigliamento secondo quattro differenziazioni: uomini, donne, sposati e non.
Il che sa di uniformi settoriali di moderni regimi totalitari. I livelli
amministrativi di Utopia ricordano molto quelli ecclesiastici: il protofilarca
sta per il vescovo, il filarca per il sacerdote di parrocchia, in cima a tutti
una sorta di Papa/ Fuhrer. L’espediente “lavorare meno, lavorare tutti (giornata
lavorativa di sei ore)” fa parte della strategia anticapitalistica di More, non
di una concezione evangelica della vita: infatti lo scrittore non si fa nessuno
scrupolo a parlare di pena di morte, da lui respinta per il furto, in relazione
ad altre possibili ipotesi di reato. Per Tommaso Moro le donne della sua epoca,
che tradizionalmente si occupano della casa e degli affari interni di famiglia,
sono nullafacenti perditempo da impiegare oltre nella produzione generale. La
sua convinta, ingenua e semplicistica fede gli fa prendere di mira tra i
parassiti anche elementi del clero. Ciò dimostra che il suo Cristianesimo è radicale,
come peraltro si può notare, e che egli tema l’affermarsi di una nuova
organizzazione sociale a vocazione edonistica. Si veda alla lunga lo
svilupparsi del Protestantesimo e delle società dove è attecchito. Se il senso
di malessere abbandonerà l’uomo, costui metterà da parte la Chiesa cattolica
che propone il culto del sacrificio e della sofferenza. Pertanto quel clero che
agli occhi del popolo non suscitasse tale ispirazione è malvisto da More.
Quello rappresenta un clero già protestante, privilegiato dal benessere (al pari
dei capitalisti) grazie a imperscrutabile scelta divina, scelta di cui si
vedrebbero gli effetti esteriori. Emerge la dicotomia di fondo che distingue le
ideologie da proporre al popolo da parte di cattolici e protestanti: i primi
esaltano anche forme masochistiche, i secondi cercano Dio e la sua elezione
dell’uomo nella ricchezza. L’antiedonismo del filosofo inglese è espresso
chiaramente (e rientra nel canonico cliché propagandistico cattolico a cominciare
dalla sessuofobia): «Eius reipublicae institutio hunc unum scopum in primis
respicit, ut, quoad per publicas necessitates licet, quam plurimum temporis ab
servitio corporis ad animi libertatem cultumque civibus universis asseratur». Accanto
al controllo demografico rigido Moro sostiene un’idea molto antifemminista:
nella sua mentalità le donne sono fabbriche seriali di neonati, parla infatti
di nuclei familiari che debbano avere un minimo di dieci figli in età adulta
escludendo a priori il numero dei bambini. Se si tiene conto del periodo di
fertilità femminile lui sta ammettendo che le donne dalla loro maturità
sessuale alla menopausa potevano e dovevano trascorrere un notevolissimo spazio
di quell’arco temporale rimanendo incinte, e ciò in ossequio ai principi sulla
sessualità matrimoniale della Chiesa giunti sino al ’900. Nel suo cristianesimo
razionale il creatore di “Utopia” ricalca la misoginia neotestamentaria paolina
e quella veterotestamentaria accompagnata dai suoi precetti (nel seguente brano
peraltro si sente un’eco agostiniana): «Antiquissimus (ut dixi) praeest
familiae. Ministri sunt uxores maritis et liberi parentibus atque in summa
minores natu maioribus». Sebbene More celebri la – a suo modo di vedere –
libertà degli Utopiani, al fine di spostarsi da una città all’altra ci vuole il
consenso dell’autorità, e chi infrange il divieto compie reato. Per andare in
giro nel territorio cittadino occorre il benestare dell’anziano di famiglia
perfezionato dall’approvazione della moglie di questo (gerontocrazia
maschilistica). Comunque il tempo di tutti viene indirizzato ad attività
ritenute lecite, e nessuno può disporne in realtà in maniera pienamente libera:
tutto quanto è divertimento e svago nell’accezione comune e odierna dei termini
viene soppresso poiché giudicato nocivo rispetto a una sana condotta. Nella tutela
esterna di simile apparato sociopolitico l’autore del libro non si fa ancora
una volta scrupoli a prediligere machiavelliche metodologie quali la corruzione
o l’uso di milizie mercenarie preferendo il rischio di morte a carico di
stranieri. Nel secondo libro dell’opera lo scrittore inglese ribadisce il suo
attacco a ciò che ruota attorno a un meccanismo economico capitalistico: altro
exemplum ne è la denigrazione dei preziosi. Un piccolo dettaglio, però
altamente rivelatore, emerge nella critica di More rivolta all’ambizione di
dare un seguito alla logica aristotelica. Accompagnato in ciò da Erasmo da
Rotterdam, suo amico, rivela quale fosse la posizione del Cattolicesimo conservatore
pietrificatosi in ogni branca del sapere su Aristotele. Il maestro di Alessandro
Magno, nella riproposizione medievale, impantanò tutto grazie ai suoi
interessati cultori. Tommaso Moro non parla di progresso della medicina perché
nella visione giudaicocristiana un malessere, una patologia, un’epidemia sono
punizioni o correttivi mandati da Dio, il quale non si deve cercare di
contrastare con mezzi umani a causa del fatto che viceversa si andrebbe contro
la volontà divina. Medici e medicina nei secoli sono stati malvisti e ostacolati
dalla Chiesa rimasta ancorata all’imprecisa biologia antica. Ancora nell’Ottocento
il cattolico Manzoni presenterà un’epidemia di peste nel suo celeberrimo
romanzo quale strumento di giustizia. In materia di religione gli Utopiensi
riecheggiano il Cattolicesimo: credono nell’immortalità dell’anima e nei Novissimi,
Dio giudica. La Ragione da sola anche per loro non basterebbe a soddisfare le
esigenze di conoscenza e di compensazione spirituale per gli uomini: il loro
Cristianesimo razionale viene dato come scontato sotto il profilo
intellettuale. Quanto esposto da Moro non è nient’altro che tomismo. L’etica
utopiana che rifiuta il piacere in quanto tale per prediligere il rigore
(cattolico) nella logica di un premio ultraterreno svela chiaramente la sua
matrice culturale nevrotica. Il culto del masochismo e dello spirito di
sacrificio ha motivazioni patologiche e opportunistiche in chi lo subisce:
propizierebbe chissà che di meritorio allo sguardo di Dio, in luogo invece di
valutare ragionevolmente e provvedere ad hoc nelle varie situazioni. Davanti a
chi li inculca si presenta una platea condizionata da usare come mezzo di
controllo e di potere sulla società. Il Dio che risana l’ingiustizia
nell’aldilà tiene quieta una base popolare che altrimenti motivata potrebbe
sovvertire un ordine curato ad arte. Pensiamo alla Rivoluzione francese e al
modo in cui ha troncato l’egemonia culturale cristiana in Europa. Il vivere
secondo Natura in ossequio a Dio di cui tratta san Tommaso Moro costituisce una
nevrosi: infatti non è normale come fa lui disprezzare il piacere a vantaggio
di qualcosa che comunemente sarebbe giudicato indesiderabile. Egli si rivela
inconsapevolmente ipocrita. Predica bontà e legittima la pena di morte, non
condanna la persecuzione di streghe ed eretici dei suoi tempi. Evidentemente possiede
un’idea distorta, patologica, di cosa sia realmente buono. Torturare e uccidere
esseri umani a causa di fantasie nevrotiche che animavano varie azioni dell’Inquisizione
ispirate dalla Chiesa di Roma (di cui lui fa un’apologia) non rappresentano ai
suoi occhi “problemi”, tant’è che ne tace in maniera assoluta. Quella realtà negativa
era al suo sguardo “normale”, “naturale” mezzo di correzione. Tommaso Moro
teorizza una repubblica razionale (a suo modo) cattolica destinata ad arginare
l’allora imminente frattura protestante. Non disapprova la persecuzione giacché
la ritiene “giusta”, secondo Natura, conforme alla teologia dogmatica della
Chiesa, il tutto inquadrato in una nevrotica concezione di Cristianesimo
razionale (il quale subordina la ricerca scientifica a un distorto e oscuro
sentimento di fede). Il fatto che il filosofo inglese si sia spinto sino al
personale martirio accettando, e quasi cercando la sua condanna a morte per
questioni di principio che obiettivamente non meritavano quell’altissimo
