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giovedì 26 aprile 2018

DE AMORE ET AMICITIA IN IUVENTUTE ET MATURITATE

di DANILO CARUSO

To love léghetai pollakόs: éros, storgé, filίa, agápe.


Quando avevo 26 anni nel 1999 ebbi la ventura di essere relatore in un convegno giovanile discutendo della “problematica antropologica dell’amore nei giovani”. Soffermarmi adesso a trattare l’argomento del rapporto fra amicizia e amore mi ha offerto l’opportunità di poter redigere una rinnovata riflessione abbracciando una gamma di analisi più vasta. Durante la mia maturità, da una posizione in campo psicologico a metà strada tra Freud e Adler, sono diventato junghiano. Reputo che un simile orientamento non sia facilmente conseguibile in un’età di studio molto giovane di propria iniziativa (giacché la prima gioventù è il periodo connotato da uno spiccato individualismo). Jung distingue due fasi generali possibili nell’esistenza umana: quella “naturale” e quella “culturale”. Siffatta ultima dovrebbe rappresentare agli occhi di ognuno il momento di una crescita spirituale grazie al guadagno di un punto di vista personale più maturo. In tale nuovo periodo della vita, il quale non ciascuno inaugura, tutte le esperienze del passato (da quelle pratiche a quelle intellettuali) ci appaiono sotto una nuova più intensa luce, la quale schiarisce quanto prima, nel corso dell’epoca naturale, poteva apparire oscuro o carico di un significato superficiale. Di certo non tutto il vissuto pregresso è avvolto da impenetrabili veli d’incomprensibilità. Ogni storia umana costituisce un caso a sé: rimane assodato però che la giovanile età naturale rappresenti un momento di acquisizioni, le quale poi, in un successivo periodo, dovrebbero essere sottoposte a riesame. Parlare di un tema abbastanza simile a quello da me affrontato parecchio tempo fa, apre interessanti spunti di confronto con allora. Una preliminare riflessione conduce a puntualizzare ancora che il periodo culturale non è alla portata di ciascuno nella veste di una consuetudinaria evoluzione della persona: non per niente Jung ha usato nel denominare detta fase un aggettivo denotante l’attività intellettuale. Solo soggetti dediti a questa pratica vi possono accedere; gli altri rimangono ancorati a topoi giovanili sino alla vecchiaia, poiché hanno chiuso la porta alla crescita spirituale rimanendo legati alla dimensione naturale. Tale ragionamento fa intuire come le idee di amore e di amicizia possano avere diversi contenuti a seconda dello stadio evolutivo individuale. È normale che da giovanissimi l’aspetto estetico nell’eros e quello cameratesco nella filia abbiano il sopravvento. Nessun ragazzo è un adulto maturo. L’esteriorità mantiene il predominio sin quando non interviene il pensiero, che riconduce l’Io in interiore homine, alla scoperta di quel percorso junghiano definito “processo di individuazione”. Amore e amicizia mirano sempre a costruire relazioni: il primo di carattere esclusivo, la seconda più articolate. Il lessico greco antico distingueva quattro piani semantici di loving: eros, storgé, filia, agape. Si tratta di una discriminazione concettuale più raffinata che distingue la copertura emotiva: dalla singolarità, alla dualità, alla particolarità, all’universalità. Con il termine amore mi riferirò all’eros greco, con amicizia all’altro di filia. Le altre due forme menzionate di amore, precisate meglio nella Grecità antica, riguardavano l’affetto verso i genitori e il dono gratuito di sé al prossimo. L’impostazione junghiana data a questa analisi accantona un poco tali ultime due sfumature. Nella visione psicoanalitica di Jung, all’interno di ogni psiche individuale si trova il complesso dell’Io (l’asse della coscienza soggettiva). L’Io ha di fronte a sé, nascosta, una controparte (di natura psichica) sessuale: è rappresentata da ciò, che a seconda dell’essere uomo o donna nella sede della coscienza individuale, Jung denomina “anima” o “animus”. Un eterosessuale avrà coincidenza fra l’Io e la sua natura fisiologica, per un omosessuale non sempre è così (comunque non essendo questo l’argomento da esaminare, poiché sono eterosessuale, proseguirò, precisando che non sono omofobo, da un’ottica di coppia formata da un uomo e una donna). Il processo di individuazione junghiano consiste nel prendere consapevolezza del messaggio che gli archetipi (modelli universali dell’inconscio collettivo transpersonale) dell’anima e dell’animus portano a beneficio dell’interiore equilibrio psichico della persona. Nella fase naturale della vita non si ha spontanea coscienza di siffatta dinamica, la quale per i più resta qualcosa di occulto. Molti si legano a partner o a degli amici assumendo criteri pragmatici vincolati a dettagli esteriori: l’attrazione fisica o l’utilità di una molteplice compagnia a fini di svago. Quest’eros e questa filia della gioventù possono essere leciti nella misura in cui non precludono l’evoluzione spirituale. Un ventenne è un soggetto naturale per disposizione strutturale; ma il fatto che un quarantenne non sia ancora culturale rappresenta un grave deficit personale. Il tempo serve allo scopo di maturare grazie alle esperienze e allo studio. E il vissuto dell’epoca naturale rappresenta una sorta di negativo razionale, dicendola con Hegel, da rimuovere e superare a vantaggio del positivo razionale. Le esperienze di amore e amicizia nei giovani sono cariche di una percezione di illusorio fatalismo: pensiamo al Werther goethiano come esempio di tale forma mentis. L’eros giovanile ha poco in comune con la filia: incalza l’aspetto sessuale in maniera esclusiva nei confronti di tutto. L’asciutta fulminazione estetica (imprinting) non è amore (in senso lato e spirituale): l’amore non è un incastro della Natura. Nella filia, dove il lato fisiologico si rivela meno rilevante, esiste più spazio per il logos. Logos ed eros nella fase naturale sono sbilanciati. Il circolo delle amicizie di un giovane funge da cassa di metabolizzazione erotica. La gioventù che si chiude nell’idolatria di un partner, senza frequentazioni parallele, è nevrotica. In siffatta degenerazione si priva del contatto logico, assente in un legame a due immaturo. Nei confronti di tutti i ragazzi sono importanti le amicizie, miranti a un apprendimento del buonsenso: e non è qui da trascurare il ruolo dei genitori. Sono gli adulti che devono aiutare i giovani. Però, in ogni caso, adulti che ne siano in