di DANILO CARUSO
In un mio precedente scritto
dedicato alla figura di Donatien Alphonse François de Sade1 collegai
a questo esponente della letteratura francese due altri pensatori, Leopardi e
Nietzsche (cosa fatta da altri in passato), sviluppando il discorso in maniera
consona al mio modo di vedere quei rapporti. Espressi il mio accordo a chi
aveva sottolineato analogie, definii il Leopardi un “sadiano represso” e
indicai il sadismo quale possibile manifestazione della “volontà di potenza”
nietzschiana. Allora non aprii parentesi digressive allo scopo di evitare
dispersività, e mi limitai a ciò che era strutturalmente utile e necessario
dire in quell’analisi. In questo nuovo spazio affronterò in maniera concettualmente
più ampia e libera le due problematiche di tangenza testé ricordate
sviluppandole in modo più chiaro e circostanziato, e ampliandone l’orizzonte
laddove l’esame ne offrirà un interessante spunto. Parto da Giacomo Leopardi
(1798-1837), rammentando l’analogia principale con de Sade: la Natura matrigna.
Agli occhi di entrambi (in Leopardi a partire dall’epoca del pessimismo cosmico-radicale)
Madre Natura rappresenta soltanto una Grande Madre negativa, artefice e
promotrice di male e di malessere. La Verità sarebbe il Male in tutti i suoi
livelli epifanici. De Sade ne trae un aberrante modello pedagogico: se il Male
è il Vero, esso risulta dunque l’optimum (il Bene diremo paradossalmente;
perciò per ottenere felicità e gratificazione sarebbe opportuno agire in
maniera malvagia e malefica). Il filosofo di Recanati non è lineare da subito,
né tanto meno così “estroverso” in assoluto. Le sue tre aree evolutive di
pensiero spalmano e spacchettano i canoni del sistema sadiano. Durante la fase
del pessimismo storico-rousseauiano Leopardi assume l’idea che esista un ottimo
stato di Natura. Si rivela sostanzialmente in sintonia con Rousseau, e
formalmente con l’altro scrittore francese: il grado originario naturale viene
considerato favorevolmente, quello successivo sovrastrutturale del sistema
sociale organizzato viene valutato in modo deciso quale fonte di deviazione e
di degenerazione in relazione a un optimum (seppur nella sostanza giudicato da
ciascuno di questi pensatori sul piano or ora evocato con connotazioni
differenti, e mi riferisco in particolar modo a de Sade). Quando Leopardi passa
al pessimismo radicale cosmico ribalta de facto la precedente visione. La
Natura da Grande Madre positiva e smarrita dall’umanità diventa un’esclusiva
Grande Madre negativa che non avrà più il precipuo compito di elargire
benessere agli uomini che hanno perso la via. Questi divengono il termine
positivo della dicotomia, e sopra la Natura cade in guisa netta e indelebile la
qualificazione negativa. Qui il poeta di Recanati appare nella sostanza
d’accordo con de Sade, ma ha tolto a Madre Natura la cattedra, per così dire,
di ortodossia pedagogica. La Natura matrigna leopardiana non induce
all’imitazione, bensì all’ostilità verso di essa. Simile odio si mostra nel
Leopardi attraverso una lamentazione concettuale. Tale scrittore nelle sue
prime due epoche pessimistiche è introverso; assorbe e accumula il disagio
proveniente dalla personale situazione di salute e di vita, e costruisce una
sede interiore di elaborazione di tutto quanto riguarda la sua esistenza. Da
simile disagio trova origine la scissione del sistema sadiano nel suo pensiero
in due prime ere. L’opposizione, cronologica e sostanziale, possiede la sua
radice psicologica nella repressione interiore causata dai suoi problemi. Lui
sta male, e non riesce a recuperare una forza sadiana a beneficio
dell’estroversione. Riesce, debolmente, a cercare una via di contagio depressivo
a scapito degli altri (sadismo debole). Il pessimismo cosmico leopardiano non
lascia via di scampo a nessuno. E le alchimie dello scrittore recanatese a
sostegno di una terapia di sostegno si rivelano delle droghe mentali simili al
concreto soma huxleyano. Annacquare la realtà vista e vissuta è il palliativo
proposto. Annacquarla nello spazio e nel tempo: “poetica del vago e
dell’indefinito” e “piacere della rimembranza”. Però togliere i contorni alle