rischio dimostra quale fosse il suo reale stato mentale, il quale ha ossequiato
con l’autodistruzione la sua folle erasmiana devozione. La fine di Tommaso Moro
è figlia dell’“Elogio della pazzia” del suo amico che aveva redatto a sua volta
in precedenza un’opera propagandistica cattolica richiamante pure al sacrificio
estremo sulla base di ragionamenti apologetici poco condivisibili. Moro parla
del piacere del benefattore verso gli altri, nella questione della
gratificazione personale ci mette di mezzo pure Dio: ma Thomas More cosa ha
fatto o detto contro le ingiustizie della sua epoca, le torture e le uccisioni
di chi la Chiesa considerava nemici a servizio del Diavolo, a cominciare dalle
streghe? Niente, dunque possiamo concludere che il piacere elogiato dallo
scrittore inglese sia non solo un soddisfacimento nevrotico dottrinario
cattolico (anche a livello pragmatico), ma altresì sia un piacere sadico nel sapere
orrendamente represse coloro che non sono allineati con la linea di
intolleranza intellettuale e religiosa, la misoginia e la teocrazia
ecclesiastica romana. Il fatto che una persona simile sia stata canonizzata
negli anni ’30 indica un background ideologico
religioso preoccupante. Se poi pensiamo che Dio gli abbia concesso di
intercedere per due miracoli almeno, necessari all’inserimento nel novero dei
santi sulla base delle esigenze procedurali di canonizzazione, restiamo ancor
di più perplessi sul dubbio che un tale Dio sia più quello veterotestamentario
che non quello più genuinamente evangelico. Il Cattolicesimo ha ostacolato nei
secoli il progresso scientifico poiché vi vedeva un fattore di emancipazione
umana dalla condizione di bisogno, una condizione su cui ha costruito un
generale masochistico castello catechetico: il piacere in sé allontanerebbe da
Dio a beneficio del Diavolo e della sua porta nel mondo rappresentata dalla
donna. San Tommaso Moro vanifica ulteriormente questi tratti formalmente
espressivi di bontà (?) quando definisce il lavoro del macellaio un compito da
schiavi (per via dell’attività venatoria, da lui deprecata, che affiderebbe a
loro). Emerge qui la visione classista aristotelico-feudale del mondo cattolico
medievale. Erasmo da Rotterdam e Thomas More non sembrano umanisti liberi e
progressisti, appaiono neomedievali difensori di un assetto sociale che la
Riforma protestante colpirà duramente in modo irrimediabile. In “Utopia” si
raggiunge un culmine della contraddizione nel momento in cui l’autore piange la
sofferenza delle bestie cacciate per passatempo: e la sofferenza di quelli
torturati e ammazzati per conto dell’Inquisizione perché non la rammenta?
Ovviamente per lui, che critica chi vuol proseguire e ampliare la logica aristotelica
dandogli del perditempo, un’opera invece quale il “Malleus malficarum” dei
domenicani Kramer e Sprenger è normale e non merita alcuna contestazione.
Parlare di tortura come mezzo volto a ottenere confessioni di eretici e streghe
agli occhi di More apparirebbe normalissimo. Al pari delle pubbliche
esecuzioni, dei roghi. Davanti a simili ingiustizie lui difende gli animali da
caccia: giacché riconoscerebbe alla Chiesa il diritto di promuovere quelle
aberranti condotte. E nessuno lo può difendere asserendo che è stato muto per
paura dato che si è fatto ammazzare proprio allo scopo di non mancare di
riguardo e di obbedienza a quell’istituzione romana. Per fare un paragone e
rendere l’idea di quella che giudico la non edificante condotta di Moro: è come
avere la Shoah davanti agli occhi e far finta di niente. Che uno proclamato
santo ritenga la vita di un animale meritevole di pubblica difesa, e sottaccia
là dove ci si aspetterebbe disapprovazione fa riflettere sulla Chiesa cattolica
ancora nel ’900 e sul suo Dio che gli avrebbe per giunta concesso approvazione
di miracolosa intercessione. Ma basta leggere un altro cattolico inglese,
stavolta con un piede nel ’900, quale monsignor Benson, se da parte di chi
nutre, secondo me, ponderati punti di vista si vuol rimanere parecchio
disorientati in relazione a difesa di posizioni dottrinarie cattoliche. San
Tommaso Moro riporta peraltro assurdità che non stanno né in cielo né in terra:
catrame e pece per le donne incinte sarebbero per loro gustose di più del miele
in quanto la gravidanza ne menomerebbe la facoltà. Innanzitutto lui che è stato
un “santo” avrebbe potuto agevolare la comprensione ai posteri di una simile
idea misogina, appunto perché poi non si comprende al di fuori di pareri antifemministi
il motivo per cui donne incinte dovrebbero assaggiare quelle sostanze (il che
costituisce esempio e sintomo di indelicatezza verso il gentil sesso) e perché
quelle (o altre proprie) dovrebbero diventare così dolci proprio durante la
gestazione. Tali idee, legate a una biologia non fatta progredire e ostacolata,
mostrano che cosa fosse realmente la società europea cattolica di quei tempi
nei secoli bui del Medioevo. Poi accade che retaggi negativi del passato
giungano sino a oggi. In “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez ad
esempio una delle donne protagoniste mangiava terra: l’America Latina è
imbevuta del maschilismo di matrice educativa cattolica, il quale riduce le
donne ad aberrazione di natura (si veda quanto sostenuto da san Tommaso
d’Aquino nella “Summa theologica”, più vicino a Moro con il suo misogino
aristotelismo di quanto lo sia rispetto a noi). Il filosofo inglese boccia
l’edonismo, respinge lo spirito di sacrificio che non sia stato rivolto in
conformità alla sua ottica teologica. Egli continua a lodare il sistema sociale
degli Utopiani, i quali nel loro Cristianesimo razionale naturalmente
ritengono possibile che solo qualcosa di rivelato dalla suprema unica divinità
possa lecitamente ampliare la loro conoscenza di cosa sia bene per il singolo e
per la comunità. Una sola volta in tutta “Utopia” l’autore ricorda il nome di
Aristotele, perno concettuale su cui è costruita la teologia cattolica
codificata ampiamente da san Tommaso d’Aquino ammiratore dello Stagirita. Altra
cosa normalmente significativa, molto sconcertante (come già in precedenza
spiegato) è che Moro nel fare nomi di riferimento scientifico medico nel XV
secolo vada a menzionare Ippocrate e Galeno: ciò la dice lunga di come, perché,
l’Europa medievale sia, non a torto, stata connessa all’oscurantismo. La
conoscenza medica continuò a faticare moltissimo pure nel periodo
umanistico-rinascimentale, e vedendo le totali arretratezza e chiusura di san
Tommaso Moro siamo in grado di renderci consapevoli di come gli intellettuali
cattolici abbiano rallentato il progresso. Fosse stato per loro saremo ancora
alla biologia di Aristotele, Ippocrate e Galeno. La terra sarebbe al centro del
nostro sistema solare, con il sole che le girerebbe attorno. Il povero Galileo
Galilei non fu così insensato di farsi torturare e uccidere dai cattolici a
causa di qualcosa che oggi è ovvio, però che ha sofferto per diventarlo. Thomas
More invece a causa di questioni religiose, le quali l’analisi storica ha ormai
svelato essere aria fritta, si è fatto ammazzare, quando poteva salvarsi al
pari di Galilei. L’educazione cattolica di quello lo aveva condizionato sino a
tale patologica letale suicida ostinazione. Quel che fece nel farsi condannare
a morte manifesta masochismo estremo: essere ucciso credendo di meritare e
ottenere un premio nell’aldilà, di raggiungere chissà quale gioiosa condizione,
rappresenta un gesto che non compì neanche Galileo Galilei che era uno
scienziato vero il quale dovette scontrarsi con i filoaristotelici. Soltanto
una mentalità nevrotica poteva proiettarsi in qualcosa di palesemente insano e
autodistruttivo: nessuno normalmente si fa ammazzare allo scopo di confermare
una decisione politica di un Papa sopra un negato divorzio a meno che non abbia
una patologica vocazione da martire nevrotico. Tommaso Moro va esaminato sotto
lo sguardo clinico, al pari di altri personaggi della Chiesa e di altri santi.