grado. È scontato che soggetti naturali avanzati non possano essere molto di sostegno. Le idealità giovanili spesse volte finiscono infrante nella delusione: i naturali diventano ipocriti, mantengono bene o male le vecchie amicizie, possono separarsi dal partner e trovarne uno nuovo; i culturali invece entrano in un mondo nuovo. Eros e filia vengono rivoluzionati nella mente di queste personalità. La ontologica ricerca di un partner diventa prosecuzione del processo di individuazione. Anima e animus si proiettano su una persona reale in senso pieno. Dalla dimensione pulsionale erotica freudiana, l’eros si trasforma in qualcosa di più ampio (libido junghiana): l’epoca naturale (animale) viene superata. L’aspetto del congresso carnale non rimane unico momento qualificante. E dunque si scopre che la filia erotica col partner rappresenta il momento culminante del processo di individuazione junghiano. La coppia rappresenta un campo esclusivo di filia psichica. Tale è l’idea chiave del “Simposio” platonico, là illustrata nella versione omoerotica. La Paideia greca classica, in riduttiva maniera (mal tagliata), proponeva già un equilibrio fra logos ed eros. A questa materia è dedicato il celeberrimo dialogo di Platone (cui ho dedicato uno studio1). L’eros è un momento della filia. I soggetti naturali non l’hanno capito. La filia ingloba gli altri tre concetti greci antichi di loving. La filia migliore è quella che promuove l’individuazione junghiana: esclusiva, erotica. Non si parla ovviamente di un reciproco rapporto utilitaristico. Non è l’Io che conquista il partner, ma il partner che si consegna nelle braccia dell’altro Io (visto quale un’aristotelica causa finale). Questo è amore (agape completa in senso intensivo): non sussiste prigionia. Il partner è l’incarnazione reale dell’anima o dell’animus (vero partner e vero eros, parafrasando la teologia). In una coppia cementata da un’attrazione sentimentale ci sono due persone, ma una sola sostanza psichica (l’originario androgino; parlerei altresì di circuminsessione). In un altro dialogo platonico, il “Liside”, il filosofo ateniese descrive in modo aporetico la gamma concettuale dell’amicizia. Essa è alla base di un rapporto tra persone aventi delle cose in comune, le quali però d’altro canto possiedono altresì aspetti tali da costituire integrazione presso l’altro. Non esiste niente di più completo di quel campo psichico individuato (in accezione junghiana) sopra descritto, dove il maschile e il femminile si incontrano (non soltanto dietro una spinta fisiologica). Quasi tutti gli esseri umani purtroppo restano prigionieri della libido freudiana. Alla luce di tutti questi ragionamenti emerge dunque la difficoltà di cosa intendere in generale con i termini amore e amicizia. Simili categorie dello spirito umano assumono i possibili significati su descritti in base al contesto d’uso. Parafrasando Wittgenstein potremmo parlare di “giochi psicologici”. Il “Simposio”, il “Liside” descrivono scenari del genere. Un altro exemplum, di natura non limpida, bensì machiavellica, proviene invece dal “Laelius” ciceroniano. Un testo che in effetti costituisce un manifesto del pragmatismo umano (con risvolti politici). L’ipocrita solidarietà di specie proposta da Cicerone non bada alla sostanza interiore degli individui, ma ricerca un’utilitaristica vicinanza promossa da secondi fini materiali. In linea di massima, amori e amicizie consumistici non sono autentici perché durano sin quando c’è appagamento esteriore: quindi si capisce che l’apprezzamento non era della persona, ma dei suoi averi. I giovani sono perlopiù idealisti, e un simile utilitarismo è prerogativa di chi abbia ricevuto un’esplicita formazione spregevole. Presso gli adulti il modello della comitiva utilitaristica rimane più diffuso: si ritrovano quasi esclusivamente in circostanze dove c’è un soddisfacimento fisiologico di natura sessuale o alimentare (due note pulsioni freudiane). Stare assieme con uno sfondo intellettuale (in senso lato, opposto a bestiale) è una rarità, la cui assenza viene respinta persino dallo stesso Cicerone. Acta copulandi e mangiare assieme rappresentano mezzi (media amandi), non fini (amor mediorum). La modalità di esistenza della fase naturale, prorogata indebitamente avanti, adotta il metro di giudizio del “dare/avere”: i partner scelti con parametri economici ed estetici si possono cestinare; i genitori anziani possono trasformarsi in pesi da cui liberarsi; gli amici di scarsa solidarietà materiale rischiano l’emarginazione nell’oblio; a tutti gli altri spetta un possibile ruolo di fantasmi nella quotidianità. Machiavelli dichiarava di trovare autentici amici dentro i libri. Una solidarietà animale non ha molto di umano: pure le bestie mangiano e praticano un’attività sessuale. Se questi sono i fattori distintivi dell’amicizia e dell’amore al di là dello strutturale idealismo giovanile, l’essere umano diventa sul serio una scimmia nuda. Cosicché di molti si può dire che discendano dalle scimmie, di altri pochi che siano creature divine con una vocazione uranica. I sodalizi umani costruiti con eros, storgé, filia, agape del livello naturale sono consacrati all’instabilità, al disordine: specchio di instabilità e disordine interiori. Un individuo inoltrato nella fase culturale mira a un ordine, a una misura universali, sconosciuti in genere al meccanismo di relazionarsi del periodo naturale. Costui ambisce a un’utopia, a una sorta di repubblica platonica, dove l’equilibrio individuale sia modello da imitare nella vita dello Stato. Le lezioni platoniche a proposito di amicizia nel dialogo aporetico “Liside” e di eros nel “Convito” rimangono ancora attuali poiché la realtà non è riuscita a proporre di meglio, né tanto meno il pensiero filosofico. A questo punto sembra non solo curioso rileggere quel mio testo cui facevo cenno in apertura. Io stesso l’ho riletto (con piacere), a distanza di un ventennio, dopo essere giunto alla conclusione di queste annotazioni. Trasparirà dal confronto il passaggio dalla fase naturale a quella culturale: da Freud sono passato a Jung. L’ordine di priorità 1) eros, 2) filia comunque era già molto pregiudicato. Si rileverà in nuce il periodo culturale, dove eros e filia giacciono sullo stesso piano psichico (scisso in due livelli di importanza nella pregressa epoca naturale). Mi mancava allora lo studio della psicologia analitica, ma col tempo ci sono arrivato.



