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sabato 10 marzo 2018

UNA PLATHIANA E POETICO-JUNGHIANA SEDUTA SPIRITICA

di DANILO CARUSO

Il testo seguente è un estratto del mio secondo saggio di critica letteraria plathiana (“Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”).
Nelle mie due opere di analisi ho assunto una prassi interpretativa junghiana. Qui chiarisco meglio che nell’indicare il complesso dell’Io, a seconda dei casi, ho adottato il termine “anima” o “animus”: e parlato, dunque in generale di una dialettica “anima/animus” nell’ambito della psiche individuale, da intendersi nel senso di “complesso dell’Io / controparte psichica sessuale”. Mi sono avvalso del potere critico di introdurre uno schema analitico, il quale non vorrei venisse frainteso: Jung coi termini “anima” e “animus” indica le sole controparti. Io ho generalizzato l’uso dei termini in una forma speculare e dialettica, ma si tratta di una variazione semantica e retorica ad hoc. Fuori di tale dettaglio, dove il binomio “anima/animus” si polarizza (a seconda del sesso del soggetto), ho mantenuto inalterata la terminologia usata da Carl Gustav Jung. In effetti, però, ciascun soggetto femminile o maschile nell’altrui considerazione può diventare prolungamento di “anima” e “animus” stricto sensu junghiano: e ciò rappresenta quello che ho inteso significare nel sistema delle relazioni umane coinvolte.
Il “Dialogue over ouija board” del ’57 è uno dei più bei componimenti plathiani, esso sta alla Plath come “La ginestra” a Leopardi o il carme “Dei sepolcri” a Foscolo. Va letto alla maniera platonica allo scopo di scoprire il significato che si cela dietro le sue figurate parole. E dunque saremo in grado di cogliere la plathiana dialettica “anima/animus” al di là delle interazioni tra le maschere protagoniste.
Sibyl rappresenta l’anima (junghiana) della poetessa, Leroy e Pan sono quelle forme di animus (junghiano) che Sylvia ha prima individuato nel padre, e poi in Ted Hughes (la figura del marito che avrebbe dovuto scacciare la prima, incombente sul cielo esistenziale della scrittrice in modo sinistro e concorrente rispetto alla Grande madre negativa, la quale in questo dialogo rimane fuori, tagliata dalla preponderanza di queste due forme di animus). L’insicurezza iniziale di Sibyl, che Leroy cerca di disinnescare, è l’espressione di un processo di individuazione junghiano ancora aperto e con i suoi problemi. Sylvia Plath rivela anche il suo scetticismo sulla durata dell’amore con Ted. Quando ai vv. 1-3 della strofa 9 dice: «immagino che quando siamo / fuori di esso [amore; n.d.r.] ci sarà tempo e abbondanza per noi / di corteggiare il rimorso. O qualcun altro.», vede già qualcosa di Hughes che lei vuol rimuovere pro bono – pro tempore – pacis animae.
Molto profonda, molto espressiva l’autrice ai successivi vv. 5-6: «Io considero / meno temibile il mondo dell’aldilà che il nostro». E di una simile idea ho già parlato nelle mie analisi. Leroy, alter ego, nella realtà sub specie di Ted (pseudopositivo animus), del complesso paterno (tendente a identificarsi radicalmente, in una prima fase di vita della Plath, col termine per lei polare dell’animus) cerca di rassicurarla in modo ambiguo inducendola a credere nell’esistenza di un «inferno» oltremondano come una delle dimensioni di provenienza di Pan (il complesso paterno vero e proprio).
Non c’è letterale evocazione di uno spirito nel “Dialogue…”, c’è sottile trama psicoanalitica: si sta discutendo di dinamiche psicologiche, una soggettiva (quella della poetessa) e una intersoggettiva (o possiamo anche definirla collettiva, dove l’inconscio minaccia l’io che duella con l’“ombra junghiana”, riproponentesi con l’abito infernale). L’interrogare Pan sulla vita ultraterrena e sulla sorte del genitore ha per la scrittrice di Boston pure un significato metafisico che tocca il dialogo in più punti. Si veda, oltre al chiedere sul destino dell’anima, la detta miscredenza di un inferno metasensibile. Si combina in questi casi una schietta materia psicologica con temi filosofici, il che non è contraddittorio o d’intralcio in una costruzione, e nella sua lettura, junghiana.
Allorché nella strofa 20 al v. 6 la Plath definisce Pan «psychic bastard» (si veda il riutilizzo del secondo termine in “Daddy”) mostra con chiarezza il fatto che sta parlando della sua relazione “anima/animus” in rapporto al complesso paterno, cui aggiunge l’indicazione di una (pseudo)sizigia alchemico-junghiana denotata dal parlare di «nozze (wedding)» nel verso successivo. In queste strofe 20 e 21 viene esternato il disappunto plathiano sul frutto di questa “coniunctio”, la quale sovrappone nel processo di individuazione della scrittrice il nuovo animus hughesiano sul precedente a impronta del complesso paterno. Questo però non è stato rimpiazzato in simile contesto del tutto poiché il nuovo animus non è in toto positivo, a causa di difetti di Ted e perché costui ha natura ambigua nell’essere un sostituto paterno che non riesce a portare un’originalità definitivamente risanatrice (questa coabitazione non tanto facile è evidente tra le strofe 26 e 27, e nella 38). Questi fattori insani sono tematizzati nel “Dialogue…”, ma come già detto subito dopo sotterrati a difesa di un momentaneo equilibrio che lo stesso Hughes poi spingerà con la sua pessima condotta in altre direzioni. A posteriori Leroy appare un ipocrita. Un’altra cosa che si nota in questa opera plathiana è l’attingere immagini dalla tradizione ebraica (strofe 23, 25 v. 3, 29 v. 6).