Nessuno può negare che le sante anoressiche erano donne bisognose di
assistenza medica moderna, e che simili altri atteggiamenti masochistici
avessero un’origine nella deviazione dal consuetudinario equilibrio psichico
mentale. Se la psicanalisi fosse nata prima gli atteggiamenti di varia
intolleranza del Cristianesimo avrebbero potuto trovare un argine di studio
clinico. Se fede e nevrosi coincidono si torna nel Medioevo, si perseguitano e
si torturano streghe ed eretici sino al Rinascimento in modi che non hanno
niente di più lieve rispetto alle persecuzioni naziste. Allorché Tommaso Moro
esalta la medicina quale strumento di conoscenza concesso da Dio all’uomo lo
sta facendo in quella versione cristallizzata cattolico-aristotelica: è quella
la sua biologia, quella che spiega con ragionamenti pseudoscientifici
l’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Non sta parlando con uno spirito
indagatore moderno, e tutto il suo impianto concettuale narrativo in “Utopia”
lo testimonia. La sua scienza si ferma ad Aristotele, Ippocrate e Galeno. San
Tommaso d’Aquino ribadisce che la donna è inferiore nei confronti del maschio,
sulla base di quella scienza antica e sulla base della Bibbia. Moro non va
oltre il tomismo medievale, ne ripropone anzi un modello sociopolitico animato
da un Cristianesimo razionale, il quale in fine dei conti è già contenuto nella
filosofia tomistica del suo omonimo predecessore, a cui fu un’eco in logica di
contenimento del venturo protestantesimo, un’eco di esaltazione di una
specifica ideologia socioreligiosa. Questi Utopiensi di Moro sono così
scientificamente progrediti che l’unica cosa degna di nota è la stampa presa
dagli Europei: lo scrittore inglese oggigiorno appare privo di una fantasia sul
progresso che la sua nevrosi gli ha bloccato, sembra insignificante decantare
simile stadio di avanzamento tecnologico. A Utopia non ci sono aerei, non ci
sono telefoni, non ci sono computer, non ci sono automobili. Nell’“Orlando
furioso” (uscito lo stesso anno di “Utopia”) si va sulla Luna, ma Tommaso Moro,
memore della vicenda della torre di Babele, non potrebbe, ad esempio, andarci
poiché Dio non vorrebbe. Quanto Dio rende lecito viene spiegato ai suoi occhi
nella Bibbia e ripetuto dall’insegnamento della Chiesa: è lecito perseguitare e
ammazzare i nemici (soprattutto religiosi e le streghe, infatti egli non batte
ciglio al riguardo). In materia di schiavitù More è parimenti scandaloso nel
legittimarla e nell’adeguarsi oltre che ad Aristotele pure alla linea di pensiero
veterotestamentario, naturalmente rielaborati a beneficio della sua immaginaria
costruzione politica: basta leggere i testi per vedere il sostanziale comune
fondo concettuale. Egli prevede un particolare accanimento punitivo a carico
degli schiavi di origine utopiense mentre si dimostra più clemente con quelli
di provenienza esterna. Questo pensiero rivela, accanto ad assenza di umanità
nel trattamento di condannati, un’involontaria e indiretta approvazione delle
persecuzioni cattoliche nel momento in cui ammette lecito i maltrattamenti su
particolari soggetti i quali hanno violato le regole del suo illiberale e
totalitario sistema socioreligioso. È come se stesse dicendo apertamente di
essere d’accordo a reprimere i dissidenti e i ritenuti tali all’interno del
Cattolicesimo facendo altresì ricorso all’uso della forza nei confronti di
eretici e streghe, i quali nient’altro erano che immaginari nemici prodotti di
nevrosi ossessiva misogina maschilista sadica sia sugli uomini che sulle donne
(molto più bersagliate dei primi). Quando il pensatore inglese si pone fautore
dell’eutanasia forzata riguardo ai malati incurabili notiamo un nuovo
gravissimo aspetto della sua creazione ideologica. Già spiegato che essa è
un’elaborazione di Cristianesimo razionale medievale, possiamo adesso osservare
una molto sconcertante tangenza col nazismo tedesco novecentesco. Se rispetto a
una etichetta astratta politica il suo Stato può essere definito
nazional-socialista, a proposito di una materia di tangenza storica (evocata
più indietro nell’analisi) davanti a noi si trova un’idea comune della prassi
nazista: l’eliminazione calcolata di disabili per vari motivi. Tommaso Moro non
afferma la libertà di autodeterminazione del malato incurabile, parla
chiaramente di induzione all’eutanasia. Il che è praticamente contiguo al
pensiero nazista: liberare la società da peso inutile. Si resta senza parole
quando uno, il quale sarà proclamato santo, propone, tra l’altro, l’eutanasia
per inedia. Fare digiuni era usanza devozionale nel Cristianesimo, portarla
all’estremo era giudicato motivo di merito davanti a Dio: portarla all’estremo
al fine di attuare l’eutanasia ideata dal pensatore inglese sarebbe secondo lui
lecito, gesto encomiabile. Nella persuasione in generale del soggetto da
sopprimere lui ammette l’azione di sacerdoti utopiani, i quali a suo dire
rappresenterebbero l’autorità divina, il Dio unico razionale tomista. Purché chi
sia da eliminare venga soppresso Moro dà spazio all’eutanasia con anestesia.
Volendo salvare le apparenze aggiunge che nessuno viene “obbligato”
all’eutanasia nel tentativo di “mitigare” l’idea che però prospetta a monte di
“azione di persuasione” sul malato incurabile, e quindi costituente
un’operazione di condizionamento psicologico la quale non consente molta
effettiva libertà a chi si trova una pressione addosso indirizzata
all’ottenimento dell’eutanasia. More oltre che essere contorto e
contraddittorio non ammette di fatto libertà: se il malato viceversa si
suicidasse prima dell’autorizzazione avrebbe commesso un reato e il suo
cadavere andrebbe buttato via da qualche parte malsana all’aperto. Una cosa del
genere costituisce oggi un crimine gravissimo, e si chiama “vilipendio di
cadavere”. Ma dov’è la santità di Tommaso Moro? Sembra un teorico precursore
del nazismo in Germania. Durante la Controriforma un brano del primo libro di “Utopia”
fu censurato giacché ritenuto controproducente per la Chiesa: si tratta di
quello dello scontro in cui viene coinvolto un frate, un brano ai nostri moderni
progrediti occhi del tutto irrilevante. La cosa rilevante è notare come nello
slancio censorio tutto il resto venga approvato a beneficio della divulgazione.
Da ciò deduciamo che tutto l’inquietante impianto ideologico di More viene
considerato ortodosso da parte dei controllori cattolici. Non hanno censurato
la schiavitù, l’eutanasia, la misoginia, l’intolleranza... Il san Tommaso Moro
canonizzato nel 1935 possiede non poche tangenze ideologiche con i nazisti
tedeschi. Nel proclamare santo questo cattolico inglese non si possono oggi
scorporare le sue idee giudicate “pericolosie. L’“eroico esercizio delle virtù
cristiane” di More risiede nella sua integrità, dagli scritti al fatto che si
fece ammazzare. La Controriforma confermò sostanzialmente simile ottica e la
canonizzazione del ’35 ribadisce formalmente tutto, a prescindere dai miracoli
richiesti dalla procedura canonica. Che ai nostri tempi si voglia elogiare il
pensatore inglese astraendolo dal suo organico contesto cercando di
idealizzarlo, mettendo all’angolo le cose sgradevoli, costituisce operazione
storiografica indebita. La chiara conoscenza storica e la corretta ermeneutica
di un testo sono azioni da condursi senza occhiali fideistici, i quali
falsificano la realtà a vantaggio di eventuali posizioni religiose preordinate.
