Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

domenica 5 gennaio 2014

PER LA MORATORIA DELLA PENA DI MORTE

di DANILO CARUSO

Da molte parti proviene la richiesta affinché gli Stati le cui legislazioni prevedono la pena capitale provvedano a una sospensione delle esecuzioni e all’adozione di misure punitive diverse.
Una civiltà moderna e progredita sul modello della nostra dovrebbe sul serio riflettere su tale questione e fare un passo avanti nella maturazione spirituale, portando questo messaggio di civile progresso in quelle aree della Terra che risentono del freno della crescita per vari motivi.
Il diritto all’esistenza è, con quello alla libertà e alla proprietà, uno di quelli di norma inviolabili.
Nel momento in cui i singoli soggetti si aggregano in un gruppo sociale e danno origine naturale allo Stato delegano a quest’ultimo la difesa di tutti i diritti della persona per mezzo della limitazione e della repressione dei comportamenti arbitrari che arrecano nocumento (i reati).
Come forma punitiva un individuo può ricevere una restrizione della libertà (con l’arresto) e la privazione di qualcosa che gli appartiene (denaro o altro lecitamente o meno acquisito).
Tutto questo è possibile perché libertà e proprietà sono accidenti separabili del soggetto: togliendo a qualcuno, con l’infliggergli una pena, la libertà o delle proprietà non si distrugge il reo, e il diritto naturale alla vita non viene violato.
L’adozione della pena di morte è contraddittoria perché uno Stato non potrebbe sopprimere un criminale a cui pure per lo ius naturae dovrebbe riconoscere il diritto all’esistenza, la cui tutela gli verrebbe delegata: questa pratica non è compatibile con la razionalità del diritto di natura.
Ogni punizione amministrata dovrebbe inoltre poter essere sospendibile in qualsiasi momento in caso di errore giudiziario, ma a una condanna capitale non c’è rimedio.
Nella storia questa massima punizione è entrata nelle leggi quando i governi hanno voluto avocare a sé il compito della vendetta di un grave torto – per lo più un omicidio – evitando la faida e provvedendo legalmente all’uccisione del colpevole (pensiamo alle leggi draconiane o al codice di Hammurabi).
In passato la difficile gestione di una comunità ha legittimato questi provvedimenti legislativi così severi, però oggi l’evoluzione sociale e del diritto richiede forme più consone.
L’applicazione della pena di morte talvolta è stata addirittura un invito a delinquere in  modo più grave come per esempio laddove il reo di furto venne equiparato all’assassino: ciò spingeva i ladri a uccidere le loro vittime per non lasciare testimoni, tanto furto e omicidio prevedevano la stessa sanzione.
Oggi va rivista radicalmente la funzione della carcerazione.
Alla sentenza capitale sarebbe preferibile sostituire una di ergastolo (con le sue possibilità di riabilitazione del condannato a seconda del caso).
L’internamento in un istituto di pena deve avere l’obiettivo in generale di correggere.
Questa realtà dovrebbe essere di carattere produttivo: se le carceri fossero trasformate in aziende assolverebbero meglio il loro compito di detenere coloro che hanno contratto un debito verso la società in cui vivono, debito che costoro risarcirebbero con l’essere posti nella più o meno lunga condizione di non reiterare il reato privati della libertà e anche con un concreto e positivo produttivo operato che valga anche a contribuire per un eventuale indennizzo economico ai congiunti della vittima.
Definire queste attività lavori forzati non è il caso dato che il loro valore pedagogico-giudiziario sarebbe diverso da quello espresso da questa definizione.
In Italia, dopo l’Unità, la condanna a morte fu abolita dal Codice Zanardelli alla fine dell’Ottocento, fu reintrodotta dal fascismo, e di nuovo abolita con l’avvento della repubblica (anche nel codice penale militare).
Diversi altri paesi – per esempio il Regno Unito – la mantennero costantemente e per maggiore tempo.
Al momento fra quelli che non migliorano le proprie leggi in materia emergono la Cina e gli USA (all’interno gli States si diversificano: non tutti adottano la pena capitale).
Il progresso del diritto ha dovuto parecchio alla riflessione illuministica di Cesare Beccaria che esprimeva una posizione di contrarietà alla prassi della pena capitale (ritenuta d’altro canto da Immanuel Kant giusta posizione verso chi per motivi ideali infrange le leggi dimostrando così scarso attaccamento alla vita e viceversa per coloro che con motivazioni più pratiche se ne rendono indegni). Tale riflessione è esposta in “Dei delitti e delle pene”, che rappresenta una prospettiva di ammodernamento dei sistemi giudiziari, di cui si sente eco pure nell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica.
Al n. 2267 il “Catechismo ufficiale” dice: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’ag­gressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni con­crete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.
Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56)».
Il comandamento non uccidere dell’Antico testamento utilizza un verbo che non dice non-uccidere-in-assoluto bensì non-uccidere-senza-un-valido-motivo (come potrebbe essere la legittima difesa, del singolo e della società, consentita dal Catechismo).
Quel non uccidere va inteso nel migliore senso possibile (nel modo in cui riecheggia d’altronde il diritto naturale): non c’è un ragionevole motivo a favore della condanna a morte di qualsiasi criminale nonostante l’ondata emozionale possa sostenerla.
La nostra cultura e la nostra spiritualità non consentono più la sopravvivenza di istituzioni incivili.