Non si rivela curiosa, anzi tutt’altro, l’attribuzione, nella strofa 24 di un fattore di razionalità a Leroy giacché la componente del logos corrisponderebbe al lato psichico soggettivo dell’animus: è Sylvia in questa tensione a mostrarsi più razionalizzante della sua controparte narrativa, la cui irrazionalità è più ipocrisia.
I primi tre versi della strofa 31 ricordano il fenomenismo di Prospero da “The tempest”1. La Plath fa dire a Leroy di Pan, l’“animus/complesso paterno”, paragonato a un vampiro alla fine della strofa 37, all’inizio, una verità obiettiva (terapeutica): «è buono / a sondare sillabe che noi non abbiamo ancora / portato alla luce in noi stessi». In parole povere costui è un termine di sprone psicologico.
Le strofe 41 e 42 sono centrali nell’evoluzione di tali dinamiche. Viene a galla una disarmonia triangolare “Sylvia / il padre / Ted”, a cui quest’ultimo vorrebbe replicare candidandosi come fattore di una albedo alchemico-junghiana prontamente da lei smentita, la quale vorrebbe smarcarsi dal complesso paterno. Un circolo vizioso questo confronto delle due forme di animus “Ted / il padre”, al momento, in Sylvia Plath: il primo ha bisogno del secondo per offrirsi come alter ego, mentre il secondo ha bisogno del primo per reincarnarsi, e tutti e due sono legati da vicendevole rapporto di appoggio con la poetessa. Ma lei vuol voltare pagina, chiudere con simili meccanismi che le generano disagio, perciò nella strofa 43 rompe il bicchiere, figurato medium paterno diretto: è questo il significato del sogno ricordato da ella poco dopo.
La percezione plathiana delle macerie di una nigredo è contenuta nella strofa 45, dove altresì lo spettro dell’ombra junghiana è in maniera inequivocabile riportato («shadow»). La strofa 46 rappresenta un punto di vista analitico hughesiano: egli stesso (Leroy) rimane turbato dalla sua rivalità coll’analogo animus paterno plathiano, sino al punto di cogliere lo smarrimento di Sylvia. La strofa 47 parla del processo di individuazione della Plath: «l’immagine di te [the image of you; n.d.r.]» è l’animus che attraversa le vicende su descritte. Anche Ted Hughes viveva un siffatto cammino psichico, come del resto ogni essere umano; e infatti Leroy confessa di nuovo il suo trauma maturato nel confronto col complesso paterno plathiano: ma la volontà di Sylvia di allontanarsene, alla fine, gli giova pure in questo scontro di lui con quello. Cosicché lei può proclamare una sizigia.
L’archetipo della Grande madre positiva e il blu alchemico compaiono nella strofa 49, benché la prima non abbia giocato nessun ruolo in precedenza nel dialogo. La razionalità di Leroy adesso si fa trascinare dalla femminilità di Sibyl. Completata questa prima analisi testuale, un ulteriore esame dei nomi attribuiti ai tre protagonisti del “Dialogue…” apre le porte di un significativo approfondimento. Cominciamo da Pan, il quale rivela un’ascendenza plutarchiana. Plutarco fu autore di un dialogo sugli oracoli delle divinità pagane che vengono a mancare nel momento in cui il Cristianesimo lievitando comincia a estromettere le tradizionali pratiche religiose. Il Pan plutarchiano è un essere mortale (un demone) poiché figlio di una divinità (Ermete) e di una donna.
La prima tangenza Plutarco-Plath rientra nel merito di un oracolo difettoso: il Pan plathiano, oltre che irriverente, è impreciso nelle sue predizioni. La seconda tangenza trova la sua motivazione nell’origine egizia del culto panico, che costeggia, imita e si inserisce in quello di Osiride, la tradizione di un Dio che muore e risorge appartenente a un più vasto campo di credenze diffuse. Il totalitarismo sincretistico cristiano avrà pure modo di schiacciare Pan (“buon pastore”) sulla figura di Gesù (si vedano i casi letterari di Rabelais, Spenser e Milton). Il Pan di Sylvia è dunque l’evoluzione, una maschera scenica, di quel che, nel primo dei suddetti saggi, ho definito “animus-Cristo”, il quale nel “Dialogue…” mostra la sua dialettica con quell’altro “animus Perseo”, che qui è Leroy (ossia Ted Hughes, the hero, heroic). Il nome Sibyl ha una forte impronta wildiana: non voglio dire che sia profezia di suicidio a causa di un eroe ambiguo, ma che si tratti dell’espressione del disagio plathiano. Dorian Gray peraltro è uno che non invecchia, e un proclama di questa sostanza sarà fatto nel (e dal) “Gigolò” della Plath (la cui mia analisi invito a leggere nella prima monografia citata in apertura: qui mi limito a dire l’essenziale, e cioè che il “gigolò / Dorian Gray” è l’ormai conclamato fedifrago Hughes).