La realtà dei fatti dice che nel 1935 è stato canonizzato uno che sosteneva una
forma di eutanasia nazista. In ossequio alla tradizione giudaicocristiana,
nonché cattolica, Moro disapprova il rapporto sessuale prematrimoniale, oggetto
di rigida sanzione: si tratta ai suoi occhi di un crimine in grado di impedire
perpetuamente il diritto a contrarre matrimonio in futuro. Solo la grazia
concessa dal capo supremo può rimediare a tale impedimento, che nella punizione
coinvolge anche i genitori dei correi visti come pessimi educatori. Qui emerge
la sessuofobia del filosofo e della sua Chiesa: il tradimento matrimoniale in Utopia
viene punito con la riduzione in schiavitù. Comunque, si concede in quella
distopica isola uno spiraglio a un lecito divorzio, nonostante il matrimonio
sia considerato indissolubile (il tutto al pari della Chiesa col suo
particolare tribunale che dispensa scioglimenti nei casi ritenuti accettabili).
Possibile la grazia del capo supremo a vantaggio dei fedifraghi in circostanze
particolari, ma anche la pena capitale a scapito dei recidivi. La reazionaria
idea di giustizia di Moro compare con chiarezza. Egli rifiuta il criterio di un
codice penale disciplinante l’intera gamma dei crimini in genere. La sua
visione patriarcale lascia il potere sanzionatorio residuo rispetto a quanto
regolato dallo Stato nelle mani delle figure di marito e padre, mogli e figli
occupano il livello destinato all’imputazione. Tutto ruota attorno al “maschio
adulto”. Come ormai visto, ampio spazio viene dato alla misura sanzionatoria
della schiavitù, somministrata generalmente a soggetti le cui colpe sono
valutate notevoli. Lo scrittore inglese in “Utopia” ha tratteggiato un
articolato apologo della servitù coattiva: oggigiorno essa rappresenta un
gravissimo reato, e nell’amministrazione della giustizia degli Stati civili e
progrediti si mantiene il rispetto della dignità umana del condannato
escludendo situazioni che ledano principi di validità universale: nuocere alla
salute mentale e fisica con intenzionale proposito repressivo non giova a
niente, danneggia la prospettiva di recupero comportamentale del condannato. I
metodi persecutori usati nella caccia alle streghe, nella ricerca di eretici,
le torture connesse e le loro esecuzioni rientrano nei crimini contro l’umanità.
In relazione a questa qualità di reati san Tommaso Moro non oppone critica,
anzi si dimostra, per giunta poco tacitamente, consenziente. Egli riassume la
forma mentis dominante cattolica dell’epoca in cui visse e che costui ha
“indossato”. Inoltre si rende precursore ideologico di altri negativi futuri
scenari storici. Negli schiavi utopiani il pensatore inglese individua una
categoria di persone da mortificare allo sguardo di tutti con scopo di
deterrenza (pertanto esclude la pena capitale diretta) e da sfruttare a scopi
pratici per utilità. Simili formulazioni ideologiche nell’opera letteraria di
un “santo” nel XXI secolo creano non pochi disorientamenti, specialmente se
rammentiamo il fatto che è stato canonizzato nel 1935. Nelle parole di lui possiamo
scorgere l’emarginazione degli Ebrei tedeschi durante il nazismo, una storia di
emarginazione e persecuzione la quale è iniziata a opera dei Cattolici parecchi
secoli prima di Moro, e di cui egli non fa condanna. Il Cristianesimo razionale
di Utopia ingloba, in modo apparentemente invisibile, però sostanziale e
percepibile, l’antisemitismo. Il primo libro dell’opera contiene, cosa già
accennata, un’espressione antisemita, non una manifestazione di simpatia.
Thomas More paragona agli animali selvaggi chi si rivolta a tale suo metro di
schiavizzazione, e naturalmente va per lui messo a morte. Dice apertamente che
agli schiavi viene riservata la sofferenza allo scopo di emendarsi dalla loro
colpa: solo in tal modo possono ambire alla lunga a un alleggerimento del
trattamento o anche alla grazia. Siamo agli antipodi di un diritto sano ed
equilibrato: idee simili saranno ribaltate soltanto durante l’Illuminismo.
Canonizzare More nel ’900, sottintendendo che i suoi scritti riflettano
intenzioni divine (non trascuriamo il “visto” datogli dalla Controriforma),
appare alquanto equivoco. Il ’900 è stato il secolo dei totalitarismi: al di là
del caso pertinente del nazismo è da ricordarsi altresì il conservatore regime
franchista in Spagna. La Guerra civile spagnola scoppiò nel 1936: i Cattolici furono
dalla parte dei franchisti che abbatterono militarmente un governo democratico
repubblicano a beneficio di una dittatura anticomunista. Il socialismo di Moro
rappresenta solo un cinquecentesco espediente anticapitalistico antiprotestante
legato al suo tempo. Non si può fare un paragone col marxismo, il termine di
paragone più corretto (il perché è stato sufficientemente chiarito) è il
nazionalsocialismo tedesco. Simone Weil ha spiegato che la Chiesa medievale
costituisce la madre del totalitarismo moderno, quindi niente di scorretto nel
mio esame: Tommaso Moro e il nazismo hanno lo stesso capostipite ideologico. Il
secondo riprese una serie di idee laicizzate e filtrate dal Luteranesimo
(antisemitismo, volontarismo) e provenute da alcuni filosofi i quali fecero
apologia delle genti germaniche (Fichte, Hegel, Nietzsche) riprendendo un’idea
tipicamente biblico-cristiana di “gruppo sociale eletto” (Giudei nell’Antico
Testamento, la Chiesa in base alla teologia cattolica col Nuovo, la Germania
mantenutasi pura nei secoli per i sostenitori di tale idea nazionalistica con
la sua “razza ariana” contrapposta a “razze inferiori”). Il Cristianesimo
razionale di Thomas More in “Utopia” e il Cristianesimo razionale di Hans Kerrl
nella Germania nazista sono imparentati. E da quanto si può valutare sembra che
nel 1935 la lontananza temporale sia stata soppressa. La Spagna franchista,
d’altro canto, è stata una sui generis Utopia (alla maniera cattolica di Moro).
