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martedì 11 gennaio 2011

STATO E RELIGIONI

di DANILO CARUSO

La sfera pubblica e quella religiosa interagiscono nel singolo individuo e socialmente. L’uomo è un essere che per sua natura si associa in forme stabili: lo Stato e la famiglia. Se questi due enti riguardano aspetti generali del manifestarsi della sua essenza, anch’essi hanno un’universalità che si estende all’intera umanità. Stato e famiglia legano tra di loro soggetti perché la ragione li riconosce necessari e naturali (senza di questi non ci sarebbe ordine sociale). Hanno dunque una validità oggettiva per tutti gli uomini nonostante le loro molteplici sfaccettature storiche. Ogni sistema statale poggia su un complesso di norme che a suo modo dovrebbe interpretare il diritto di natura (o di ragione) nel diritto positivo (le leggi ed i codici emanati). Questo diritto positivo dovrebbe garantire un adeguamento quanto migliore ai valori dell’essere umano preso in sé e per sé (cioè naturalmente e spoglio di convinzioni particolari che non vedono una condivisione totale). La ratio accomuna la globalità dei soggetti umani e li distingue dalle bestie, ed essa è il fondamento del diritto positivo (benché questi impianti normativi si diversifichino). L’essere-in-uno-Stato e l’essere-in-una-famiglia sono inerenti alla dimensione esteriore oggettiva del cittadino. Le religioni positive non esistono in natura, e apparentemente di ognuna non se ne può parlare in maniera universale come per i concetti di Stato e famiglia. È naturale l’esigenza religiosa, ma molte religioni partono da una rivelazione cui la ragione non può giungere. La religiosità riguarda la sfera interiore e soggettiva del cittadino: l’esteriorità delle forme di culto è ovviamente ammissibile fin quando queste rispettino la ratio, che Dio stesso ha dato agli uomini, e gli altri aderenti ad un differente credo. Le guerre prodotte da motivazioni religiose e le simili persecuzioni animate da visioni integraliste sono state tra le cose più insane ed infauste della storia. Nessun principio naturale autorizza alcuno ad imporre agli altri l’assunzione delle proprie credenze ed il rispetto delle sue norme di culto poiché l’interiorità di costoro, che non è spazio pubblico, con la pertinente libertà, sarebbe violata. Sappiamo che non esiste una sola forma religiosa accettata universalmente da tutti: ognuno ritiene che i diversi siano dalla parte sbagliata. Viene da pensare a Simone Weil che affermò che ogni religione è la vera religione. Nella profondità di questo ragionamento si comprende come l’adesione religiosa è un fatto di coscienza individuale. È naturalmente desiderabile – e questo non è relativismo – che ciascuno inserito in un sistema di culto viva la sua fede liberamente senza turbare e senza essere turbato e che tutti abbiano facoltà di cercare e trovare Dio come vogliano. Per il fatto che le religioni possano essere in contrasto e che storicamente ciò ha prodotto pagine negative è opportuno che non si approprino dello spazio pubblico: il che non significa emarginare il dialogo. Non è bene che una parte di un tutto sopraffaccia l’intero. Gli Stati confessionali e quelli che proclamano ufficialmente l’ateismo perseguono due eccessi. Una legge è buona perché è riconosciuta tale dalla ragione, perché è utile e positiva, perché incontra il favore degli onesti, e non perché piace ad una categoria. La corretta ratio, con cui Dio ha creato l’uomo sin dall’origine e che precede temporalmente la Rivelazione, viene prima delle fides. La morale non può far riferimento a precetti storicamente contingenti e particolari. Le impalcature dogmatiche di ogni religione valgono parzialmente solo per chi vi aderisce, e se queste non arrecano danno al consorzio sociale non si può laicamente sindacare a priori di nessuna teologia. Se ci sono precetti contrari alla sana ratio sono evidentemente da abolirsi ovunque. Il relativismo prescrittivo e dogmatico pone in conflitto i culti, ma la ragione può consentire il dialogo affinché fra i loro componenti non ci siano tentativi vicendevoli di sopraffazione. Lo Stato giusto dovrebbe garantire questo senza farsi condizionare in quanto il potere della sua azione è universale. Anche gli atei hanno il diritto di stare in uno Stato equilibrato e funzionante (come tutti del resto), il fatto che non credano nell’esistenza di Dio non è materia di diritto pubblico. Tutte le religioni singolarmente prese stanno allo Stato come il diritto privato sta a quello pubblico. Ci possono essere partiti di esplicita ispirazione religiosa, i quali però riflettono il concetto di pars. Hanno diritto ineccepibile di esistere nell’insieme più ampio delle libertà: possono mostrare la bontà delle loro idee con la ragione, che è il linguaggio universale tra gli uomini, ma indubitabilmente non ottenere il potere politico per trasformarsi in regimi totalitari (così come d’altro canto non sarebbe neanche condivisibile il regime totalitario della sola ratio). Fides et ratio vanno assieme in quanto sono due aspetti inscindibili della vita: laddove vi è equilibrio, vi è ordine e pace; dove questo viene a mancare vi è disordine e contrasto. La mediazione è quel punto che può positivamente soddisfare tutti all’interno della casa comune. Pare conveniente che lo Stato rimanga un arbitro super partes. L’insegnamento del Vangelo è quello di agire caritatevolmente verso Dio e verso il prossimo. L’universalità di questo messaggio d’amore coglie l’intera umanità: tra i non cristiani ci sono evangelici in pectore come l’opposto tra i sedicenti. Seguire il Vangelo comporta azione, non spunto di disputa dottrinale. La semplicità e la ragionevolezza dell’insegnamento di Gesù Cristo mostrano che un vero modello di Stato avrebbe l’eticità evangelica senza essere confessionale poiché le due forme coinciderebbero. Varrebbe a dire: due facce della stessa medaglia che ridarebbe unità alla persona umana come creatura di Dio prima da un lato e come essere sociale e naturale poi dall’altro. Chi seguisse principi pratici della sua religione universalmente validi non vedrebbe in questo Stato un limite alla sua fede.