NOTA

1 “The tempest”, atto IV scena I: «E al pari della struttura senza base di questa visione, / le torri incappucciate dalle nuvole, i magnifici palazzi, / i solenni templi, lo stesso grande globo, / così, tutto ciò che esso riceve, si dissolverà / e come quest’insostanziale scena è scomparsa, / non lascerà un segno dietro. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono i sogni; e la nostra piccola vita / è circondata da un sonno».

UNA GIORNATA POETICA DI SYLVIA PLATH

di DANILO CARUSO

I testi che seguono sono tratti dal mio secondo saggio di critica letteraria plathiana (“Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”). Una critica di chiaro richiamo junghiano sul versante psicologico, mentre sull’altro filosofico viaggiante lungo binari spiritualistici e idealistici. Le tre poesie di Sylvia esaminate sono state scritte nella stessa giornata: dieci giorni prima della sua prematura scomparsa. Per approfondimenti generali sul mio sistema di analisi adottato consiglio la lettura integrale delle mie due monografie dedicate alla Plath.


I. “WORDS”

“Words”, lirica plathiana del primo febbraio ’63 mi dà l’impressione di elaborare e presentare in fine modo figurato una lite verbale con Ted Hughes, risalente credo a non molto prima della redazione nel corso del soggiorno londinese di Sylvia.
I diari della Plath dell’ultimo periodo inglese, durato poco più di un triennio (dal ritorno dall’America, al termine del ’59, sino alla morte) sono scomparsi. E il principale sospettato di questa perdita è Hughes: può darsi non sia giunto alla materiale distruzione, e prima o poi ritorneranno alla luce. La prima strofa della poesia mi pare celare uno scontro animato da grida, il quale è motivo di tensione che si accumula e che si scarica in quelle lacrime di sfogo che sembrano nascoste nella seconda strofa, le quali riportano una quiete (che viene descritta).
I «them» che lei incontra per caso in strada potrebbero essere Assia Wevill e Ted: la poetessa è «senza cavaliere», in compagnia di «parole aride», martellanti «un instancabile ticchettio di zoccoli». Lo «stagno (pool; legato da paronomasia a “soul”)» è l’anima dell’autrice, le «stelle fisse» sono gli archetipi junghiani e i complessi della psiche, che «governano una vita», la sua.