Un’altra gravissima lacuna sotto il profilo del diritto in Utopia proviene
dall’equiparazione delle intenzioni di delinquere al reato compiuto. Thomas More,
poi, andando avanti nella sua esposizione, va a riprendere un classico della
misoginia il “De cultu feminarum” di Tertulliano (senza farne esplicita
menzione per disapprovare con fermezza l’uso femminile di cosmetici). Il
“Malleus maleficarum” informa che dietro la bellezza muliebre si può celare il
Diavolo, perciò in generale in quei secoli bui del Medioevo, e oltre, le donne
che avessero usato cosmetici erano sospettabili di qualcosa di losco. La
misoginia personale di Moro, frutto della sua formazione cattolica, appare
evidente: «Ut enim formam naturalem non tueri segnis atque inertis ducunt, sic
adiumentum ab fucis quaerere infamis apud illos insolentia est. Usu enim ipso
sentiunt, quam non ullum formae decus uxores aeque ac morum probitas et
reverentia commendet maritis. Nam ut forma nonnulli sola capiuntur, ita nemo
nisi virtute atque obsequio retinetur». Se egli non pensasse che le donne non
siano tentatrici porte del Demonio, esseri umani di serie B (come insegnano sant’Agostino
d’Ippona e San Tommaso d’Aquino), bisognose di maschili controllo e guida, non
direbbe simili cose. Nel momento in cui Moro parla di Europa pare di ascoltare
un franchista (monarchia – Chiesa – Cristo): « Etenim in Europa idque his
potissimum partibus, quas Christi fides et religio possidet, sancta est et
inviolabilis ubique maiestas foederum, partim ipsa iustitia et bonitate principum,
partim summorum reverentia metuque pontificum, qui ut nihil in se recipiunt
ipsi, quod non religiosissime praestant. Ita ceteros omnes principes iubent, ut
pollicitis omnibus modis immorentur, tergiversantes vero pastorali censura et
severitate compellunt». Predica una solidarietà umana dove però non ci sia deroga
all’unisono cattolico: vorrebbe tutti compatti ben allineati in questa
ideologia religiosa. L’amicizia di cui lui ragiona è la ciceroniana solidarietà
di specie al di fuori della quale nulla è lecito: «At illi contra censent
neminem pro inimico habendum, a quo nihil iniuriae profectum est; naturae
consortium, foederis vice esse; et satius valentiusque homines invicem
benevolentia quam pactis, animo quam verbis connecti». Chi è organico al sistema
e (acriticamente o meno) ossequioso rimane “amico”, chi no diventa nemico: di
fronte agli eretici, alle streghe, agli Ebrei i cattolici dei secoli passati hanno
smarrito la decantata concretezza evangelica. Un numero imprecisato di uomini e
donne è stato barbaramente torturato e orrendamente ammazzato il nome di Gesù
Cristo, di Dio, della Chiesa. San Tommaso Moro ha taciuto di questi crimini
contro l’umanità, proponendo una patologica distopica versione sociopolitica
reazionaria di quell’apparato illiberale e persecutore. L’isola di Utopia
rappresenta quanto costui desidererebbe si radicasse nella sua isola di
residenza, l’Inghilterra. Il tema dell’insularità non sembra occasionale,
possiede anch’esso le proprie recondite (allo sguardo superficiale) sfumature.
Il pensatore inglese vagheggia un’Inghilterra distopica cattolica. Quando
scrissi il mio saggio su “Lord of the World” di monsignor Benson ebbi a
spiegare che consideravo la sua distopia in effetti un’utopia, una prospettiva
futura positiva. Nella mia disamina di “Utopia” debbo invece concludere con un
pensiero di natura opposta: ciò che è stato concepito quale ideale in tale
libro, tenendo peraltro a battesimo semantico il termine, non ha nella sua
sostanza concettuale esposta, a mio avviso, alcunché di positivo a causa delle
ragioni che ho via via indicato nell’analisi in corso. Un argomento cui More
non fa assolutamente cenno è la questione degli omosessuali, perseguitati dalla
Chiesa al pari di streghe ed eretici: tanto abominevole gli sarà apparso tale
cattolico gravissimo peccato. Non gli sarà sembrato producente dire che ci
fossero Utopiensi gay. Tuttavia guardando il fondo del suo barile intellettuale
pare indubbio che fra i crimini da condannare con la schiavitù a Utopia (lui
parla di generici indefiniti crimini di rilevanza pubblica) ci sia pure
l’omosessualità. Quando dice in generale di far soffrire il condannato allo
scopo di emendarlo dalla sua mancanza rivela più che una, già di per sé,
assurda giustizia una mentalità sadica alla base di azioni di tortura e di
morte e di opere esplicative persecutorie quali il “Malleus maleficarum” (libro
scritto da due domenicani). Una persona sana di mente non ammetterebbe a parole
la possibilità di recare di proposito sofferenza e dolore fisici e mentali a un
suo simile, né tanto meno legittimerebbe simili aberranti comportamenti
attuandoli. Tali atti costituiscono crimini contro l’umanità, specialmente se
perpetrati in maniera programmatica nello spazio e nel tempo; e chi tacitamente
o apertamente li approva cade nella banalità del male se non, peggio ancora,
nell’apologia di reato. Ricordiamo ad esempio, che l’Inquisizione spagnola ebbe
potere di agire in tutta l’America Latina rendendo quell’area del pianeta, dove
le civiltà precolombiane sono scomparse, un campo di diffusione integrale del
cattolicesimo. Uno dei problemi teologici emersi in quelle terre fu se i
precolombiani avessero o meno un’anima, e se fosse dunque lecito sterminarli in
quanto non umani. Non si può leggere san Tommaso Moro portandolo fuori
dell’Europa cattolica quattrocentesca e cinquecentesca, e interpretare le sue
parole con categorie pregiudiziali obiettivamente fuorvianti. Se non si parte
dal principio di capire cosa è stato detto e perché, ma con quello di spiegare,
abbellire, e giustificare non avremo compiuto un procedimento scientifico bensì
un atto di promozione mirato a far gradire un sepolcro imbiancato. Gli Utopiani
di Moro rifiutano in linea di principio i conflitti bellici poiché non umani,
però subito dopo l’autore inglese li autorizza a praticare la guerra nelle
circostanze giudicate “giuste” e li dipinge altresì particolarmente vendicativi.
La guerra costituisce un male assoluto e non esistono spazi a beneficio
dell’idea di vendicativa rivalsa o di operazioni belliche di sostegno. Qui Moro
cestina ancora una volta i principi evangelici come modernamente intesi. Egli
non fa porgere tanto l’altra guancia, valuta l’uso della forza legittimato dal
fine di mantenere quanto giudica, dal suo punto di vista, essere ordine e
rispetto necessari. La Cristianità cattolica europea, secondo lui, e secondo
l’amico Erasmo, dovrebbe essere compatta, pacificata, e allineata a Roma
cattolica nel suo interno, pronta a sopprimere i nemici esterni pure mediante
gli eserciti. Ugualmente legittima, come notato, la repressione dei “nemici
interni”. Moro paventa la guerra civile armata della Cristianità tra futuri
schieramenti politici: filocattolici e filoprotestanti. La sua contraddittoria
riprovazione della violenza bellica sembra uno specchietto per le allodole, un
paravento retorico indirizzato a scongiurare la prossima rottura interna del
Cristianesimo. Altresì chiaro, ad esempio, che per lui una crociata, in quanto
guerra santa, sia un’azione bellica formalmente indiscutibile poiché promossa
dalla Chiesa. Egli disapprova le guerre e i loro effetti negativi nel momento
in cui sono controproducenti davanti al suo castello ideologico, però quando
sono richieste quale mezzo di tutela le ammette possibili. Il filosofo inglese
ragiona della guerra quale possibile via a favore di una punizione esemplare
deterrente a scapito degli avversari. Disapprova in generale le classiche
guerre esterne sanguinose, e quasi quasi sembra intuire il futuro avvento delle
sostitutive “guerre economiche”. A lui, in ogni caso, interessa salvare il Cattolicesimo
da tutti i suoi nemici, interni ed esterni, e non si fa poi così tanti scrupoli
riguardo al rischio di apparire retorico, propagandistico e contraddittorio nei
confronti della posterità. In effetti non sente questi limiti poiché è organico
figlio della sua epoca e del suo ambiente socioculturale dominante. Con i suoi
ragionamenti si potrebbe addirittura formalmente legittimare lo sgancio delle
bombe atomiche americane sul Giappone nel 1945. San Tommaso Moro, d’altro lato
elogia il valore della corruzione come machiavellico espediente allo scopo di
vincere la guerra. Questo particolare, oltre a essere non tanto onorevole poiché
fa prediche moralistiche, è rivelatore di un aspetto evidenziato nella prima
parte dell’analisi: More ha intuito il peso della brama capitalistica della
ricchezza che si annida nei ceti imprenditoriali prossimi a sostenere la
Riforma allo scopo di liberarsi dei prelievi periodici tributari a beneficio
della Chiesa di Roma. Sta proponendo di sfruttare il vampirismo dei peggiori imprenditori
a vantaggio di un particolare tornaconto stimolandoli a tradire e a vendersi.
