di
DANILO CARUSO
Negli
anni scorsi ho scritto due monografie plathiane: “Sylvia Plath e l’utopia
dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”.
Dalla
seconda di esse ho estratto queste sezioni analitiche dedicate a tre poesie
dell’autrice bostoniana. Preciso in breve che la mia impostazione critica, la
quale consiglio di approfondire leggendo per intero i miei saggi, è fondata
sopra un punto di vista junghiano coniugato a vari richiami filosofici di
natura spiritualistica: di ciò, quanto segue, costituisce un generale exemplum.
I. “I AM
VERTICAL”
“I
am vertical”, lirica plathiana del 28 marzo ’61, è una poesia che può suscitare
a primo impatto l’impressione di un auspicio di morte verso di sé della
scrittrice. Un’attenta lettura smentisce tutto ciò e fa trasparire come non ci
sia una vocazione all’autodistruzione, bensì un positivo desiderio di crescita
spirituale, di armonia col mondo, sebbene frustrato, il che dà al lettore
superficiale quella parvenza negativa (il risultato di una fuorviante
interpretazione del testo).
Tutta
la lirica ruota attorno al «motherly» del v. 3: può essere aggettivo (materno),
oppure avverbio (maternamente), o anche – secondo me – mantenere entrambi i
livelli semantici di un ingegnosissimo e raffinatissimo gioco linguistico
strutturato sull’ambiguità di lettura. Io credo che la Plath voglia dire due
cose allo stesso tempo in questo verso: 1) ella è insoddisfatta di sua madre
(livello semantico dell’aggettivo), e inoltre, poiché sopra di lei si proietta
quest’egida negativa dell’archetipo junghiano della Grande madre, si sente a
sua volta delusa nella sua veste materna (livello semantico dell’avverbio). In
parole povere è «verticale» schiacciata dentro una morsa. L’«essere
orizzontale» non è la posizione del morto: l’autrice, più avanti al v. 17,
ribadisce che questo «giacere giù» è per lei «più naturale». «Lying dawn» è un
calco di “lying-in”: degenza delle partorienti in clinica. E inoltre “lying in
hospital” indica la clinica ginecologica. “I am vertical” ruota attorno al tema
della “maternità”, inteso in ampi sensi: 1) l’avere una madre di Sylvia, 2) il
suo stesso essere una mamma; e il tutto è contenuto nella Grande madre
fenomenica con cui la poetessa si relaziona e si confronta (ne sono esempi i
due casi testé citati). L’«albero» del v. 2 è il cosmo empirico, nel quale ella
si trova a disagio (vv. 4-10).
Lei
lamenta il fatto di non essere stata posta nelle migliori condizioni
esistenziali (v. 4) e di non ricevere la meritata attenzione (vv. 5-6: gli
«Ahs» sono interiezioni di compassione). Lo «unknowing» all’inizio del v. 7 non
ha senso riferirlo alla scrittrice: è assurdo dire che non sa una cosa
affermata subito dopo. Mentre assume un senso preciso allorché collegato ai
soggetti degli «Ahs»: costoro ignorano che la Plath non sarà sempre di persona
petalosa davanti a loro; stanno cioè perdendo l’opportunità offerta del
contatto in vita, giacché nessuno vive in eterno come «l’albero» cosmico (v.
8). Una persona comune («flore-head») non è migliore di lei («tall»), potrà
tutt’al più essere appariscente, dare nell’occhio, ingannare.
La
poetessa bostoniana sottolinea altresì con ironia che le mancano un tempo
considerevole allo scopo di cercare di rimettere le cose a posto e la
temerarietà dei mediocri (v. 10). La vita appare a Sylvia una notte-nigredo
(«tonight») illuminata dagli archetipi junghiani («stars»), una notte in cui
rientrano i vari mondi-epoche e le persone («trees and flowers»). Si veda a
quest’ultimo riguardo la mia spiegazione della concezione plathiana della
storia in qualità di dialettica interna della Grande madre. E lei passa in modo
ingiusto inosservata: in questi vv. 11-13 c’è un che di Gv 1,5.11 a
testimoniare qui agente nella riflessione poetica di Sylvia l’animus-Cristo,
che è il promotore di un fraintendimento generale sul reale orizzonte di questa
lirica (cosa già sopra spiegata, e nella quale non è difficile incappare). Nei
vv. 14-16 la Plath chiarisce che il sonno dogmatico (della ragione) è la
prerogativa dei mediocri, di chi vuol restare asservito nell’ignoranza.
Ma
non è il suo caso: lei non è un’idiota «verticale»; a lei si addice la
posizione della partoriente (della Grande madre positiva), ossia quella
«orizzontale». La morte (dell’anima) sta nella verticalità, la vita invece
risiede nell’orizzontalità. Ed è in questo secondo momento che l’autrice
bostoniana e il cielo (al di là del quale sta l’iperuranio) si trovano faccia a
faccia (v. 18): l’architettura concettuale di tutto ciò è analoga a quella del
platonico mito della caverna. Avvicinandosi, quindi, ella al modello
orizzontale, positivo di una Grande madre, può perciò sostenere di poter
«essere utile», a sé e agli altri, i quali nella sua superiorità potranno
trovare più una risorsa che non spunto di ostilità (vv. 19-20).