II. “KINDNESS”

Altre due liriche accompagnano “Words” nella data di creazioni di quel primo febbraio: “Kindness” e “Mystic”. L’ordine presunto di redazione delle tre poesie penso sia questo adottato nella mia analisi. Alla rielaborazione poetica di quella lite segue la redazione di un testo di rilassamento, dove l’attenzione mette da parte i precedenti termini fortemente negativi e fa volgere lo sguardo poetico e umano della poetessa sulla sua famiglia (ormai composta da lei e i figli).
Ciò ha luogo con immagini positive: nella prima strofa compaiono il blu alchemico e il rosso di rubedo. Dalla seconda il tono cambia un po’ tramite profondi accenti esistenziali che creano un’atmosfera di colore. Possiamo percepire l’animo di Sylvia in quella mattinata, in cui il sole non è ancora sorto, assorta a pensare sul valore e sul significato della vita: l’essere umano ha quid superiore (l’anima, «soul») rispetto agli animali da cui differisce, che lei colora di vitalità autentica. «Il pianto di un bambino» cui accenna è un segno di vita toccante, autentico, a lei familiare. Di quella vita di cui ella coglie anche le sfaccettature pragmatiche.
Lo «zucchero» che la «Gentilezza» personificata afferma panacea è la gratificazione che a lei mancava (v. 10). «Sugar» non è solo “lusinga”, nello slang americano indica anche il “denaro”. I vv. 14-15 riassumono la sua condizione di allora le sue seriche creazioni letterarie rischiano di essere rifiutate ed emarginate. Questi due versi hanno però un potere significanza molto più ricco poiché rievocano altresì la sua rottura matrimoniale: la Plath è una “japanese butterfly”, una “Madama butterfly”, una donna abbandonata. I vv. 16-17 ci restituiscono Sylvia la quale fa colazione seduta davanti al suo caldo tè fumante: è un’aggraziata e affettuosa immagine di interno familiare, del ritiro notturno che va svanendo.
Il testo al successivo v. 18 instaura un’analogia con la ferita al costato di Gesù crocifisso di cui nel Vangelo di Giovanni: «Lo zampillo del sangue è poesia, / non c’è come fermarla [preferisco collegare «it» a «poetry» che non a «jet»; n.d.r.]». La lirica della Plath nasce da una lacerazione dell’animo, il quale in potente poesia converte i suoi stati, i pensieri, i ricordi, le sue esperienze. E tutto si chiude in “Kindness” con lo sguardo ai propri figli (v. 20), e con la mente alle preoccupazioni per loro («two roses»), le quali “Edge” – ultimo componimento plathiano, posteriore di quattro giorni – affronterà con spirito risolutivo.


III. “MYSTYC”

Il titolo di “Mystyc” a primo impatto può sembrare incomprensibile. Se la parola fosse un sostantivo indicherebbe il “mistico” in generale, cosa che non ha grande pertinenza con il testo; meglio quindi intenderla nella veste di aggettivo: mistico, misterioso, occulto, magico. Ma quale il concetto di cui si predica?
Potrà apparire più evidente dopo l’analisi della lirica, assunta una visione completa dei suoi contenuti. La prima strofa della poesia mette in scena la Grande madre negativa, connotata dal nero («black») della nigredo. Gli «ami (hooks)» del «mulino» fenomenico servono a far abboccare meritevoli di morte spirituale. In inglese esiste un proverbio che parla del mulino di Dio (God’s mill grinds slow but sure) e una espressione arcaica legante Dio agli ami/uncini (to be off the hooks: essere fuori della grazia di Dio). Questo “Dio/nevrosi collettiva”, “mostro/ombra junghiana” è denunziato nella seconda e nella terza strofa.
«Qual è il rimedio» a questo cosmico multiforme nefasto progetto di persecuzione a danno del benessere che deriva dallo squilibrio? La risposta nella quarta e quinta strofa. Non il rifugio fideistico ulteriore nella forma liturgica cristiana (a cominciare dall’assunzione dell’ostia consacrata; vedi i vv. 16-17), né tanto meno mettersi a raccogliere briciole di speranza cristiana da altri, mansueti animali consumatori di marxiano oppio soddisfatti nelle loro bassezze e deformità spirituali dentro la gabbia della felicità degli idioti (vedi i vv. 18-20). Gli ultimi versi della lirica indicano la via: la verità sta nel profondo (vedi i vv. 25-27).
Nel corso della redazione di tre poesie in quel primo febbraio ’63 è però giunta l’alba (v. 25), il mondo ha preso a vivere il giorno (vv. 23-24), e il travaglio creativo in siffatti pensieri è stato positivamente superato (v. 26). L’aggettivo “Mystic” del titolo pertanto credo sia da riferirsi a un concetto di itinerarium mentis come cammino di risoluzione. E da ciò è possibile ricollegarsi agli interessi per l’occultismo di Sylvia Plath che costituiscono una riprova di ritorno della mia interpretazione.

L’ORIZZONTE JUNGHIANO DI SYLVIA PLATH

di DANILO CARUSO

Negli anni scorsi ho scritto due monografie plathiane: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”.
Dalla seconda di esse ho estratto queste sezioni analitiche dedicate a tre poesie dell’autrice bostoniana. Preciso in breve che la mia impostazione critica, la quale consiglio di approfondire leggendo per intero i miei saggi, è fondata sopra un punto di vista junghiano coniugato a vari richiami filosofici di natura spiritualistica: di ciò, quanto segue, costituisce un generale exemplum.