cose costituisce solo una fuga, una fuga dalla realtà esteriore appunto alla
volta di quella interiore. Giacomo Leopardi simboleggia il poeta, il pensatore
della nietzschiana volontà di potenza negata (più avanti riprenderò simili
concetti parlando di Nietzsche). Nell’ultimo Leopardi, quello ritenuto
maggiormente “aggressivo” dalla critica letteraria, quello della incipiente
“fase eroica” troncata dalla prematura scomparsa (a causa a quanto pare di una
complicazione digestiva provocata da gelato, di cui lui era goloso), era
iniziato a venire fuori qualcosa di “estroverso”: una concreta lotta contro la
Natura matrigna. Il sodalizio umano da lui auspicato in tale slancio oppositivo
e alla luce della filosofia leopardiana si dovrebbe muovere in direzione di
tale orizzonte. Sostanzialmente rimediare al Male non risulterebbe violenza
agli occhi “umani”, tuttavia nei confronti delle disposizioni della Natura da
prospettiva avversa sì. La forma sadica di un dominio umano sulla Natura
matrigna è abbozzata in Leopardi. Lui non rivolge l’aggressività in modo
dispersivo in singulis, la sua condizione personale non lo legittimava. Lui
aggredisce direttamente la Grande Madre. L’ultima stagione di costui viene
connotata da un’evidente presenza libidica (freudiana): il vano interesse
sessuale per una donna identificata in Francesca Ronchivecchi (la sposata, e di
dubbie fedeltà e serietà, Fanny Targioni Tozzetti: la leopardiana «circonfusa d’arcana
voluttá» Aspasia). L’ennesima frustrazione del filosofo fa detonare
l’estroversione aggressiva (da non dimenticare che il cosiddetto primo amore
del poeta da ragazzo fu sempre una donna sposata e con figli, e di età un po’
maggiore di lui: colpisce simile vocazione “libertina” più che “romantica”). Egli
promuove dunque l’alleanza, la crociata, contro la Natura matrigna (la madre
individuale di Giacomo Leopardi, una donna graziosa però austera, non fu
migliore di questa, e lui sine dubio ne risentì: la di lui avversione nei
confronti di una maternità malvagia e malefica non può escludere il concorso
della trasfigurazione di una mamma che l’aveva, davanti al di lui riscontro,
generato debole e poi tenuto distante). Il sodalizio umano da anteporre alla
Natura matrigna trasfigura un matricidio ideale, ma altresì un immaginario
femminicidio sadico (quello di Fanny). Leopardi giudica le donne φύσει inferiori agli uomini
non soltanto per intelligenza, e la Fanny ricordata appare leggera come Lenina
Crowne. Molto eloquente il Recanatese nei versi di “Aspasia”, dove sostiene che
la donna «dell’uomo al tutto / da natura è minor. Che se più molli / e più
tenui le membra, essa la mente / men capace e men forte anco riceve». Un
ragionamento che lascia sinceramente molto perplessi e a favore di un giudizio
critico generale che non voglia essere idealistico sul poeta. Nel valutare il
gentil sesso egli è agli antipodi del femminismo di un Giuseppe Mazzini suo
contemporaneo. Tale Fanny viene dipinta quale una strega che gli ha rapito la
mente, una ianua Diaboli davanti a cui lui sta con sguardo da inquisitore sino
a quando non se ne libera. Nello “Zibaldone” (l’edizione qui di riferimento è
quella carducciana) l’autore riflette una mentalità discriminatoria di genere
di ascendenza patristica, romana e greca2 (il padre aveva pensato per
lui da giovane un futuro sacerdotale); fa altresì professione di assurdo maschilismo:
«Le femmine degli uccelli generalmente
son meno belle dei maschi e se ne fanno maraviglia: e ciò perché nell’uomo pare
il contrario. Poca riflessione. Noi siamo uomini e la femmina ci par più bella
del maschio, alle donne pare il contrario, agli uccelli maschi certo par più
bella la femmina, e alle femmine l’opposto. Che se ci fosse un altro animale
ragionevole che come noi giudichiamo degli uccelli, così potesse giudicare
della specie umana, non è dubbio che per perfezione vistosità ec. rispettiva di
forme ec. ec. darebbe la preferenza al maschio, e chiamerebbe più bello l’uomo
che la donna, che da noi tuttavia si chiama il bel sesso». Leopardi è
reazionario in seguito all’assunzione di un equivocato spirito vichiano, il
quale indica nella “fanciullezza” personale e dei popoli la migliore stagione.