Dagli atti del convegno “Giovani insieme”, tenutosi il 10 luglio 1999, e pubblicati nel marzo del 2000.


La problematica antropologica dell’amore nei giovani d’oggi

di Danilo Caruso

Il tema che mi sono proposto di svilup­pare e analizzare potrà sembrare ir­rilevante ed eccessivamente romanticheggiante rispetto ad altri problemi ma­teriali e più pratici che quotidianamente vive la società industriale avanzata. Ma sono d’altro canto sicuro che se chiedessimo all’universo giovanile qual è il valore umano nel quale più crede, la risposta sarebbe l’amore nelle sue diverse sfaccettature. E poiché una società veramente civile fatta dagli uomini non può che fon­darsi su valori spirituali non transeunti, ho deciso di discutere della condizione giovanile nel suo ideale più nobile, che come tutti gli altri ideali si scontra con la realtà.
Un primo approccio al tema ci mo­stra come l’amore venga vissuto sotto due prospettive da parte dei giovani: una mistica e ideale, l’altra conformistica e pratica.
Se è vero che l’uomo non dovrebbe vivere in funzione di qualcosa, non è falso che potrebbe vivere in funzione di un’altra persona. Quest’ultimo aspetto è ciò con cui il mondo giovanile si imbatte in ogni tempo, e non sembri problema di poco conto: è una questione che potrebbe valere una vita intera. La famiglia è un istituto naturale – affermazione che va da Aristotele alle Sacre Scritture – ed è quindi scontato aspettarsi che i giovani abbiano la volontà di costituirne prima o poi una: sia lo scopo quello proclamato dalla Chiesa di avere figli, sia quello di stare insieme.
Il contrasto sopra accennato, tra realtà e idealità, sorge non appena i giovanissimi accorgendosi in maniera diver­sa di una persona dell’altro sesso devono fare i conti con i conformismi societari. La società ha in passato prima impedito, come onnipresente Leviatano, con i suoi pregiudizi di casta che i giovani si incontrassero liberamente – ora in un generale livellamento sociale i pregiudizi o scompaiono o sono meno evidenti –, poi li ha resi atomi vaganti nel vuoto privi dei mez­zi aggregativi. Non è un mistero che la mancanza di lavoro, come ricordava Giovanni Paolo II, rappresenti un ostacolo insormontabile di fronte al progetto di creare una famiglia.
Queste difficoltà, sin qui brevemente richiamate, non sono le uniche, e forse le più incalzanti che i ragazzi incontrano: ai problemi esteriori e ambientali si oppone un parco di problemi interiori che ogni adolescente affronta. Il passaggio all’età adulta e alla maturità sessuale è un’impresa.
Platone nel suo dialogo intitolato Simposio fa raccontare al commedio­grafo Aristofane un mito.
In origine la specie umana era formata da individui uniti a coppia per le spalle formanti un unico essere: questi avevano tutti i caratteri somatici raddoppiati. Poiché sfidarono gli dei, Zeus per punizione li segò in due e Apollo torse il loro volto dalla parte del taglio. «Orbene, poiché la creatura umana fu divisa in due, ciascuna metà presa dal desiderio dell’altra, le andava incontro, e gettandole le braccia intorno e avviticchiandosi scambievolmente, nella brama di rinsaldarsi in un unico corpo, morivano di fame e d’inerzia». Zeus mosso a compassione trasportò i loro organi sessuali sul davan­ti, «in questo modo rese possibile la gene­razione fra loro, per mezzo del maschio nella femmina, con questo fine, che nell’amplesso, ove un maschio s’incontrasse in una femmina, generassero e si perpetuasse la specie. [...] Ognu­no di noi, in conclusione, è una contro­marca d’uomo, in quanto che è tagliato come le sogliole, è due di uno; e perciò cerca sempre la propria contromarca».
Quando l’adolescente risveglia questo desiderio e scopre l’attrazione sessuale, è già iniziata una fase di mutamenti somatici che si accompagnano a quelli psichici.
È l’età delle infatuazioni, dove domina l’interesse verso l’altro sesso. Gli innamoramenti giovanili hanno una dinamica che rifiuta la casualità a loro imputata. I canoni estetici si formano nei primissimi anni di vita sulla base delle esperienze di quel periodo. In un certo qual modo successivamente non si è libe­ri di scegliere chi ci piacerà. A questa preformazione di modelli segue nell’età della maturazione il fenomeno dell’imprinting (dal verbo inglese imprint: stampare, imprimere): quasi tutti i giovani vengono colpiti come dal bagliore di una folgore da chi mette in azione quelle categorie di piacimento. Accade qualcosa di analogo nei neonati degli animali che vanno appresso al primo che vedono. Ma l’uomo non è un animale, perché a differenza di questo appercepisce. Il fatto di avere una coscienza lo rende un essere morale, il che significa che nei momenti di crescita è opportuna una adeguata preparazione al futuro. Il contagio venereo dell’AIDS, il misconoscimento dei metodi contraccetti­vi – che causano effetti non tenuti prima inconsapevolmente nel debito conto – vanno a braccetto con l’ignoranza.