I. “I AM VERTICAL”

“I am vertical”, lirica plathiana del 28 marzo ’61, è una poesia che può suscitare a primo impatto l’impressione di un auspicio di morte verso di sé della scrittrice. Un’attenta lettura smentisce tutto ciò e fa trasparire come non ci sia una vocazione all’autodistruzione, bensì un positivo desiderio di crescita spirituale, di armonia col mondo, sebbene frustrato, il che dà al lettore superficiale quella parvenza negativa (il risultato di una fuorviante interpretazione del testo).
Tutta la lirica ruota attorno al «motherly» del v. 3: può essere aggettivo (materno), oppure avverbio (maternamente), o anche – secondo me – mantenere entrambi i livelli semantici di un ingegnosissimo e raffinatissimo gioco linguistico strutturato sull’ambiguità di lettura. Io credo che la Plath voglia dire due cose allo stesso tempo in questo verso: 1) ella è insoddisfatta di sua madre (livello semantico dell’aggettivo), e inoltre, poiché sopra di lei si proietta quest’egida negativa dell’archetipo junghiano della Grande madre, si sente a sua volta delusa nella sua veste materna (livello semantico dell’avverbio). In parole povere è «verticale» schiacciata dentro una morsa. L’«essere orizzontale» non è la posizione del morto: l’autrice, più avanti al v. 17, ribadisce che questo «giacere giù» è per lei «più naturale». «Lying dawn» è un calco di “lying-in”: degenza delle partorienti in clinica. E inoltre “lying in hospital” indica la clinica ginecologica. “I am vertical” ruota attorno al tema della “maternità”, inteso in ampi sensi: 1) l’avere una madre di Sylvia, 2) il suo stesso essere una mamma; e il tutto è contenuto nella Grande madre fenomenica con cui la poetessa si relaziona e si confronta (ne sono esempi i due casi testé citati). L’«albero» del v. 2 è il cosmo empirico, nel quale ella si trova a disagio (vv. 4-10).
Lei lamenta il fatto di non essere stata posta nelle migliori condizioni esistenziali (v. 4) e di non ricevere la meritata attenzione (vv. 5-6: gli «Ahs» sono interiezioni di compassione). Lo «unknowing» all’inizio del v. 7 non ha senso riferirlo alla scrittrice: è assurdo dire che non sa una cosa affermata subito dopo. Mentre assume un senso preciso allorché collegato ai soggetti degli «Ahs»: costoro ignorano che la Plath non sarà sempre di persona petalosa davanti a loro; stanno cioè perdendo l’opportunità offerta del contatto in vita, giacché nessuno vive in eterno come «l’albero» cosmico (v. 8). Una persona comune («flore-head») non è migliore di lei («tall»), potrà tutt’al più essere appariscente, dare nell’occhio, ingannare.
La poetessa bostoniana sottolinea altresì con ironia che le mancano un tempo considerevole allo scopo di cercare di rimettere le cose a posto e la temerarietà dei mediocri (v. 10). La vita appare a Sylvia una notte-nigredo («tonight») illuminata dagli archetipi junghiani («stars»), una notte in cui rientrano i vari mondi-epoche e le persone («trees and flowers»). Si veda a quest’ultimo riguardo la mia spiegazione della concezione plathiana della storia in qualità di dialettica interna della Grande madre. E lei passa in modo ingiusto inosservata: in questi vv. 11-13 c’è un che di Gv 1,5.11 a testimoniare qui agente nella riflessione poetica di Sylvia l’animus-Cristo, che è il promotore di un fraintendimento generale sul reale orizzonte di questa lirica (cosa già sopra spiegata, e nella quale non è difficile incappare). Nei vv. 14-16 la Plath chiarisce che il sonno dogmatico (della ragione) è la prerogativa dei mediocri, di chi vuol restare asservito nell’ignoranza.
Ma non è il suo caso: lei non è un’idiota «verticale»; a lei si addice la posizione della partoriente (della Grande madre positiva), ossia quella «orizzontale». La morte (dell’anima) sta nella verticalità, la vita invece risiede nell’orizzontalità. Ed è in questo secondo momento che l’autrice bostoniana e il cielo (al di là del quale sta l’iperuranio) si trovano faccia a faccia (v. 18): l’architettura concettuale di tutto ciò è analoga a quella del platonico mito della caverna. Avvicinandosi, quindi, ella al modello orizzontale, positivo di una Grande madre, può perciò sostenere di poter «essere utile», a sé e agli altri, i quali nella sua superiorità potranno trovare più una risorsa che non spunto di ostilità (vv. 19-20).
“I am vertical” è uno sprone a non sprecare le nostre vite, a sfuggire da tutti gli adescamenti che allontanano l’essere umano dal realizzare la sua individuazione dentro alla realtà in cui vive, e a non lasciarsi passare innanzitutto il mondo addosso a guisa di una bestia da soma. Il verbo to suck up utilizzato al v. 3 vuol dire nello slang fare il leccapiedi: penso che anche qui la Plath faccia delle allusioni al successo (effimero) dei mediocri, i quali alla fin fine nella loro audacia (v. 9) si tramutano in collaboratori della junghiana “ombra” a scapito di un migliore benessere collettivo.



II. “TOTEM” E “BRASILIA”

In “Totem”, poesia plathiana del 28 gennaio ’63, il mondo fenomenico è visto come un feticcio, falso idolo di sprovveduti esseri che non differiscono dagli animali (v. 5). Il loro meccanico ossequio a cicliche bestiali forme alla base dell’agire quotidiano converte ognuno in un sacrificabile (e sacrificato come apparirà nel finale) Isacco, un soggetto contento e gabbato nella sua arida piccolezza: la sorte della lepre sarà la sua. La coppia “Platone/Cristo” (vv. 15-16) denota gli estremi della struttura bipolare dell’animus junghiano con cui Sylvia si confronta.
Questo rappresenta inizialmente l’altro-da-sé per lei da esperire: il mangiare la lepre indica lo scoprire il mondo. Esso allora le appare ingannevole (vv. 18-19), costruito su una speculazione falsa («serpente simulato») inerente al meccanicismo riprodotto a «bacchetta [di direttore d’orchestra]». I vv. 20-27 mi danno tutta l’impressione di essere un’allegoria negativa cosmico-sessuale. Il serpente con un occhio solo è un’espressione denotante il membrum virile (ne ho parlato a proposito di “Mad girl’s love song” nel primo dei suddetti saggi1), mentre monte di Venere è una parte anatomica femminile soprastante all’ingresso vaginale (v. 21): l’actus coeundi, da intendersi in senso lato (anche in quello junghiano-alchemico liberatorio, di cui ho detto trattando di “The Bell Jar”2 , che può far paura come la Plath dice riguardo a sé nel v. 20), è reso dal v. 22.
Quest’imago del mondo a mo’ di vagina a cielo aperto ha coloritura esteriore evoliana: ci ripropone un mondo in cui il “maschile” (attivo; per Sylvia: animus “Ted/il padre”) prevarica sul femminile (passivo; per Sylvia: la sua anima), ma al contempo testimonia la ricerca (non fruttuosa beninteso in questa maniera) di una dimensione del passato più affidabile e rassicurante di quella moderna.
L’alba, allora, non è universale “albedo”, ma sterile (distopico) flusso mestruale (vv. 23-24): un ciclico, non finalistico, ripetersi invade il cosmo, a ogni livello, e colpisce tutti (vv. 25-28).
La Grande madre negativa (Natura matrigna leopardiana) mostra il suo gorgonico volto nei sublimi versi finali (vv. 29-34). L’inconscio collettivo viene dipinto con i tratti di un ragno che tesse l’universo fenomenico, il quale alla fine cattura i suoi ingenui componenti («bambini blu»), distruggendoli attraverso le sue leggi applicate a «bacchetta [di direttore d’orchestra]». Tali conclusivi versi mi hanno colpito in virtù dell’analogia che essi hanno con una mia lirica intitolata “De anima”. In verità non è l’unica che ho avuto modo di trovare, l’altra riguarda però Frida Kahlo  e “Lo que el agua me dio”.