Nei “Pensieri” sostiene che «il presente progresso della civiltà è ancora
risorgimento, consiste ancora, in gran parte, in recuperare il perduto». Tra
l’altro si rivela pure omofobo, parlando di «infame pederastia». Inoltre nel seguente brano sembra alquanto
weiningeriano ante litteram: «Un uomo
famoso per dissipazioni e sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore,
fa grand’effetto nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste
e timide, e avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre. La franchezza, il
brio, la sfrontatezza ec. fa sempre fortuna in amore, ed è quasi
indifferentemente necessaria e felice con ogni sorta di donne, perch’è quasi
l’unico mezzo di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e
di far effetto sulle prime, è certo ch’egli è più potente, sulle donne modeste,
ritirate, paurose, poco solite agl’intrighi ec. che nelle loro contrarie.
Viceversa l’uomo serio, e sostenuto, oppur modesto, e affabile, senza
pretensioni, e senza ardimenti, l’uomo che non si getta punto alla donna, o
perché non sappia né ardisca, o perché non voglia, l’uomo ritirato ec. fa molto
maggior effetto nelle donne dissipate, franche, avvezze alle galanterie, solite
ad esser corteggiate ec. che in quelle di carattere simile al suo. Anzi a
queste egli dispiace a prima vista, o viene a noia fra poco, a quelle
viceversa. Anche gli uomini legati, timidi ec. insomma difettosi nel trattare e
nel conversare per mancanza di disinvoltura, esperienza ec. anche una cert’aria
d’inesperienza, di semplicità, d’innocenza, (il contrario della furberia) di
naturalezza ec. son capaci come di dispiacere interamente alle donne
loro pari, così di fermare il gusto di una donna eccessivamente disinvolta,
sperimentata, furba, e libera nel trattare, nell’operare, e in ogni
assuefazione e costume; e di parerle graziosi ec.». I toni
antifemministi di “Aspasia” conducono alla madre di tutte le battaglie, quella
contro la Natura Matrigna, personificazione del “femminile”. Uno scontro che
nella considerazione leopardiana chiede il concorso di tutti, però
plausibilmente con struttura aristocratica perché Leopardi, figlio di genitori nobili,
non era filopopolare, filodemocratico: e qui si mantiene ancora in linea con de
Sade, altro nobile. Dai tardi “Pensieri” leopardiani le affermazioni contenute
nei brani appresso. 1) «La mia inclinazione non è stata mai d’odiare gli
uomini, ma di amarli. In ultimo l’esperienza quasi violentemente me le ha persuase
[…]. Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di
vili contro i generosi. […] Come nei corpi degli animali la natura tende sempre
a purgarsi di quegli umori e di quei principii che non si confanno con quelli
onde propriamente si compongono essi corpi, così nelle aggregazioni di molti
uomini la stessa natura porta che chiunque differisce grandemente
dall’universale di quelli, massime se tale differenza è anche contrarietà, con
ogni sforzo sia cercato distruggere o discacciare. Anche sogliono essere
odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano
le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia
mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina». 2) «Le persone
non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono. Il
povero, l’ignorante, il rustico, il malato, il vecchio, non sono mai ridicoli
mentre si contentano di parer tali, e si tengono nei limiti voluti da queste loro
qualità, ma sì bene quando il vecchio vuol parer giovane, il malato sano, il
povero ricco, l’ignorante vuol fare dell’istruito, il rustico del cittadino.