Il sistema sociale per la sua natura commerciale e le sue finalità economiche contribuisce a confondere le idee dei ragazzi, considerandoli esseri asessuati e snaturando le loro peculiarità.
La Scrittura in Genesi ci racconta: «Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”». Quindi creò da una costola di Adamo la donna: «per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e i due saranno una sola carne».
Il progetto divino e il fine di un felice stare insieme non vengono agevolati. La psicoanalisi freudiana denomina l’energia della psiche che anima la pulsione sessuale libido. La libido, che spinge verso un altro polo umano, come nel mito platonico, viene repressa. I giovani divengono automi, vittime degli effetti collaterali del sistema. Sono isolati in compartimenti quasi a tenuta stagna, dove alimentarsi di surrogati di diversa natura. La nostra società scoraggia la capacità di emozionarsi e di nutrire liberi sentimenti. La fame di emozioni viene soddisfatta con pensieri inculcati dall’esterno. Ma così facendo il giovane non attua il proprio essere. Egli deve riconoscersi in un’altra metà secondo lo spirito dell’amore-identificazione che nasce dalla sintonia di un dialogo in cui l’aspetto sessuale è mezzo e non fine.
L’incontro tra i ragazzi sulla base di status symbol non è autentico, perché è un’attrazione imperniata su aspetti contingenti e finti: si ama qualcuno per quel che è, non per quel che ha. L’amore è un incontro di anime, non di scarpe o di jeans. Nel gioco degli accoppiamenti una comunicazione di tal genere ha pur sempre un suo ruolo, purché ciò non diventi momento esclusivo del piacere che sca­turisce dallo stare assieme. L’aumento del fenomeno dei single testimonia la frantumazione dei valori. Cresce la sfiducia sull’autenticità degli altri.
Nei giovani l’attrazione reciproca spinge alla formazione della coppia sotto l’egida del binomio sessualità/amore: I’actus copulandi è caratteristica di una amicizia particolare. Questo binomio è l’anima dei giovani, ma anche il manifesto della loro crisi data dal fatto di gestire i due momenti in maniera disarmonica e disordinata.
Ciò ha come conseguenza un vasto corollario di fenomeni patologici: anoressia, bulimia, droga, fumo, alcool, solitudine, malattia, suicidio. Il disagio sconfigge l’amore ideale eterno, fatto di parole sussurrate, baci e abbracci. Alla spontaneità vengono prediletti la finzione e inutili or­pelli, quasi fossero pezzi della carrozzeria di un’automobile. A questo punto voglio raggruppare gli spunti di questa piccola e non certamente esaustiva analisi della problematica dell’amore nei giovani in una cornice, nell’allegoria fornita dalla tragedia di Romeo e Giulietta – tragedia dei giovani e del loro amore – i quali han­no vissuto il conflitto fra reale e ideale.
Mentre Romeo si trova sotto il bal­cone di Giulietta, ella sussurra: «O Romeo, Romeo, ma perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, rinuncia al tuo nome; e se non vuoi farlo, basta che tu giuri d’essere il mio amore perché io non sia più una Capuleti». Al che Romeo risponde: «Ti prendo in parola: chiamami “amo­re” e sarò ribattezzato. Da questo istante non sarò più Romeo».
È un drammatico paradosso: rinnegare se stessi per essere veramente se stessi.
Nella società del benessere tecnologico i giovani vivono la difficoltà di ama­re perché soffrono una crisi di identità: non sanno chi sono, dove vanno e cosa vogliono.
Se smarriranno la capacità di amare – quella potenza divina che sorregge l’esistenza – tutto questo potrebbe essere l’anticamera della barbarie.
Per questo motivo spetta a loro stessi il compito di realizzare la più grande e la più nobile delle imprese: risanare la frattura fra il mondo delle idee e il mondo dei fenomeni.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche

1 “Eros e la libido junghiana nel Simposio” all’interno del mio saggio “Note di critica (2017)”.


Bibliografia dei brani citati

Platone, Simposio – Il dialogo dell’Eros, BIT 1995
La Sacra Bibbia, CEI 1984
William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Newton 1993

domenica 15 aprile 2018

IL REALISMO MARQUEZIANO: MAGICO O TRISTE?

di DANILO CARUSO
  
El mejor amigo es el que acaba de morir

Gabriel García Márquez, “Cien años de soledad”


“Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez (1927-2014; vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1982) rappresenta uno dei successi letterari più noti del ’900. Il romanzo è incentrato sull’immaginario villaggio colombiano di Macondo e sulla fantasiosa storia della famiglia Buendía. Nell’esaminare il testo, pubblicato alla fine degli anni ’60, i miei disorientamenti iniziali non sono stati pochi. Non hanno riguardato tanto il ritmo narrativo, ma le concessioni di Márquez alle volgarità e le evocazioni di aberrazioni sessuali (cose che non mi sono piaciute affatto). C’è una grossa cesura nell’iter narrativo quando dalla fase magica locale si passa alla guerra: a mio avviso, si trova lì una variazione un po’ stonata, che accantona il fantasy iniziale. Ogni lettore rappresenta comunque un punto di vista lecito e autonomo: la mia non è la verità, è una prospettiva (anche se cerco di essere sempre obiettivo). La sensibilità di ciascuno poi può rilevare dati diversi e leciti. Io in materia di psicologia sono junghiano, e in relazione al romanzo marqueziano, debbo dire che non ho rilevato niente di archetipico nella narrazione, ma solo una “datata” accidentalità simbolica. L’autore lega la sua opera troppo a sé e ai suoi tempi: forse sarà questo il suo pregio, però per me un grande libro deve poter attraversare il tempo con un suo messaggio “universale” che in “Cien años de soledad” non ho trovato. Ho scritto alcuni saggi di critica letteraria di richiamo junghiano, e le cose, da quanto ho visto in maniera obiettiva, possono essere esaminate in modo valido. Posso accettare l’idea che altre tipologie critiche in merito letterario, a partire dalla freudiana, abbiano difficoltà: ma a me non succede; tutto fila liscio (coerente e organico) in una analisi pertinente (ovviamente basta non essere junghiani per non condividere l’impostazione da me adottata: ognuno ha le sue possibili preferenze). Nelle mie osservazioni sul senso dell’opera mi riferisco alla presenza di un carattere esclusivamente personale. Riguardo al proprio contesto storico è chiaro che ogni scrittore ne sia condizionato, tuttavia Márquez non va oltre se stesso nella narrazione: il suo punto di vista narrativo è unicamente mirato alla sublimazione personalistica. Vale a dire che: “Cent’anni di solitudine” rappresenta solo l’autore (connesso agli obiettivi accidenti storici esteriori), mentre una “Divina Commedia” rappresenta Dante e al contempo la proposta di un iter agli occhi di ognuno. Con Dante possiamo rifare il suo viaggio, sostituendoci a lui (percorso d’individuazione junghiano), con Márquez possiamo vedere un percorso narrativo molto più limitato e soggettivo. Di certo ciò garantisce originalità, ma per me, che sono junghiano, non trovare tracce di archetipico in un testo letterario costituisce un limite dell’offerta letteraria: ma, sottolineo, per me. Per altri la prospettiva può essere diversa: restare al narrato marqueziano può rappresentare il piacere di quella lettura, e questo è parimenti ammissibile. Ho avuto molte difficoltà a nutrire simpatia verso Gabriel García Márquez: egli ha espresso solidarietà a Cesare Battisti; e la cosa è paragonabile all’adesione di Heidegger al nazismo (secondo me: io sono di orientamento politico giustizialista peronista). Il paragone “Márquez/anarchia” – “Heidegger/nazismo” costituisce solo un esempio, il quale prescinde da considerazioni di carattere storico molto più dettagliate (che non affronto nemmeno in superficie giacché usciremmo fuori del seminato). Ho adottato questo exemplum per rendere la mia idea secondo cui l’opera non si può distaccare in maniera asettica dal suo autore. Se dovessi fare un’altra menzione, per par condicio, di scrittore di destra, dovrei esternare la mia antipatia per T. S. Eliot, altro Premio Nobel. Márquez mi pare un intellettuale borghese schieratosi con la sinistra radicale più per motivi soggettivi che non in seguito a una constatazione obiettiva. In “Cien años de soledad” compare un piccolo catalogo di volgarità gratuite, non aventi niente di letterario, le quali sembrano riflettere la persona dello scrittore e non una proposta letteraria di dimensione generale. La “anarchica” irriverenza dell’autore di “Cent’anni di solitudine” contenuta in questo suo romanzo me lo rende alquanto antipatico (Márquez è stato accusato pure di contiguità coi guerriglieri colombiani). Per fare un altro exemplum concreto (non prettamente politico) ricordo l’assunzione in cielo di Remedios