De anima (versi endecasillabi sciolti)

L’anima mia è come un lago:
molte sono le cose galleggiantevi,
il cielo è la maglia di un ragno:
il suo fondo rimane insondato.


In “Brasilia”, poesia di Sylvia Plath del primo dicembre ’62, viene tematizzato l’orizzonte utopico/distopico del reale quotidiano.
L’autrice richiamando l’attenzione sull’edificazione della nuova capitale brasiliana ci invita a scorgere la “Boston celeste” dietro alla “Boston terrestre”, l’utopia positiva al di là di quella negativa: dove un oltreuomo («super-people») maturi il senso di un mondo rigenerato, non antiutopico, e costui sia il paladino di un nuovo umanesimo (con parità di genere, diverso da quello evoliano). Sylvia Plath dunque ci appare nella sua grandezza, nell’essere un’oltredonna, una super-woman. Si eleva al rango di una Madonna/Iside, una Grande madre positiva che si contrappone alla negativa (strutturale del fenomenico).
Il pensiero è al piccolo Nicholas, che morirà suicida nel 2009, come se la seconda parte di “Brasilia” volesse rappresentare un auspicio diverso rispetto a questo atto tragico, come se lei sapesse già l’iter di sofferenza che porterà a ciò il figlio paragonato a Gesù (si veda in particolare il riferimento all’«annichilazione della colomba»). Se Sylvia è un’oltredonna, quelle che non lo sono degradano la natura umana (al pari degli uomini simili), e per costoro il “totem” che dà titolo alla lirica precedentemente esaminata assume la foggia di un fallico feticcio in una fallimentare sizigia nella quale c’è solo bestialità: essendo compagne di totemici «maiali» la femminile junghiana anima muore, resta solo il fisiologico che se isolato squalifica.





NOTE

1 “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, pag. 16.
2 Ibidem, pag. 30.

venerdì 2 marzo 2018

LA DISTOPIA EBRAICA DI YENTL

di DANILO CARUSO

Ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli.

Vangelo copto di Tomaso1


Yentl è la protagonista femminile di un racconto dello scrittore Isaac Singer (1904-1991): un autore nativo della Polonia, cresciuto nella cultura giudaica ortodossa (dai cui tratti formali si distaccò), divenuto cittadino degli USA (dove emigrò negli anni Trenta a causa del barbaro antisemitismo europeo). Yentl è una ragazza bruna di inizio Novecento, la quale assistita dal padre riesce a studiare i testi e la teologia dell’Ebraismo, in casa e di nascosto: ciò sarebbe stato impossibile in maniera aperta, giacché la comune prassi giudea dell’epoca discrimina le donne. Rimasta completamente orfana, lei allora decide di vestirsi da uomo, celando la sua identità sessuale. Venduta l’abitazione di famiglia, e travestita, la sua vocazione la conduce in una comunità di studio teologico (yeshivà). Con il nome maschile di Anshel fa conoscenza di Avigdor, il quale diverrà suo compagno di studi e di cui si innamorerà. Quest’ultimo era reduce dal mancato matrimonio con Hadass, andato a monte perché era stato scoperto che un di lui fratello si era suicidato: cosa ritenuta molto compromettente in un ambiente di osservanza religiosa rigida. Una simile comunità ebrea polacca, tratteggiata da Singer, rappresenta uno sfondo distopico alla narrazione della vicenda. È possibile rilevare la dimensione sociale dello Stato etico veterotestamentario, con tutto il suo portato prescrittivo, non poche volte, nutrito di pregiudizi misogini. Non è un caso accidentale quello che ha portato lo scrittore premio Nobel nel ’78 a redigere un siffatto racconto (dal titolo paradossale: “Yentl, il ragazzo della yeshivà”). La tradizione antifemminista uscita fuori del Tanak ha rappresentato la base della radicale misoginia transitata nel Cristianesimo. L’antropologia biblica dell’Antico Testamento maltratta le donne. Le presenta responsabili ingiustificate dei peggiori mali (a partire da Eva2), ne comporta uccisione in vario aberrante modo (la moglie di Lot, la figlia di Iefte, la regina Gezabele), le dipinge inaffidabili e cattive compagne (Dalila, la moglie di Giobbe). Riserva loro un ruolo subalterno, apprezzato soltanto se funzionale al benessere del popolo eletto; e non si tratta sempre di figure encomiabili (le incestuose figlie di Lot, l’omicida Giuditta). La donna porterebbe scompiglio nella mente di un uomo (Betsabea, ad esempio), il Tanak dice che se ne impossessa e che costei è peggiore della morte. Pure Yentl si fa portavoce di simili assurdi pregiudizi nell’esprimere considerazioni su Peshe (colei che diverrà moglie pro tempore di Avigdor): «Anshel disse ad Avigdor che tale matrimonio era cattivo. Peshe né era di bella presenza né intelligente, era soltanto una vacca con un paio di occhi. Inoltre, impersonava la cattiva fortuna, perciò suo marito morì il primo anno del loro matrimonio. Tali donne erano ammazzamariti». Singer ha voluto offrire un esempio concreto di tale grottesca ottica nel suddetto personaggio: Avigdor e Peshe alla fine divorzieranno. Yentl rimasta di sua spontanea iniziativa intrappolata nella sua facciata pubblica maschile – una simulazione che la turberà a tratti parecchio – si adopera al fine di riunire Avigdor e Hadass. «Spogliata di gabardina e pantaloni, ella ancora una volta era Yentl, una ragazza in età adatta di matrimonio, innamorata di un giovane che era fidanzato con un altra. […] Anshel non poteva ritornare a essere una ragazza, non poteva mai più rimanere senza libri e una casa di studio.  […] L’anima era perplessa, giacché si trovava incarnata in un corpo improprio». Lei sposa Hadass: «Anshel rammentò che fu Avigdor che aveva voluto che lei si sposasse con Hadass. […] Raccoglierebbe la vendetta per Avigdor, e parallelamente, attraverso Hadass lo trascinerebbe in migliore intimità». Poi ripudiatala, de facto la consegna tra le braccia del suo amato. Il racconto è articolato, e passa attraverso la rivelazione di Yentl inerente alla di lei vera identità sessuale ad Avigdor. «Benché i loro corpi fossero differenti, le loro anime erano di unico genere. [...] Egli vide in modo nitido che questo era quello che lui aveva voluto sempre: una moglie la cui mente non fosse presa da interessi materiali… [...]. Lei aveva l’anima di un uomo e il corpo di una donna». Avigdor vorrebbe sposarla, avendone apprezzate le doti umane e intellettuali, tuttavia ella rifiuta la prospettiva di un’esistenza muliebre secondo il canone ebraico. Preferisce lo studio. Il brano del vangelo apocrifo riportato sopra in apertura, che cita delle parole di Cristo, afferma un punto di vista che non è eccentrico nella tradizione giudaicocristiana. Yentl rimane oppressa in un distopico meccanismo di omologazione normativa: non può essere intellettuale senza rinunziare alla sua femminilità. Rimarrà vittima, assieme a uno sconsolato Avigdor (il quale darà il nome di Anshel al figlio avuto da Hadass), di una totalitaristica cornice prescrittiva. Dal racconto esaminato di Singer, Barbra Streisand ha tratto occasione di realizzare un film (dove è la protagonista), prendendo altresì spunto da una di esso trasposizione per il teatro di Leah Napolin. “Yentl” uscì nel 1983, anno in cui l’americano Seminario di teologia giudaica decise di aprire le sue porte all’ammissione del gentil sesso. Nel film intorno al minuto 47 si accenna superficialmente al nevralgico tema della “tsela” di cui ho chiarito gli aspetti nel mio studio indicato nella nota 2: fianco o costola? Anticipo in breve che l’adam biblico originario è un androgino, scisso poi in due unità: il lato femminile rappresenterà la donna, a modo di vedere del Tanak motivo di degrado ontologico nonché antropologico. Yentl di Singer, in qualche maniera, costituisce anche una parodia di questa maschilistica concezione di perfezione: l’androgino annullerebbe il negativo del femminile nella sua forma individuale. In seguito a ciò, Yentl assume connotati a volte grotteschi a volte distopici, che gridano vendetta.




NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche

1 Gesù / Il racconto dei vangeli apocrifi (Volume X de “I grandi libri della religione”), Mondadori.

2 Non mi dilungherò in questa sede a parlare della negativa visione del “femminile” in “Genesi” inserita nel contesto della produzione degli esseri umani, dato che ho già trattato l'argomento in dettaglio altrove, in un testo che invito a leggere: “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi”, contenuto nel mio saggio “Considerazioni letterarie (2014)”.

giovedì 1 marzo 2018

L’IRRAZIONALISMO PROTESTANTE NEL “MONDO NUOVO”

di DANILO CARUSO

Quest’estratto della mia monografia “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”1 mette in evidenza il particolare aspetto della vocazione irrazionalistica in “Brave New World”. Il famoso romanzo dello scrittore inglese, fu pubblicato dopo che era scoppiata la grande crisi economica internazionale del ’29, nel 1932 (scritto l’anno prima, uscì il seguente anche nell’Italia fascista).
L’autore, persona riflessiva e lungimirante, ebbe nel ruolo di professore a Eton fra gli allievi il giovane George Orwell. Alla fine degli anni ’20 la sua produzione fu bocciata da Thomas Stearns Eliot. La sua raffinata abilità lo smentì prontamente con un capolavoro letterario.
L’analisi che ho sviluppato su tale opera ha preso le mosse da un preciso approccio: leggere qui Huxley alla luce dei contenuti de “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905)” di Max Weber. Perché quello che fa Huxley in “Brave New World” è spiegare la possibile ulteriore evoluzione negativa della società capitalistica, la quale può consegnare irrecuperabili esseri umani nelle vesti di edonisti senza cuore e specialisti privi di intelligenza.
La distopia huxleyana illustra nei suoi dettagli un sistema eudemonistico (fondato sul culto del bello e del piacere) con specifiche connotazioni, su cui ho costruito un percorso critico e analitico, e sul quale lo stesso Huxley ritornò nel 1958 a pubblicare sue considerazioni col saggio “Brave New World Revisited”.
Il titolo in inglese volto in italiano generalmente perde l’aggettivo “brave”, cosa la quale, a mio modestissimo avviso, limita molto la comprensione intuitiva e preliminare del taglio del racconto. “Brave” significa “coraggioso”, coraggioso è colui che rischia, e il rischio è uno dei fattori dell’intraprendenza capitalistica: questo Brave New World è “l’impavido nuovo mondo” del capitalismo estremo il quale ha il coraggio di spingere la sua inclinazione all’irrazionalità sino all’eccesso.
Se alla lettera possiamo qualificare il New World “impavido” (in virtù della sua logica interna), però all’occhio di un giudizio critico – dato che si tratta di una distopia – non possiamo fare a meno di definirlo “temerario”. Comunque, tenendo conto di ciò, preferisco tradurre il titolo con: “L’impavido nuovo mondo” (senza dimenticare tuttavia che il primo aggettivo cela un’allusione negativa). Il Mondo Nuovo garantisce, a suo modo, la felicità degli uomini. Se poniamo attenzione al fatto che il diritto a essere felici («the pursuit of Happiness», il perseguimento della felicità) è stato inserito nella dichiarazione d’indipendenza degli USA (4 luglio 1776), vale a dire del Paese che più di tutti ha innalzato il capitalismo a propria filosofia di vita (se non proprio religione), ci accorgiamo che detti concetti non sono presenti a caso nella distopia huxleyana: in senso spaziale geografico, non cronologico (quello prossimo assunto da questa distopia), l’espressione “nuovo mondo” indica l’America.
Riferendosi al nostro tempo, Huxley in “Brave New World Revisited” sottolinea che «nella vita degli esseri umani civilizzati la distrazione di massa ora gioca un ruolo accostabile a quello giocato nel Medio Evo dalla religione». In mezzo a un discorso rivolto a studenti nel cap. III del romanzo è significativo l’aggettivo “fortunato”: «Giovani fortunati! (Fortunate boys)», vengono appellati. La fortuna (“fortune” in inglese, destino) che li ha resi privilegiati nel loro futuro (con l’espressione “man of fortune” si indica “l’uomo ricco”) è una riproposizione della vecchia idea di predestinazione passata dal calvinismo al capitalismo: la democrazia classica è adesso ritenuta un’astratta considerazione fisiologica sull’umanità; l’intraprendenza era la discriminante valida, ora una genetica predestinazione.
In una simile realtà anche l’autentica filía scompare, e quel che ne resta è soltanto un surrogato ammesso dal sistema in cui si trovano i protagonisti del racconto, di cui dal cap. III cominciano a svilupparsi i profili: l’onomastica dei personaggi di Lenina Crowne e Bernard Marx è evocativa di una critica anticapitalistica (nel Mondo Nuovo non per niente la valuta è il dollaro).
In quell’argomentare di un dirigente mondiale agli studenti pare intravedersi la trasposizione distopica di temi letterari elaborati da Thomas Stearns Eliot: già dal suo cognome («Mond»), il quale coincide con quello del simbolico Ebreo capitalista ricordato nell’eliotiana “A Cooking Egg (1920)”, sembra che Huxley prenda a prestito la poetica di questo scrittore angloamericano, illiberale e conservatore, anglicano, antisemita e misogino, allo scopo di condurre una critica a materie aventi uno sfondo integralista, reazionario e antidemocratico. Inoltre l’aggettivo “pneumatic”, utilizzato da Huxley nel definire Lenina, messo in bocca a Henry Foster, pare avere un’ascendenza eliotiana. La connotazione negativa che esso assume allo sguardo di un osservatore esterno al New World ha dunque due giustificazioni: la prima è che a usarlo è il poco acuto e conformista Foster, la seconda è il valore che gli deriva dalla quinta quartina di “Whispers of Immortality (1920)” di Eliot in cui compare.
Qui “pneumatic” è attributo di «bliss (beatitudine, felicità)», cui porterebbe «l’amichevole seno (friendly bust)» della «bella (nice)» Grishkin (una Russa) «senza corsetto (uncorseted)». Nel cap. IV di “Brave New World” Benito Hoover dirà di Lenina che è «pretty (graziosa, attraente)» e «pneumatic». La valenza di esclusivo piacere per i sensi con cui “pneumatic” coglie l’eros, fermandosi alla sua superficie, si addice in modo spregiativo a un apparato che ha fatto una specie di paradiso del secondo cerchio infernale dantesco, non specificamente a Lenina cui l’attributo è dato da altri.
I «breasts (seni)» di Lenina saranno citati al principio del cap. VI allorché Bernard li palperà. In tale Mondo Nuovo, dove possono usarsi «profilattici caldi (hot contraceptives)», la sessualità non è tabù (il suo esercizio è agapico): si osservi il gioco verbale ad esempio nel brano (v. prima parte del cap. V) in cui i «saxophones (sassofoni)» possono essere suonati dai «sexophonists».
La promiscuità è normale: «ella aveva agito nella maniera in cui qualunque sana e virtuosa ragazza inglese dovrebbe comportarsi e non in qualche altro, anormale, straordinario modo». Nell’aggettivo “pneumatic”, il quale ricorre nel romanzo riferito a donne e a cose, si coglie una sottile, ma non per questo piccola, sfumatura di significato religioso: nei versi menzionati di Eliot l’attribuzione di pneumatic a bliss permette che l’ultimo termine si carichi del significato di premio della predestinazione (religiosa), e quindi pneumatic è predicato di ciò che nella teologia è toccato dallo Spirito Santo (Pneuma, nel Nuovo Testamento): nella celebrazione comunitaria calvinista viene definita “pneumatica” la presenza, per mezzo dello Spirito Santo, di Cristo.