Gli stessi difetti corporali, per gravi che fossero, non desterebbero che un
riso passeggero, se l’uomo non si sforzasse di nasconderli, cioè non volesse
parere di non averli, che è come dire diverso da quel ch’egli è. Chi osserverà
bene, vedrà che i nostri difetti o svantaggi non sono ridicoli essi, ma lo
studio che noi ponghiamo per occultarli, e il voler fare come se non gli avessimo.
Quelli che per farsi più amabili affettano un carattere morale diverso dal
proprio, errano di gran lunga. Lo sforzo che dopo breve tempo non è possibile a
sostenere, che non divenga palese, e l’opposizione del carattere finto al vero,
il quale da indi innanzi traspare di continuo, rendono la persona molto più disamabile
e più spiacevole ch’ella non sarebbe dimostrando francamente e costantemente
l’esser suo. Qualunque carattere più infelice, ha qualche parte non brutta, la quale,
per esser vera, mettendola fuori opportunamente, piacerà molto più, che ogni più
bella qualità falsa. E generalmente, il voler essere ciò che non siamo, guasta
ogni cosa al mondo: e non per altra causa riesce insopportabile una quantità di
persone, che sarebbero amabilissime solo che si contentassero dell’esser loro.
Né persone solamente, ma compagnie, anzi popolazioni intere: ed io conosco
diverse città di provincia colte e floride, che sarebbero luoghi assai grati ad
abitarvi, se non fosse un’imitazione stomachevole che vi si fa delle capitali,
cioè un voler esser per quanto è in loro, piuttosto città capitali che di
provincia». Il Recanatese anche nello “Zibaldone” aveva espresso l’idea di un
bellum omnium contra omnes. Questo aspetto di pensiero apre le porte alla
rilevazione di non insignificanti tangenze sadiane, infatti in tale seconda
opera testé citata sostiene quanto segue. 1) «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista
è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata
al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi,
l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro
che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che
quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto
esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un
neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza sua
propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma
questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi
che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però
certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza
infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse
infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della
infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla. Questo sistema,
benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che
il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che
tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il
peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il
pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?». 2) «L’uomo odia
l’altro uomo per natura e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come
gli altri animali, è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura
non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e
forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico,
filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec., è mai
bastato né basta né mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe,
e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole
di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo». 3)
«Ho discorso altre volte della ferocia cagionata nell’uomo virtuoso, nel
giovane, ec. dalla risoluzione di commettere a occhi aperti un primo delitto.
Ho anche ragionato del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo
stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre
inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro
coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de’
gastighi dell’altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare,
come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l’uomo il quale per la
prima volta s’è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e
pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova
allora nell’atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran
ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d’altra tal bestia salvatica,
che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch’ella ha gustato, o