la bella: non è nient’altro che una parodia mariana, una irriguardosa parodia che urterebbe la sensibilità non solo delle donne latinoamericane (legate alla religiosità cattolica); Márquez fa mostra non solo di vicinanza a uno spirito sovversivo, ma anche, in alcuni dettagli, di pungente anticlericalismo. L’“acidità interiore” di Márquez nei confronti della società che lo ha circondato trova pure luogo in ciò: non dimentichiamo che l’America Latina è cattolica sino al midollo. Questo provocare le istituzioni religiose, nel romanzo, con varie parodie (le stimmate/ustioni nella mano di Amaranta, la vocazione papale di José Arcadio, et cetera) testimonia la circoscrizione del livello narrativo al proprio vissuto e al proprio sentire in maniera esagerata, anomala e poco gradevole in relazione a un piano intellettuale che voglia essere più maturo. Da sottolineare, altresì, il fatto che l’opera sia per tratti non indifferenti un’apologia dell’incontinenza comportamentale (vilipendio della monogamia, elogio di vizi cosiddetti “capitali” quali gola e lussuria). La sfida della mangiata tra Aureliano Secondo e Camila Sagastume la rivediamo nei film comici di anni ’70… Debbo condividere il giudizio pasoliniano di bocciatura su Márquez (ritenuto ipocrita). Costui mi appare maschilista, irriverente, provocatorio fuori luogo, sovversivo nel suo sentito ideologico, in misure che, a mio modestissimo avviso, non possono raccogliere molte giustificazioni in virtù di esclusivi meriti letterari. La verità è che “Cent’anni di solitudine” non ha un senso “profondo”, ma un pregio legato al “tempo” del suo creatore: egli ha fatto un riflesso della sua personalità nell’opera, la cui lettura serve solamente a conoscerla meglio. Il testo rimane ancorato a sostanze e schemi narrativi da telenovela sudamericana, cioè a roba di consumo paragonabile a una sigaretta: alla fine resta niente, cenere, “solitudine” (l’essenza intellettuale, colta più per contrasto d’approccio che per altro, la quale, forse, rende meritevole il romanzo di un’autentica attenzione). “Cien años de soledad” è una sommatoria di racconti con voli pindarici: il fantasy iniziale, come detto, si smarrisce in itinere a beneficio di cambi narrativi che aprono più romanzi nell’opera. Il problema della saldatura stilistica dell’intera architettura non è secondario, ed è la riprova dell’adozione anche in ambito letterario di un principio di anarchia intellettuale da parte di Márquez. Macondo non è la Repubblica platonica: rimane pur sempre, nella sua apprezzabilità estetico-narrativa, una polis dell’irrazionalità soggettiva del suo creatore. E non è un caso, infatti, che in essa i lettori (o le donne protagoniste interne) possano rilevare come dato saliente la “solitudine”: l’isolazione da una relazionalità attraverso cui il logos lega la polis. Leggendo “Cien años de soledad” sono pervenuto a una conclusione: l’autore ha metabolizzato in gioventù la misoginia cattolica. Il suo dipingere le donne in modo irriguardoso, grottesco, secondo me, ha origine in quell’assimilazione condotta durante gli studi giovanili presso religiosi. Probabilmente l’avrà mantenuta in modo inconsapevole, ma le sue figure femminili nel testo non sono donne ideali, sono semmai parodie di Beatrice: sono tutto, tranne che ideali. Naturalmente non è da scartare la tradizione maschilista latinoamericana (tuttavia di ereditaria ascendenza sempre religiosa). Riguardo alle donne in “Cent’anni di solitudine” l’aspetto saliente che vedo è la loro frustrazione: la loro privazione di autentica femminilità. Non le vedo affatto valorizzate (semmai protagoniste emergenti in negativo: il che costituisce altra cosa). Delle donne nel romanzo noto pur sempre un ruolo subalterno. Sono “cameriere” degli uomini. E quand’anche entra in scena il ruolo della matriarca, ciò costituisce un intervento d’emergenza, non istituzionale: la Grande Madre (archetipo junghiano) si presenta in modo surrogato, suppletivo, snaturato della “femminilità”. La matriarca qui è quasi una sorta di androgino: un’anziana desessualizzata per svolgere compiti da uomo (assente). Non c’è parità: infatti la guerra è roba da uomini. Nell’ambito familiare, in qualche misura, ci può invece essere spazio per azioni di riparazione o di ammonimento (laddove venga però a mancare il maschio). L’ordine di priorità rimane 1) maschile, 2) femminile. Gli episodi collegati a Meme e Mauricio Babilonia sono l’ennesima riprova di una visione del femminile di impronta weiningeriana. Questo aspetto della narrazione, in cui le donne o sono streghe/prostitute o sante, non consente a Márquez di uscire fuori del suo recinto personale, dove rimane prigioniero: la cosa per me è un difetto, un demerito; per altri potrebbe essere un pregio (anche se non sono d’accordo). Il modo in cui descrive il bagno di Remedios la bella è il classico cliché di certi film comici di anni ’70: basta mettere al posto di colui che cade dal tetto uno dei noti