Nel New World lo Spirito Santo del capitalismo informa la società, e ciò su cui impone il suo sigillo (una sorta di Pentecoste) è particolarmente gradito, desiderabile, confortevole, consono alla felicità (la cui ricerca fu riconosciuta dall’atto di proclamazione dell’indipendenza degli USA, come già accennato): l’aggettivo “pneumatic” è allora un indicatore di benessere (potenziale, attuale o esperito), un aggettivo che fa pubblicità, promozione di tale regime di vita.
Il cap. IV del romanzo di Huxley introduce la figura di un amico di Bernard, un insegnante di psicologia della comunicazione scritta, nonché scrittore, Helmholtz Watson, con cui aveva in comune la coscienza di un personale disagio.
Una filía ciceroniana si instaura nel rapporto fra i due: «quello che aveva reso Helmholtz così spiacevolmente cosciente di quel che era e di essere isolato era il talento fuori della norma. Ciò che i due uomini condividevano era la cognizione che fossero delle persone». Helmholtz, il quale godeva di tutto quello che sarebbe stato gradito a Bernard, stante la sua diversità, non tanto apprezzata dall’establishment, a sua volta era stato spinto ad appartarsi.
Non gli interessavano più il divertissement né l’esercizio delle prerogative del suo status (si attribuivano a lui 640 donne nell’arco di un quadriennio): egli attendeva che la sua mente risvegliata da un sonno dogmatico, potesse esprimere la forza pervasiva di qualcosa di nuovo che superasse gli schemi, qualcosa di positivo e utile di cui non riusciva a cogliere la sostanza, e che incitandolo lo spronava a cercare: una pulsione di sublimazione lo attraversava in maniera anomala.
La seconda metà del cap. V illustra lo svolgimento di una liturgia («servizio di solidarietà»), tipica del Mondo Nuovo, la quale non è che uno stadio degenerato del culto comunitario protestante, nel meccanismo distopico disegnato da Huxley che porta le basi irrazionali e religiose del capitalismo, soprattutto americano, a manifestarsi in forme collettive e spirituali rinnovate.
Ogni due settimane si tengono delle assemblee ristrette di sei uomini e sei donne (un numero pari a quello degli apostoli) denominate «gruppi di solidarietà»: la quale solidarietà è indicativa della sui generis agápe del New World. Chi presiede la liturgia, durante il suo corso, impartisce una specie di benedizione facendo al posto del segno della croce cristiano quello della T evocante Ford (il nuovo “Lord”). Soma (una droga legale), e «gelato di soma alla fragola», «nella coppa dell’amore [agapico, loving cup; n.d.r.]» prendono il posto simbolico del corpo e del sangue di Cristo (il pane e il vino).
La dinamica dell’Ultima cena di Gesù viene contaminata da Huxley con aspetti aggiuntivi non sempre di derivazione biblica. In alcuni versi degli inni liturgici cantati nel «solidarity service» compare un concetto di corpo mistico: «Ford, noi siamo in dodici, oh fa’ di noi un solo corpo [make us one; n.d.r], / come gocce dentro il Fiume Sociale… Lo scioglimento di noi dodici in un solo corpo [Annihilating Twelve-in-One]»; nonché un concetto della passione di Gesù e dei suoi benefici spirituali: «Noi desideriamo fortemente morire, affinché, quando ci spegniamo, abbia tuttavia inizio una nostra più grande vita».
Un’apocalittica attesa dell’«Ente Supremo (Greater Being)», l’«imminenza della Sua Venuta», in simile clima di induzione all’autosuggestione (verso cui Bernard è poco sensibile e disposto), fanno addirittura diventare percepibili «i passi dell’Ente Supremo» (si pensi al brano veterotestamentario di Gn 3,8 in cui Dio cammina nel giardino dell’Eden e viene udito da Adamo).
A ciò si aggiunge la venatura di un quid massonico grazie all’epiteto «Greater Being» (in luogo di “Dio”), il quale nell’intero intreccio, che sembra la parodia dell’ethos religioso protestante americano, assume un suo preciso valore in virtù dell’importanza della massoneria nella crescita sociale degli USA.
Una realtà capitalistica, questa, che ha fuso appunto diversi ambiti comportamentali in una prospettiva discutibile e portata a livello di distopia da Huxley. La cerimonia descritta rammenta nel suo finale i fedeli deliranti di liturgia protestante evangelica.
Tutto si conclude a mo’ di una Pentecoste, con «the coming of the Twelve-in-One», l’arrivo di una specie di Spirito Santo («Ente Supremo») che fa dei dodici un solo corpo mistico nella consapevolezza, la quale lascerà dopo la conclusione del rito il loro animo pacificato e rilassato, che c’è stata «l’incarnazione (the incarnation) del Greater Being»: «in una soffusa luce rossa era come se un’enorme nera colomba [“the Dove” è lo Spirito Santo; “negro spirituals” sono canti religiosi dei neri americani; n.d.r.] stesse benevolmente librandosi sopra gli adesso proni o supini danzatori». Bernard capisce che si tratta di un’illusione, di una finzione, che l’ingenuità trova comodo, rassicurante, comfortable è il caso di dire, credere vere; una cosa di fronte a cui lui, sentendosi distante, si vede immerso in un rinnovato disagio. Il binomio «Orgy-porgy», presente nei versi di tale grottesco rituale, si mostra indicativo dello sfondo che Huxley dà, e in linea di massima dell’orizzonte che l’autore offre nell’arco della narrazione. “Porgy” è, in inglese americano, un pesce dalla fattezza piatta e larga (“pagro” in italiano): la sua immagine ricorda il simbolo dei primi cristiani (la parola “pesce” in greco antico fungeva da acrostico).
«Orgy-porgy» sembra allora riferirsi al Cristianesimo americano protestante sulla cui base calvinista è nato un cosmo capitalistico cui la massoneria non è stata estranea. Il «pesce dell’orgia» non è nel testo inglese huxleyano una semplice paronomasia: è il simbolo di quel capitalismo – avente le radici religiose intraviste da Weber – nella sua veste degradata e qui distopica («Orgy-porgy dà la liberazione» dal male).
Nel Mondo Nuovo un’apatica soddisfazione generalizzata ha ottenuto il sopravvento, poiché gli individui hanno accolto il nuovo sistema rinunziando all’autenticità umana (la quale è fatta di un miscuglio di fattori emotivi e razionali di continuo interagenti inter se).
L’umanità ha respinto la nobiltà intellettuale e si è gettata ai piedi di un’irrazionale aristocrazia, che ha prodotto la società delle classi e del condizionamento. Non è facile, né utile, livellare i gruppi umani verso i gradini più alti dell’intelligenza: la stupidità unisce, crea equilibrio, amalgama; l’intelligenza divide, è dialettica, crea confronto.
La maggioranza degli uomini tende a riconoscersi verso il fondo della bestialità, allora non ha senso liberarli da un’occupazione lavorativa, che riempie le loro teste e il loro tempo. I più, formatisi nella mediocrità, non saprebbero cosa farsene del tempo libero. La felicità consiste, oltre che nel dare comforts materiali e pratici, nell’alleggerire il soggetto dal peso della responsabilità sociale.
Non esiste ormai un’autonomia di giudizio. La continenza, protestante prima, e capitalistica poi, si è riversata sulle forme di mantenimento del Mondo Nuovo; la quale continenza adesso ha riabilitato e liberalizzato i vecchi orizzonti negativi: ora è possibile «un’indulgenza nei propri confronti fino alle più profonde frontiere imposte dall’igiene e dall’economia. Viceversa le ruote smettono di girare». Un edonismo, che mette all’angolo l’antica religiosità e Dio, assurge al rango di manifesto programmatico, di religione tecnologica, nel cementare la tenuta del sistema. L’insieme è iperbolico e vorticoso, nella sua vocazione al godimento e alla distrazione, che non richiedono sforzi: altro paradosso del New World è che non c’è disoccupazione.
Tale apparato si è modellato sul precedente: ha negato i di esso mali, però il suo irrazionale regime ha negato altresì, durante la sua gestazione, gli aspetti positivi. L’uomo del Mondo Nuovo condivide con il suo antenato capitalistico la definizione: «un felice, laborioso, consumatore di beni».


NOTA