In caso di insuccesso trova utile promuovere la ricerca di terroristi, dietro
promessa di ricompensa, presso le masse avversarie; terroristi che uccidano o
catturino i capi nemici (da consegnare agli Utopiensi). Restano sempre delle
perplessità. Come si può canonizzare nel 1935 uno che scrive cose del genere?
Come può Dio accogliere richieste di intercessione a beneficio di miracoli da
costui? L’intuizione di More sulla natura capitalistico-protestante
dell’avversario lo induce a smascherarsi e a contraddirsi. Da un canto egli
abolirebbe la proprietà privata con l’obiettivo di togliere la base vitale al
nemico, però dall’altro, se questo cambiasse campo e tradisse, gli offrirebbe
un ricco premio altresì in beni immobili. Il diritto a una illimitata proprietà
privata di beni mobili e immobili emergerà con chiarezza nelle società protestanti.
L’obiettivo del filosofo inglese nella realtà è quello di salvare la Chiesa di
Roma a qualunque costo. Perciò manterrebbe la proprietà privata all’esterno di Utopia
nella veste di strumento politico di controllo: divide et impera (non
universalità omogenea). More elogia la sua machiavellica “guerra intelligente”,
ritenuta efficace e in grado di causare poche vittime. Lui ha visto il mondo
delle moderne guerre economiche e dello spionaggio insito nel capitalismo, e
prende le adeguate misure le quali saranno del futuro. L’autore di “Utopia” non
pone limiti al suo machiavellismo proponendo tradimento, corruzione e
istigazione a nuocere quale metodi naturali scontati all’interno del suo
sistema ideologico cattolico. Il ripudio della guerra da parte di Moro si
rivela di nuovo nitidamente per quel che è nel momento in cui afferma possibile
il ricorso a milizie mercenarie: a chi importa limitare danni alla sua parte,
poi, tutti i modi sono leciti per annientare gli avversari. Non risulta
difficile immaginare che lo scrittore inglese tema che i tributi per Roma
cattolica possano finire a soldati mercenari al fine di usarli come mezzo di
emancipazione: dunque More prima dice che gli Utopiani se ne servono, quindi li
disprezza perché pilotati solo dal denaro. Conclusione: le milizie mercenarie
vanno tenute sotto controllo economico come fanno i ricchissimi
nazional-socialisti utopiani. Il pensatore auspica persino che i soldati
mercenari possano ammazzarsi nella guerra inter se allo scopo di togliersi dai
piedi risolvendo il problema proveniente dalla loro presenza. Quelli che alla
fin fine possono definirsi deliranti visioni sociopolitiche distopiche di
Thomas More raggiungono un altro significativo vertice di assurdità allorché
egli dice che i militi utopiensi possono essere accompagnati in battaglia da
mogli e figli: sostenere una cosa simile rappresenta pura pazzia. Ciò
costituisce disprezzo della vita umana e promozione del fanatismo nell’ambito
dei conflitti. Se la “guerra intelligente” non funzionasse, Utopia (lo Stato
del Cristianesimo razionale) andrebbe difesa con tutte le risorse possibili.
Qui muore del tutto il pacifismo se si pensa di mettere in campo bellico donne
e bambini a difesa di un’organizzazione sociopolitica totalitaria e illiberale.
Per Moro la morte rimane preferibile a indietreggiare rispetto a detto
obiettivo. E in pratica costituisce quanto ha fatto lui nella realtà, per
difendere l’ideologia politico-religiosa cattolico-romana e il suo apparato. Si
è spinto sino all’estremo sacrificio rifiutando di aver salva la vita in cambio
di un compromesso. La coerenza nel caso di Thomas More rappresenta qualcosa che
che contiene aspetti patologici, qualcosa motivato da nevrosi, di cui un
intellettuale di quel livello si sarebbe potuto liberare. Nonostante la
formazione cattolica visse nel periodo umanistico-rinascimentale e c’era gente
che rivendicava il rispetto di valori più liberi, meno totalitari, più vicini
all’equilibrata modernità. Lui ha bocciato questi preferendo seguire un
involutivo cammino esistenziale personale. Non sembra si possa sostenere che
sia stato e costituisca tuttora un bell’esempio, né per la pratica in sostanza
suicida (la quale più che testimoniare una fede ha palesato un quadro nevrotico)
né per le parole (le quali ben lette e inquadrate lasciano disorientamento e
sconcerto). Riguardo all’esplicita trattazione del tema religioso nell’isola di
Utopia il filosofo inglese mostra molto chiaramente il Cristianesimo razionale
di fondo: religione principale degli Utopiensi è un monoteismo maschilista
(chiamano infatti il Dio creatore esclusivo, principio e destino dell’universo,
Pater). Gli Utopiani però conosciuto il Cattolicesimo hanno avuto una naturale
inclinazione ad accoglierlo. A quanto detto indotti nella simpatia dalla
fenomenologia del martirio cristiano e dalla figura di Cristo il quale proclamò
il comunismo dei beni. Simili tangenze ideologiche avrebbero spinto molti
abitanti dell’Isola a farsi battezzare se non fosse stato per la mancanza di un
sacerdote. Nell’ultima parte di “utopia” l’autore si ammanta di sostanziale
malcelata ipocrisia. Dopo aver fatto in un lungo e in largo l’apologia del
Cattolicesimo (storicamente persecutore) parla di tolleranza di eventuali
differenti posizioni religiose. Innanzitutto sta dicendo di tollerare altrui
“religioni”, non sta affermando di tollerare le eresie interne del
Cattolicesimo o di respingere la misoginia (che egli convalida) alla base della
caccia alle streghe. Si deve far bene attenzione semantica alle sue parole. Nel
suo tomismo egli sta dicendo che è meglio persuadere i Gentiles con strumenti
intellettuali mediatici piuttosto che far ricorso alla forza. E ciò peraltro
nel momento in cui il suo uso avrebbe più nuociuto ai Cattolici che non ai
Protestanti (bene in grado di difendersi, come hanno fatto: non c’era nessuna
armata cattolica così potente da fronteggiare lo schieramento scismatico
protestante e riportarlo nel grembo della Chiesa romana). La tolleranza
retorica di More nasconde una mira propagandistica antieversiva. Messi
all’angolo col fiato sul collo nel Nord europeo, area di sviluppo della moderna
intraprendenza imprenditoriale, i cattolici come lui e l’amico Erasmo da
Rotterdam imboccano una tolleranza da usare in previsione futura a tutela di
fronte a gravi situazioni divisorie, però nel mentre rimangono su posizioni
reazionarie all’interno del Cattolicesimo integrale. Tolleranza tra Cattolici e
Gentiles, ma all’interno del Cattolicesimo non si deroga. L’oggetto della
tolleranza di Moro sono i non cristiani ab ovo, non gli eretici interni che si
allontanano dall’ortodossia. In parole povere quando la situazione sta per
sfuggire dalle loro mani invocano trattamenti rispettosi davanti a un grande
rivale capace di tenere testa politicamente e militarmente al predominio
cattolico romano radicato nelle monarchie e nei ceti di controllo fedeli al modello
medievale europeo. L’idea di tolleranza di Moro si presta subito ad ambiguità e
a un doppio gioco. Se da un canto manifesta una facciata di bontà davanti ai
Gentiles, a cui rivolgere un’azione di persuasione cattolica in stile
filosofico-tomista e predicatorio-paolino congiunta all’iniziale rifiuto della
violenza, dall’altro lascia la porta aperta all’uso della repressione di chi, a
suo modo di vedere, si dimostra “non tollerante” nel confronto religioso e
“sovversivo” in ambito sociale. Notando che egli ha vestito ipocriti panni di
tolleranza, si conclude che gli “intolleranti” risulteranno solo essere suoi
avversari, interni ed esterni. Lo scrittore inglese fa un preciso esempio di
carattere interno cristiano in Europa: un infervorato esagerato predicatore,
una specie di Savonarola o di Lutero per rendere l’idea, colpito, come dice Moro,
più sulla base di motivazioni sociopolitiche che strettamente religiose. Thomas
More teme il futuro Cristianesimo radicale protestante a causa del suo potere
socialmente eversivo: infatti il feudalesimo agricolo medievale cederà il passo
alla società capitalistica borghese. Circa la gestione interna nel Cattolicesimo
di devianze è allora ancor più chiaro il fatto che il filosofo inglese ritenga
“legale” l’uso della repressione nei casi di allontanamento dall’ortodossia, e
come l’orwelliano O’Brien sottintende che non è utile fare martiri politici. Le
intuizioni di Moro lo portano a ragionare con una mentalità strategica più
avanzata dove l’aspetto persuasivo mediatico prende il sopravvento
sull’ottenimento di un obiettivo mediante l’imposizione coattiva diretta.