attori di quel periodo, per comprendere che l’opera letteraria esaminata non va al di là del suo autore e del suo tempo. La prospettiva di Márquez è troppo personalistica: se si riconosce questa dimensione in “Cien años de soledad” possiamo affermare che il libro ha dei pregi laddove ci fa conoscere il suo creatore e la sua ideologia. Ma non c’è niente che possa essere indicato come simbolo archetipico o schema universalmente valido da imitare. Le donne sono protagoniste nel romanzo nella misura in cui rappresentano la controparte psichica sessuale junghiana dello scrittore, o almeno quello che egli interpreta inconsapevolmente come “anima”. La “solitudine” di Márquez è questa: il suo rimanere precluso nella propria psiche da un assetto armonico. Come Mabel Brand in “Lord of the world” è proiezione dell’anima junghiana di Monsignor Benson1, in “Cent’anni di solitudine” tutte le donne sono davvero protagoniste in quanto rappresentazioni possibili di una parte psichica dell’autore. La mancata armonia è causa del maschilismo tenuto in vita nella struttura dell’opera. In seguito a simili aspetti le donne assumono una connotazione negativa: Rebeca, mangia terra e calcinacci, non un uomo; Amaranta, costituisce de facto (nella sostanza) un’Addolorata, una Crocifissa (equivalente a una parodia femminile, religiosa), non un uomo; Ursula diventa un’altra parodia femminile (la matriarca desessualizzata, una parodia di Tiresia), non un uomo. Questo “non uomo”, che emerge nel romanzo solo nei tratti inerenti alla femminilità, ha un contraltare maschilista molto forte, riflesso dell’Io di Márquez: il tipo letterario di uomo offerto dal vincitore del Premio Nobel in questo testo non è molto distante dal volontaristico oltreuomo nietzschiano, anzi qui nella sua pseudopropensione al rinnovamento raggiunge forti forme di saturazione nevrotica (il colonnello Aureliano Buendìa che fabbrica pesciolini, il di lui padre immerso in visioni oniriche) ed eccessi di virilità vari (dall’esaltazione della lotta armata all’attivismo sessuale declassante le donne a strumenti della quotidianità, a oggetti). Parlando di oltreuomo nietzschiano alludo a una forma di attivismo maschilista che subordina la donna all’esclusivo livello della di lei fisiologia: ho attuato un paragone, accostando due modelli (quello narrativo marqueziano e quello nietzschiano) accomunati da vari aspetti; tuttavia non calo Nietzsche in “Cien años de soledad”, il quale non c’entra niente. Voglio solo rendere più chiara l’idea attraverso un confronto, pur sempre ammissibile date certe assonanze. Le figure degli uomini introdotte nel romanzo rispecchiano un prototipo comune di origine, ossia lo scrittore con le sue connotazioni. Márquez, a mio avviso, peggiora il poco apprezzabile tradizionalismo maschilista (si veda pure in tal senso l’evocazione di Nietzsche nei termini di confronto) latinoamericano impastandolo con anarchia e irriverenza: indubbiamente la miscela è originale, tuttavia è molto carica di relativismo soggettivo. Infatti, come ho detto, “Cent’anni di solitudine” è ancorato a un personaggio specifico (il suo autore) e a un “tempo” specifico (intendendolo altresì in senso lato nella sua dislocazione etnoculturale). Se il mondo è una stanza, Márquez non esce dall’angolo: a chi piace la narrazione di quel canto, piacerà Márquez e “Cien años de soledad”; a chi piace vedere tutta la stanza, e magari apprezzarla in un positivo (platonico) ordine auspicabile, Márquez susciterà impressioni quali quelle emerse nelle mie riflessioni. Nell’ultimo quarto di “Cent’anni di solitudine”, lo scrittore, non avendo nient’altro da dire sotto il profilo ideologico (forma mentis), propone una mera ricapitolazione sintetica della precedente architettura dinamica: il che sa molto di telenovela ispanoamericana. La sua struttura paranietzschiana rivela un nuovo pertinente lato: l’“eterno ritorno dell’uguale”. Ursula, in maniera esplicita, con sue parole, afferma questo meccanismo storico-narrativo. Poi quel mio richiamo della tradizione maschilista europea, trapiantatasi in America Latina nei secoli, trova ancora nuova conferma in quei termini di paragone proposti da me. Il trasferimento di Renata Remedios (Meme) da casa in convento, in seguito alla sua relazione con Mauricio Babilonia, rispecchia un’oscillazione weiningeriana: prostituta/santa. Márquez adotta un cliché previsto, e inoltre continua la sua satira religiosa: il di lei figlio Aureliano dovrebbe trovare nel romanzo una giustificazione della sua provenienza divenendo una parodia di Mosè (dovrebbe essere stato trovato nelle acque). La mancanza di originalità strutturale in questa parte finale del testo rende pure poco gradevoli alcuni richiami a Orwell (“1984”) e a London (“Il tallone di ferro”): stessa cosa a questo punto si può dire riguardo all’alchemica evocazione nel primo quarto di “Cien años de soledad” di Hoffmann (“L’uomo della sabbia”). L’opera marqueziana non smentisce quelli che