veduto il sangue d’altro animale. Perocché l’uomo in quel punto è come sparso e
macchiato di sangue, cioè omicida della propria coscienza. E generalmente
l’esecuzione di qualunque proposito è tanto più efficace ed energica ed
infiammata ed avventata e pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile,
e quanta maggior pena e contrasto è costato formarla. Perocché l’uomo teme di
pentirsi, e s’avventa nell’esecuzione, come fuggendo con grand’impeto e fretta
e spavento dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora,
potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo nell’irresoluzione, che l’uomo teme
e odia naturalmente, e ch’è uno de’ principali travagli dell’animo. Massime
quando l’effetto della risoluzione (o sia il piacere, o sia l’utile, o sia la
vendetta, o sia la soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo
invita gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl’impedisca di
cercarlo e di conseguirlo, e d’altra parte desidera vivamente di non perderlo,
e non privarsene per proprio difetto». Sembrano parafrasi di de Sade più
che brani del Leopardi. L’umano consorziarsi di costui mi sembra l’auspicio di
un dominio della tecnologia e della scienza sopra la Natura (un sadico stuprum
Naturae). Al poeta in effetti mancò una medicina evoluta, in grado di aiutarlo
con efficacia, ritardata da elementi socioreligiosi con larga base popolare (le
masse da sé non hanno mai reclamato un progresso: che ci volessero guide è
stato sempre detto, da Platone a Lenin). Vedo culminare tale prospettiva
leopardiana su una cima distopica, la quale esemplifico nella verniana “Parigi
nel XX secolo” (è il titolo di un romanzo antiutopico): dove il protagonista,
letterato imbevuto di vapori romantici in una Francia tecnocratica, finisce col
morire di fame cadendo morto nel cimitero di Père-Lachaise. Leopardi è antiromantico
dichiarato, la sua poetica possiede una “geometria” materialistica: respinge l’ottimistica
metafisica idealistica, l’ideale del progresso e la forma letteraria del
romanzo. E in particolare non accetta del Romanticismo le simpatie femministe
(l’esaltazione del “femminile” individuale o naturale, oggetto di intensi
trasporti) e la valorizzazione dell’amore cortese medievale. Dallo “Zibaldone”:
«Si sa quanto poco fossero considerate le donne presso i greci e i romani, e
come il servirle e trattarle quasi superiori agli uomini, come si fa oggi, non
avesse origine, secondo il Thomas (Essai sur les femmes), se non nei tempi
cavallereschi dai costumi dei settentrionali conquistatori di Europa, i quali
avevano un’antica loro superstizione che riguardava le donne come tante deità».
Il poeta recanatese guarda alla cultura della moderna Europa condizionato da
limiti. Di solito lo si accosta per certi caratteri ad Arthur Schopenhauer. A
me pare più proficuo metterlo accanto, per analogia e contrasto, a Friedrich Nietzsche
(1844-1900). Costui è pure filomaterialista e antimetafisico; Schopenhauer
costruisce un sistema metafisico basandolo su una libido junghiana (voluntas).
Nietzsche ha ripreso la voluntas schopenhaueriana, ma l’ha degradata al rango
di libido freudiana (volontà di potenza). De Sade, Leopardi e Nietzsche stanno
nel telaio libidico freudiano, e sono collegati lungo simile piano di canali.
Ho affermato che il sadismo si configura quale manifestazione della “volontà di
potenza” nietzschiana. Ciò è possibile giacché in Nietzsche la pulsione
libidica freudiana (Es) diventa autonormativa al di là del bene e del male
razionalmente individuabili. Rimane ovvio che non si può sostenere che il wille
zur macht (pulsione di agire: “macht” è potere, dominio, potenza; “zur”
introduce un complemento di fine) sia soltanto sadismo: questo ne è una
possibilità, la extrema, tuttavia dall’ottica nietzschiana si conserva
malauguratamente lecita (e il nazismo giunse agli estremi). Avendo chiarito gli
intrecci, concentro adesso la mia analisi su Nietzsche. Di costui mi prefiggo
di delineare la genesi del pensiero e di affrontare la questione del suo uso da
parte nazista. Innanzitutto debbo ripetere la mia idea che intravede nella
storia tedesca un filo di pensiero nevrotico attivistico particolarmente
operante da Lutero al nazionalsocialismo3. Il volontarismo luterano
esce dall’Antico Testamento (ciò costituisce un dettaglio non da poco
esaminando Nietzsche). Che cosa ha operato il filosofo della “volontà di dominio”?