“I
am vertical” è uno sprone a non sprecare le nostre vite, a sfuggire da tutti
gli adescamenti che allontanano l’essere umano dal realizzare la sua
individuazione dentro alla realtà in cui vive, e a non lasciarsi passare
innanzitutto il mondo addosso a guisa di una bestia da soma. Il verbo to suck
up utilizzato al v. 3 vuol dire nello slang fare il leccapiedi: penso che anche
qui la Plath faccia delle allusioni al successo (effimero) dei mediocri, i
quali alla fin fine nella loro audacia (v. 9) si tramutano in collaboratori
della junghiana “ombra” a scapito di un migliore benessere collettivo.
II. “TOTEM” E
“BRASILIA”
In
“Totem”, poesia plathiana del 28 gennaio ’63, il mondo fenomenico è visto come
un feticcio, falso idolo di sprovveduti esseri che non differiscono dagli
animali (v. 5). Il loro meccanico ossequio a cicliche bestiali forme alla base
dell’agire quotidiano converte ognuno in un sacrificabile (e sacrificato come
apparirà nel finale) Isacco, un soggetto contento e gabbato nella sua arida
piccolezza: la sorte della lepre sarà la sua. La coppia “Platone/Cristo” (vv.
15-16) denota gli estremi della struttura bipolare dell’animus junghiano con
cui Sylvia si confronta.
Questo
rappresenta inizialmente l’altro-da-sé per lei da esperire: il mangiare la
lepre indica lo scoprire il mondo. Esso allora le appare ingannevole (vv.
18-19), costruito su una speculazione falsa («serpente simulato») inerente al
meccanicismo riprodotto a «bacchetta [di direttore d’orchestra]». I vv. 20-27
mi danno tutta l’impressione di essere un’allegoria negativa cosmico-sessuale.
Il serpente con un occhio solo è un’espressione denotante il membrum virile (ne
ho parlato a proposito di “Mad girl’s love song” nel primo dei suddetti saggi1),
mentre monte di Venere è una parte anatomica femminile soprastante all’ingresso
vaginale (v. 21): l’actus coeundi, da intendersi in senso lato (anche in quello
junghiano-alchemico liberatorio, di cui ho detto trattando di “The Bell Jar”2
, che può far paura come la Plath dice riguardo a sé nel v. 20), è reso dal v.
22.
Quest’imago
del mondo a mo’ di vagina a cielo aperto ha coloritura esteriore evoliana: ci
ripropone un mondo in cui il “maschile” (attivo; per Sylvia: animus “Ted/il
padre”) prevarica sul femminile (passivo; per Sylvia: la sua anima), ma al
contempo testimonia la ricerca (non fruttuosa beninteso in questa maniera) di
una dimensione del passato più affidabile e rassicurante di quella moderna.
L’alba,
allora, non è universale “albedo”, ma sterile (distopico) flusso mestruale (vv.
23-24): un ciclico, non finalistico, ripetersi invade il cosmo, a ogni livello,
e colpisce tutti (vv. 25-28).
La
Grande madre negativa (Natura matrigna leopardiana) mostra il suo gorgonico
volto nei sublimi versi finali (vv. 29-34). L’inconscio collettivo viene
dipinto con i tratti di un ragno che tesse l’universo fenomenico, il quale alla
fine cattura i suoi ingenui componenti («bambini blu»), distruggendoli
attraverso le sue leggi applicate a «bacchetta [di direttore d’orchestra]».
Tali conclusivi versi mi hanno colpito in virtù dell’analogia che essi hanno
con una mia lirica intitolata “De anima”. In verità non è l’unica che ho avuto
modo di trovare, l’altra riguarda però Frida Kahlo e “Lo que el agua me dio”.
De
anima
(versi endecasillabi sciolti)
L’anima
mia è come un lago:
molte
sono le cose galleggiantevi,
il
cielo è la maglia di un ragno:
il
suo fondo rimane insondato.
In
“Brasilia”, poesia di Sylvia Plath del primo dicembre ’62, viene tematizzato
l’orizzonte utopico/distopico del reale quotidiano.
L’autrice
richiamando l’attenzione sull’edificazione della nuova capitale brasiliana ci
invita a scorgere la “Boston celeste” dietro alla “Boston terrestre”, l’utopia
positiva al di là di quella negativa: dove un oltreuomo («super-people») maturi
il senso di un mondo rigenerato, non antiutopico, e costui sia il paladino di
un nuovo umanesimo (con parità di genere, diverso da quello evoliano). Sylvia
Plath dunque ci appare nella sua grandezza, nell’essere un’oltredonna, una
super-woman. Si eleva al rango di una Madonna/Iside, una Grande madre positiva
che si contrappone alla negativa (strutturale del fenomenico).
Il
pensiero è al piccolo Nicholas, che morirà suicida nel 2009, come se la seconda
parte di “Brasilia” volesse rappresentare un auspicio diverso rispetto a questo
atto tragico, come se lei sapesse già l’iter di sofferenza che porterà a ciò il
figlio paragonato a Gesù (si veda in particolare il riferimento
all’«annichilazione della colomba»). Se Sylvia è un’oltredonna, quelle che non
lo sono degradano la natura umana (al pari degli uomini simili), e per costoro
il “totem” che dà titolo alla lirica precedentemente esaminata assume la foggia
di un fallico feticcio in una fallimentare sizigia nella quale c’è solo
bestialità: essendo compagne di totemici «maiali» la femminile junghiana anima
muore, resta solo il fisiologico che se isolato squalifica.
NOTE
1 “Sylvia Plath e
l’utopia dell’essere”, pag. 16.
2 Ibidem, pag.
30.