a me appaiono limiti (non solo) letterari, riconfermando il suo essere un prodotto legato alla personalistica visione umana e sociale dell’autore (la quale non può assurgere a modello di altrui conformazione). “Cent’anni di solitudine”, durante gli anni della sua comparsa, ha fatto presa su lettori potenziali simpatizzanti della soggettiva rivoluzionaria anarchia dello scrittore latinoamericano: in qualche modo ingannandoli. Poiché mentre costui, un borghese, esternava il suo squilibrio psichico interiore con una vocazione sovversiva e palingenetica quasi nietzschiana (nei modi già chiariti), costoro coglievano una travisata ammirazione sessantottina nei confronti di tale schema anarchico, interpretato a torto quale messaggio di rinnovamento valido per tutti. A Márquez va applicata la lente d’ingrandimento dell’estetica della produzione: nel suo caso l’estetica della fruizione limita fortemente la comprensione di quanto, e perché, egli scriva. Terminata la lettura di “Cien años de soledad”, ricevetti la conferma definitiva di tutte quelle che erano state le mie impressioni: ossia che il lungo romanzo sia una biografia spirituale marqueziana (la seguente dichiarazione dell’autore rivolta all’intervistatore Plinio Apuleyo, trovata dopo aver scritto l’insieme delle presenti note critiche, è l’ulteriore riprova dell’obiettività delle mie analisi; ma del resto non ci voleva molto a capire che fosse così: «Macondo, más que un lugar en el mundo, es un estado de ánimo»). La lunga pioggia che affligge Macondo nell’apertura dell’ultima parte del testo (il quarto romanzo interno) è l’opposto di quella liberatrice manzoniana. Lo scrittore ripiega su se stesso, e tutto è destinato a scomparire colpito da un immane colpo di grazia finale. In questa conclusione dell’opera si riallacciano i fili di tutti i pindarici segmenti precedenti: Márquez riesce finalmente a dare un senso di unità in una chiusura tragica (per un testo così articolato, credo, sarebbe stato meglio far trasparire prima la linea di guida strutturale). In tali ultime pagine di “Cent’anni di solitudine” si notano ancora prestiti letterari: c’è qualcosa di “Arancia meccanica”, ma soprattutto la morte di Amaranta Ursula rievoca “La campana di vetro” di Sylvia Plath in maniera contrastante. La morte di quella rappresenta la distruzione dell’“anima junghiana” (controparte psichica sessuale) dell’autore latinoamericano. Egli non è riuscito a elevare le sue parole a un piano simbolico di proposta risanatrice universale (come invece fa la Plath nel suo confessionale romanzo “The bell jar”2). In “Cien años de soledad” abbiamo ripercorso tutto uno spirito di disagio interiore marqueziano, attraverso soggettive immagini che mai si sono elevate al simbolico dell’archetipo: più provocatorio che catartico. Il cliché rimane questo. Un incidentale immagine simbolica di tono universale si coglie nella prima scena del bagno di Josè Arcadio (il papabile): la sua immersione nell’acqua rievoca il grembo della Grande Madre (anche all’inizio de “La campana di vetro” compare questo concetto). Però Márquez vizia la prosecuzione narrativa più avanti con qualcosa di torbido, di patologico: i bambini (suoi futuri uccisori) che fanno il bagno con lui nello champagne (ciò mi ha ricordato un’abitudine simile dell’imperatore Tiberio: bagno con fanciulli nella vasca). Che il romanzo abbia l’obiettivo di urtare in qualche modo, lo confessa l’autore in modo esplicito in quel passo laddove afferma che la redazione di testi letterari sia uno strumento ludico per farsi beffe degli altri, aggiungendo un palese rifiuto di una meta da raggiungere presso l’elevazione al buonsenso. Da ciò scaturisce la ciclicità narrativa (eterno ritorno dell’uguale): non potendo mutare l’assetto presentato (quello interiore psichico proprio e quello scenico delle vicende raccontate), il tutto non può trovare altro sbocco che nell’annichilimento finale. Macondo subisce la sorte di scomparire poiché Márquez non ha saputo trovare una soluzione migliore. Egli ha pensato di risolvere il problema della vita, distruggendo la vita stessa in maniera letteraria, e facendo l’apologia di non poche devianze e volgarità. In una guisa tutta particolare è stato autoterapeutico (funzione trascendente junghiana) dislocando il suo disagio nel testo, ma lo ha compiuto in modo negativo (non c’è stata reale catarsi, alleggerimento definitivo della tensione esistenziale). Pertanto sono perfettamente d’accordo con lo scrittore latinoamericano quando, in un’intervista (condotta da Giovanni Minoli), ha precisato che il suo realismo non è magico, bensì “triste”.







NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche

1 Per approfondimenti si veda il mio saggio intitolato “L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.

2 Per possibili approfondimenti si veda nella mia prima monografia dedicata alla poetessa bostoniana, recante il titolo “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”.