Ha “biologizzato” Lutero, ha riscritto quel volontarismo in termini di
“fisiologia presocratica”. Perché? La sua mente infantile e adolescenziale era
formattata luterana (per via dell’ambiente familiare), visse all’epoca del
Positivismo: basta fare la somma e troveremo le risposte ai perché sui
contenuti filosofici nietzschiani (elaborati inconsciamente). Il wille zur
macht è libido freudiana in atto, animatrice di attivismo. Dove ritroviamo
simili contenuti? Nel Vecchio Testamento. Dio è l’idolo della volontà di potere
ebraica (Adamo che impone nomi riceve una delega di macht). A Nietzsche l’idea
di una “volontà di potenza” (pulsione libidica attivistica freudiana) proviene
mediante la propria forma mentis dal volontarismo luterano, il quale gli
provoca la riscoperta e l’ammirazione dell’Ebraismo trionfante (e il disprezzo,
come vedremo meglio, di quello sconfitto). Nietzsche prende la volontà di dominio
da Dio e la concede in toto all’uomo (qualcosa del genere in de Sade). Entra in
un’orbita fisiologica presocratica dove Dio non mantiene più ragion d’essere,
da cui: “la morte di Dio”. L’uomo nuovo, l’oltreuomo, nato dalla terra, che
ritornerà alla terra, che deve rimanere attaccato al senso della terra,
rappresenta un novello Adamo (un alter Christus ma superomistico, non
vittimistico), libero interprete dell’Es (animatore del wille zur macht;
complemento di specificazione soggettiva): formalmente ciò è un principio
sadiano. Che cosa non è andato bene in Leopardi sotto tale profilo? Il fatto
che la sua libido (freudiana) finisse mortificata, e dunque rivolta al’interno
(volontà di potere negata) e fosse obbligato ad affrontare le biologiche spinte
vitali in quello spazio da una prospettiva riduttiva materialistica (un carcere
dell’anima). Similmente, dice Nietzsche, accade ai Giudei, dal canto loro, nel
momento in cui sono costretti dalla storia all’esilio. Il loro wille zur macht
si interiorizza, viene internato per cause di forza maggiore, e da dionisiaca
manifestazione passa ad apollinea elaborazione grazie alla quale maturare e
definire surrogati di potenza: nasce allora la vocazione speculativa
commerciale capitalistica e quella intellettuale scientifica (forme di dominio
a detrimento apollineo). Quando il filosofo tedesco afferma queste cose si
rivela antisemita. È vero che apprezza la volontà di potenza ebraica nel
successo e che di quella negata nel ripiego ammira sempre la caparbietà (dentro
il di lui disprezzo in tale seconda circostanza), tuttavia nel momento in cui
elogia il tipo ario della “bestia bionda” non possiamo fare a meno di dedurre
che lui sta indirettamente sostenendo nei riguardi degli ariani quanto
“doppiamente” pericolosi siano i Giudei in relazione alle velleità di macht dei
primi. La dottrina di un popolo, di una razza eletta, superiore, proviene
all’Occidente dall’Antico Testamento, è passata alla Cristianità, alla
Cristianità germanica in modo significativo, Nietzsche ha biologizzato
l’antisemita Lutero, e dalle idee nietzschiane lo pseudoscientifico razzismo
biologico ha tratto linfa vitale. Stricto sensu non è stato Nietzsche un
profeta del nazismo, sono stati i nazisti nietzschiani: rinnegandolo nella di
lui (plausibile) continenza sono divenuti veramente suoi allievi concedendo
l’autonormatività al loro sciagurato wille zur macht. Nietzsche sostiene che il
mondo non contiene valori e significati in sé, che è la volontà di dominio la
regola comportamentale, pertanto cadere nel sadismo dei campi di concentramento
e degli stermini costituisce qualcosa, andando al di là di razionalmente
indicabili bene e male, nella sua ottica di ammissibile (il che costituisce
scelleratezza inaccettabile in assoluto per la Civiltà umana razionale). La
cosa sconcertante, la quale ebbi a proposito di de Sade occasione di
sottolineare e criticare pesantemente, deriva da simile disgiunzione del Logos
da tutto il resto delle facoltà umane. Allorché si prediligono gli istinti
animali privandoli di guida ragionevole resta solo una bestia, e per l’appunto
la nietzschiana “bestia bionda”. Nel rielaborare inconsciamente il volontarismo
luterano, Nietzsche compie un’operazione la quale non mi stupisce affatto: va a
riprendere concetti stoici ad hoc: “l’amor fati” e “l’eterno ritorno”. Si reca
a pescare nel lago dello stoicismo poiché Zenone di Cizio apparteneva all’area
fenicio-semita, possedeva una mentalità attivistica laica (etica del dovere,
del fare) poi transitata quale ideologia guida nella cultura romana pagana. Il
saggio stoico accetta il fato, però se attivisticamente (e luteranamente) ci
impegniamo otteniamo il segno di una buona sorte (o in Lutero della salvazione
eterna). Il successo e l’impegno al fine di ottenerlo sono importanti presso
simili mentalità, dallo stoicismo romano a Nietzsche. Ma anche se la nostra
vita fosse potente di volontà, ne vivremo una sola, e con la morte basta?