Questo è un discorso generale per una gamma di persone analoghe ai destinatari
della tomistica “Summa contra Gentiles”. Ma altresì valido nelle faccende
interne di natura sociopolitica. Il filosofo inglese ha infatti specificato che
esilio o schiavitù non costituiscono la pena per la colpa di lesione teologica
ma per quella di istigazione alla rivolta: il crimine interno di cui tratta non
è religioso, dunque non rientra nel campo dell’indagine inquisitoria teologica
cattolica. Moro distingue due categorie: i non cristiani ab ovo e i non
ortodossi interni. Fra questi ultimi fa un ulteriore distinzione: i rei
politici e, per esclusione, quelli strettamente religiosi (streghe, eretici,
omosessuali, Giudei). Se ai primi riserva la sofferenza sadica della schiavitù
nella sua concezione, niente di strano che accetti torture e uccisioni per
stregoneria, eresia, omosessualità, professione di Ebraismo. Non dimentichiamo
che egli parlando della schiavitù ha detto che essa debba essere una misura
punitiva atta a recare proprio sofferenza. La sua contorsione espositiva lascia
trapelare il suo fondo fideistico cattolico. Davanti ai crimini religiosi da
parte di un credente nella religione utopiense del Pater niente impedisce il
ricorso alla pena di morte. A chi nega l’immortalità dell’anima gli abitanti di
Utopia riservano l’emarginazione e l’interdizione dai pubblici uffici (il che
costituisce una palese discriminazione). I Novissimi della religione cattolica
presso di quelli sono la norma. A Moro basterebbe che dissidenti non abbiano la
possibilità di comunicare con il popolo: molto moderno nella sua ottica
strategica, ha compreso che la stampa e la diffusione delle idee daranno il
colpo di grazia al Medioevo e che la partita si giocherà sul moderno campo
economico capitalistico dove la diffusione dell’informazione prenderà il posto
dell’ignoranza diffusa e dell’indottrinamento totalitario cattolico. Thomas More
ragiona quasi in termini di dibattito televisivo costretto da nuove condizioni.
Ciò nella forma, però nella sostanza non ha rigettato un disumano uso della
forza e della violenza; si è, per così dire, fatto più scaltro di altri suoi
correligionari reazionari. Ma non ha abbandonato affatto il suo integralismo
cattolico (testimonianza ne è la sua morte). Gioca sul piano della propaganda
con retorica, come chiederebbe un Goebbels, tuttavia nella sostanza rimane
nitida la sua meta apologetica di un sistema di potere socioreligioso
illiberale. Nella conclusione dell’opera Moro torna a elogiare un masochistico
spirito di sacrificio personale, tipico di figure del Cristianesimo. Chi si
degrada al livello di uno schiavo, chi si mortifica oltremodo, per lui è
meritevole di un premio divino ultraterreno. La scienza medica moderna vedrebbe
simili soggetti mentalmente disturbati (vedansi le sante anoressiche e tutti i
masochisti punitori di sé stessi in nome della fede in Cristo e nel Dio
biblico). La storia della psicanalisi ci indica nel Cristianesimo la presenza
di sadici e masochisti, nonché di nevrotici vari. Questa gamma di
psicopatologia ha prodotto persecuzioni, torture, uccisioni, guerre solo per
ragionamenti pericolosi i quali erano solo aria fritta. E l’ordinamento
politico si è variamente conformato a queste degenerazioni sino
all’Illuminismo. Ci sono voluti secoli per liberarsi delle persecuzioni da
parte dei Cristiani in generale a danno di streghe, eretici, omosessuali,
Ebrei. Nonostante tutto forme di misoginia, omofobia e antisemitismo permangono
tristemente tutt’oggi. San Tommaso Moro fa, tra l’altro, un’apologia
dell’istituto della schiavitù quale strumento giuridico non riconoscendo un
universale rispetto della dignità umana. Nella sua concezione esistono persone
di serie A e gente di serie B, vale a dire lo stesso ragionamento di nazisti
antisemiti e suprematisti bianchi: secondo tutti questi è lecito privare determinate
categorie umane di diritti naturali sulla base di nevrotici pseudoscientifici
pregiudizi. Da simile scia pregiudiziale del filosofo inglese l’apologo dei
tipi cattolici esemplari in Utopia: l’asceta sessuofobo e il cattolico
osservante da matrimonio agostiniano. Qua torna la misoginia sessuofobica
rivelatrice di una condivisione di fondo del disprezzo della donna, intravista
dalla teologia cattolica sotto una luce negativa sino a non molto tempo
addietro (da Tertulliano a sant’Agostino, da san Tommaso d’Aquino al “Malleus
maleficarum” proseguendo sino al ’900 dove autori come Monsignor Benson non ne
parlano affatto bene). Moro, come visto ha legittimato la guerra, e ci dice
inoltre alla fine dell’opera che gli eserciti utopiani sono seguiti da religiosi:
questo dà connotazione di “guerra santa”, “guerra benedetta” alle loro azioni
militari, il che è contraddittorio in relazione al pacifismo (di facciata)
dello scrittore. I sacerdoti di Utopia sono eletti a suffragio popolare
(ovviamente maschile, cosa talmente scontata che More non sentirebbe esigenza
di puntualizzarlo a parole). Loro sono anche censori sociali, sono magistrati
requirenti elettivi all’americana. Lo scrittore inglese in simile strana, per
un cattolico di allora, trovata intuisce qualcosa della futura mentalità
organizzativa protestante. L’idea del “procuratore americano”, nella società
cristiana del ’500 tenderebbe a togliere consenso al Protestantesimo borghese
capitalista. Egli accetta sacerdotesse solo nel caso possibile di vedove o donne
anziane (evidenti limiti misogini legati alla sessualità). Thomas More in “Utopia”
propone di incipriare tutto il vecchio mondo feudale cattolico con i metodi di
O’Brien in “1984”: indottrinare la massa attraverso i nuovi strumenti mediatici
(a partire dalla stampa) e non dare nell’occhio con la repressione. Tant’è che
il primo a non parlare di persecuzione di streghe, eretici, omosessuali e
Giudei è lui. In base al machiavellismo del filosofo inglese tali immaginari
avversari andrebbero ricercati ed emarginati nell’ombra. Questa è la modernità
di Moro: apparire gradevole anche facendo ricorso a capriole intellettuali
degne dell’orwelliano oceaniano Stato e colpire, torturare ed eliminare i
martiri in uno spazio segreto. Questo è il san Tommaso Moro che viene fuori dai
suoi taciti consensi storici, dalle sue allusioni, dalle sue costruzioni
intellettuali: un personaggio inquietante circondato da indicative ombre. Ai
sacerdoti Utopiani, i quali non godono di immunità, a dimostrazione che sono
più funzionari dello Stato che altro (anche nell’esercizio del culto), possono
toccare detenzione e punizione in caso di devianza dall’ortodossia
politico-religiosa. I sacerdoti in aggiunta a essere magistrati requirenti,
sono altresì educatori (maestri e professori). Il concetto utopiense del
sacerdozio non è accostabile a quello cattolico, ben altra cosa con
l’amministrazione dei sacramenti. Se una donna può adire quello
pseudosacerdozio, in pratica una magistratura statale della cristiano-razionale
Utopia, dev’essere desessualizzata e inserita nella cornice gerontocratica. In
parole povere Moro si sta servendo delle donne contro la donna: perché una
donna giovane sposata sarebbe disdicevole? Ma perché è la porta del Demonio, un
essere difettoso che soltanto la separazione dal sesso e dalla gioventù può
