di DANILO
CARUSO
Da molte parti proviene la richiesta affinché gli
Stati le cui legislazioni prevedono la pena capitale provvedano a una
sospensione delle esecuzioni e all’adozione di misure punitive diverse.
Una civiltà moderna
e progredita sul modello della nostra dovrebbe sul serio riflettere su tale
questione e fare un passo avanti nella maturazione spirituale, portando questo
messaggio di civile progresso in quelle aree della Terra che risentono del
freno della crescita per vari motivi.
Il diritto all’esistenza è, con quello alla libertà
e alla proprietà, uno di quelli di norma inviolabili.
Nel momento in cui i singoli soggetti si aggregano
in un gruppo sociale e danno origine naturale allo Stato delegano a quest’ultimo
la difesa di tutti i diritti della persona per mezzo della limitazione e della
repressione dei comportamenti arbitrari che arrecano nocumento (i reati).
Come forma punitiva un individuo può ricevere una
restrizione della libertà (con l’arresto) e la privazione di qualcosa che gli
appartiene (denaro o altro lecitamente o meno acquisito).
Tutto questo è possibile perché libertà e proprietà
sono accidenti separabili del soggetto: togliendo a qualcuno, con
l’infliggergli una pena, la libertà o delle proprietà non si distrugge il reo,
e il diritto naturale alla vita non viene violato.
L’adozione della pena di morte è contraddittoria
perché uno Stato non potrebbe sopprimere un criminale a cui pure per lo ius
naturae dovrebbe riconoscere il diritto all’esistenza, la cui tutela gli
verrebbe delegata: questa pratica non è compatibile con la razionalità del
diritto di natura.
Ogni punizione
amministrata dovrebbe inoltre poter essere sospendibile in qualsiasi momento in
caso di errore giudiziario, ma a una condanna capitale non c’è rimedio.
Nella storia questa
massima punizione è entrata nelle leggi quando i governi hanno voluto avocare a
sé il compito della vendetta di un grave torto – per lo più un omicidio –
evitando la faida e provvedendo legalmente all’uccisione del colpevole
(pensiamo alle leggi draconiane o al codice di Hammurabi).
In passato la difficile gestione di una comunità ha
legittimato questi provvedimenti legislativi così severi, però oggi
l’evoluzione sociale e del diritto richiede forme più consone.
L’applicazione della pena di morte talvolta è stata
addirittura un invito a delinquere in
modo più grave come per esempio laddove il reo di furto venne equiparato
all’assassino: ciò spingeva i ladri a uccidere le loro vittime per non lasciare
testimoni, tanto furto e omicidio prevedevano la stessa sanzione.
Oggi va rivista radicalmente la funzione della
carcerazione.
Alla sentenza capitale sarebbe preferibile
sostituire una di ergastolo (con le sue possibilità di riabilitazione del condannato
a seconda del caso).
L’internamento in un istituto di pena deve avere
l’obiettivo in generale di correggere.
Questa realtà dovrebbe essere di carattere
produttivo: se le carceri fossero trasformate in aziende assolverebbero meglio
il loro compito di detenere coloro che hanno contratto un debito verso la
società in cui vivono, debito che costoro risarcirebbero con l’essere posti
nella più o meno lunga condizione di non reiterare il reato privati della libertà
e anche con un concreto e positivo produttivo operato che valga anche a
contribuire per un eventuale indennizzo economico ai congiunti della vittima.
Definire queste attività lavori forzati non
è il caso dato che il loro valore pedagogico-giudiziario sarebbe diverso da
quello espresso da questa definizione.
In Italia, dopo l’Unità, la condanna a morte fu
abolita dal Codice Zanardelli alla fine dell’Ottocento, fu reintrodotta
dal fascismo, e di nuovo abolita con l’avvento della repubblica (anche nel codice
penale militare).
Diversi altri paesi – per esempio il Regno Unito –
la mantennero costantemente e per maggiore tempo.
Al momento fra quelli che non migliorano le proprie
leggi in materia emergono la Cina e gli USA (all’interno gli States si
diversificano: non tutti adottano la pena capitale).
Il progresso del diritto ha dovuto parecchio alla
riflessione illuministica di Cesare Beccaria che esprimeva una posizione di
contrarietà alla prassi della pena capitale (ritenuta d’altro canto da Immanuel
Kant giusta posizione verso chi per motivi ideali infrange le leggi dimostrando
così scarso attaccamento alla vita e viceversa per coloro che con motivazioni
più pratiche se ne rendono indegni). Tale riflessione è esposta in “Dei delitti e delle pene”, che
rappresenta una prospettiva di ammodernamento dei sistemi giudiziari, di cui si
sente eco pure nell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica.
Al n. 2267 il “Catechismo ufficiale” dice: «L’insegnamento tradizionale della
Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità
del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani.
Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per
difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone,
l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle
condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della
persona umana.
Oggi, infatti, a
seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente
il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli
definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione
del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”
(Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56)».
Il comandamento non
uccidere dell’Antico testamento utilizza un verbo che non dice non-uccidere-in-assoluto
bensì non-uccidere-senza-un-valido-motivo (come potrebbe essere la
legittima difesa, del singolo e della società, consentita dal Catechismo).
Quel non
uccidere va inteso nel migliore senso possibile (nel modo in cui riecheggia
d’altronde il diritto naturale): non c’è un ragionevole motivo a favore della
condanna a morte di qualsiasi criminale nonostante l’ondata emozionale possa
sostenerla.
La nostra cultura e
la nostra spiritualità non consentono più la sopravvivenza di istituzioni
incivili.