rendere tollerabile al fine di fungere da esempio per tutte. La, in apparenza,
rivoluzionaria idea del pensatore inglese, si rivela in verità un espediente
antifemminista a beneficio della maschilistica gerontocrazia. Usare qualche
donna che rispetti i nevrotici canoni misogini può essere utile: lui non sta
concedendo ad alcune donne di somministrare sacramenti cattolici, ma soltanto
di fungere da precisi exempla. In niente di concretamente teologico egli ha
giocato d’ambiguità con la parola sacerdozio, del tutto avulsa in Utopia dell’accezione
cattolica. Da questo gioco semantico ingannevole scaturisce il matrimonio
concesso ai sacerdoti, tuttavia solo ai maschi. Poi di sacerdotesse, dice
peraltro, che ne vengono elette quasi mai: il maschilismo si serve di acquisiti
specchietti per le allodole da additare come modelli esemplari d’occasione. San
Tommaso Moro spaccia la pedagogia utopiana per teologia e chiama impropriamente
sacerdoti dei sostanziali funzionari pubblici. Ciò vorrebbe, forse,
testimoniare il suo desiderio di un consolidamento del Cattolicesimo nella
macchina statale dei popoli europei nel momento in cui alcuni Stati sono vicini
a liberarsi dal controllo papale grazie alla Riforma protestante. Ennesima
intuizione di Tommaso Moro circa il futuro della a lui prossima società
protestante, su cui pare voler esercitare un richiamo in funzione di coesione
cattolica, si nota nel culto e nei templi utopiensi: evocano in qualche modo la
Massoneria (diffusasi meglio nei Paesi protestanti). L’idea del formalismo
teologico monoteista della religione utopiana (con un Grande Architetto
dell’Universo) offre di queste suggestioni interpretative. Moro getta esche
concettuali nel campo degli avversari allo scopo di evitare la vicina rottura
politico-religiosa europea nel seno della Cristianità cattolica. Nessun
espediente avanzato dal filosofo inglese (dalla soppressione della proprietà
privata alle captationes benevolentiae) ebbe seguito concreto; la storia
europea andò avanti per conto proprio aumentando gli scontri di religione al
cui fondo giacevano interessi economici e di potere. Presso gli Utopiani esiste
una sorta di pseudosacramento della confessione: le donne si inginocchiano
davanti a mariti, i figli invece al cospetto di entrambi i genitori, tutti
fanno ammenda. Ma i mariti con chi si confessano? Moro non ce lo dice
evidentemente il maschio adulto genitore è il riflesso del loro Dio Padre e non
necessita di emendarsi con altri ritenuti inferiori. Nel tempio i soggetti di
sesso maschile siedono a destra (la parte nobile), quelli di sesso femminile a
sinistra. A conferma della discriminazione misogina rilevata in “Utopia”. Moro
torna inoltre a manifestare alla fine ancora una volta il suo animalismo: non
tollera vittime sacrificali di culto. Non ha mai fatto cenno nell’opera a una
condanna dei roghi di streghe ed eretici, si è solo ingarbugliato in una
stranissima idea di tolleranza religiosa, ambigua relativa. Tra l’altro non
difende neanche Ebrei (che offende) e omosessuali. Centrale nel suo castello
nevrotico è il perno psicologico del Cattolicesimo: il timore di Dio («Deberent
maxime religiosum erga superos metum maximum ac prope unicum virtutibus
incitamentum concipere»). Gli Utopiani non devono far a meno di simile
meccanismo di interiore deterrenza: atterrire con favole nere serve a creare
sudditanza mentale. Al di là di persecuzioni concrete il Cristianesimo si è
reso responsabile di aver ingenerato nella psiche individuale un radicale senso
di colpevolezza in relazione a quanto veniva stabilito come “peccaminoso”. La
paura della punizione divina a causa di non aver rispettato norme
comportamentali ritenute inviolabili e il rischio di andare all’inferno dopo la
morte costituiscono uno stratagemma di condizionamento, una forma di riduzione
alla servitù la quale si può associare a una via di mezzo tra plagio e
stalkeraggio. Si tratta infatti di una persuasiva violenza psicologica. Moro
stesso è rimasto vittima nella sua autodistruttiva nevrotica vocazione: «Inoffensa
eius maiestate, flat, multo magis ipsi futurum cordi sit, difficillima morte
obita, ad Deum pervadere, quam ab eo diutius, prosperrimi vitae cursu distineri».
Nella chiusa del libro l’autore riconferma il suo spirito totalitario
anticapitalistico, cioè cattolico antiscismatico. Perseguire il personale
interesse, raggiungere personalmente una forma di benessere economico (ideali
dell’ideologia liberalcapitalista post-protestante) sono esempi offerti a una
pericolosa imitazione attivistica al cospetto di chi predilige cupi metodi di
indottrinamento deterrente e violenti sistemi di persuasione: il primato del
benessere da raggiungere col progresso tecnologico e medico, nonché sociale,
mette in crisi l’apparato politico-religioso cattolico costruito con lo spirito
di abnegazione (a volte patologico e masochistico), un apparato poggiato sulla
conservazione di un reazionario status quo. Il pensatore inglese si preoccupa
del potere eversivo del proletariato, se lo difende lo fa in funzione di
contrapposizione ai borghesi (i quali di mala voglia hanno tollerato le esazioni
ecclesiastiche). L’obiettivo del filosofo è l’indisposizione della massa alla
svolta sociale capitalistica moderna. Lui gradirebbe un controllo cattolico
della base popolare. Afferma chiaramente che l’istituzione del regime degli
Utopiani ovunque rappresenta qualcosa che sarebbe approvato da Cristo, e che
solamente la superbia umana ha ostacolato. Aggiunge che quel sistema di governo
appare proiettarsi verso l’eternità in virtù della sua perfezione: la verità è
che quanto egli sta dicendo sembra propaganda degna del Terzo Reich. L’inno in
italiano dell’austriaco Regno lombardo-veneto, inno imperiale asburgico, Stato
tradizionalmente cattolico, recita: «… duri eterno questo impero…». Si noti il
cliché comune a regimi assolutistici totalitari. Anche la Germania nazista, a
dire dei suoi sostenitori, era destinata a durare secoli e ad avere l’appoggio
di Dio (Gott mit uns). La contorta nebulosa nevrotica parabola di san Tommaso Moro
in “Utopia” si conclude in maniera retorica con lui in prima persona che prende
con le pinze le proprie idee messe in bocca a Raffaele Itlodeo, suo alter ego
narrativo. Come dire che ha gettato il sasso nello stagno e poi nascosta la
mano: accettiamo comunque questa sua tecnica retorica, nella quale dovrebbe
esprimersi più astuzia comunicativa piuttosto che cautela per sé. Infatti egli
dimostrò di non tenere alla propria vita, ma solo all’osservanza verso Santa
Romana Chiesa, la quale poi avanti lo censurò per una piccolissima fesseria di
nessuna rilevanza teologica e in ultimo lo canonizzò. More gioca sino alla
conclusione del suo libro una strategica partita mediatica, cerca i migliori
espedienti a sua portata di mano (narrativi e concettuali) nel tentativo,
rivelatosi suicida, di salvare il mondo cattolico feudale chiusosi nella sua
conservazione di cui lui era organico e accondiscendente figlio. Non era facile
realizzare tale progetto ormai a quell’epoca per un uomo che si è rivelato un
Socrate negativo, un martire del pensiero non libero.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Teologia
analitica”