Nietzsche risponde di no. Ha ucciso Dio, ha tolto il paradiso, però in compenso
ci dice: rivivrete il vostro successo all’infinito nell’eterno ritorno
(surrogato del paradiso). Qui positivamente, come nel Leopardi ma in guisa
pessimistica, nell’indefinito si va a cercare lo spazio di edificazione del wille
zur macht. E da non trascurare che nel nominalista Recanatese con analogo
sfondo nichilistico il tempo si dà in vuota ripetizione: monotona, noiosa,
tragica. Leopardi e Nietzsche sono accomunati altresì da simpatia per il
modello aristocratico. Il secondo mantiene la sua adesione allo stoicismo più
antico, quello del “vivi secondo Natura”, della quale il primo ha lamentato la
perdita nella sua prima fase rousseauiana. Nel “vivere secondo Natura”
nietzschiano ritroviamo de Sade. Nietzsche rifiuta lo stoicismo più progredito
che ha stabilito egemonico nel Cosmo il Logos, lui respinge il “vivi secondo Ragione”
di stampo apollineo. Precorre Freud e dà all’Es e alle sue epifanie il primato,
sopra il quale in seguito ogni cosa sarà sovrastrutturale e in sé privo di
valore al di fuori dell’intervento del Nuovo Dio, l’übermensch, il datore di
significanza al disordinato Cosmo. Tale prospettiva può sfociare nel sadismo,
nel modo già chiarito. Il “dionisiaco”, celebrativo della vita, esaltazione
dell’estroversione, può, senza il freno del Logos, subire una pericolosissima
involuzione. Nietzsche non ha apertamente teorizzato un sistema sadista,
purtroppo le premesse danno adito a ciò. Storicamente è dimostrabile che il
sadismo dell’Inquisizione (nel torturare e uccidere streghe, omosessuali, et
ceteri) ha la sua radice genetica nel Vecchio Testamento dove misoginia e
omofobia, ad esempio, si sposano con la volontà di potere ebraica (attivismo
similprotestante). Nella tradizione cristiana il peso della sovrastruttura
sessuofoba fa deviare la libido alla volta di manifestazioni estreme: il
sadismo sarebbe la risposta patologica di forma concreta (wille zur macht) a un
limite normativo morale religioso (volontà di potenza negata). La tradizione
giudaicocristiana è autonormativa come l’ideologia nazista nel loro essere
espressioni di un irrazionalismo comune. L’antisemitismo religioso cristiano
(ribaltamento della dottrina veterotestamentaria del popolo eletto) si laicizza
in guisa positivistica attraverso Nietzsche e perviene quale ulteriore
pseudoscientifico razzismo biologico ai nazisti. La non poco tragica e luttuosa
strada evolutiva dell’antisemitismo è una sola. Quando la “dionisiaca bestia
bionda” compie un sadico sterminio dei rivali nell’affermazione ideologica e
pratica del wille zur macht esiste una precedente trama di storia e di pensiero
irrazionalistico nevrotico che rende sul piano conoscitivo nitida simile
ingiustificabile dinamica. Nel programma filosofico di Nietzsche il difetto
risiede nel rigetto dell’apollineo, della Ragione. “La nascita della tragedia”
rappresenta un’opera ideologica mistificatoria: il razionalismo non ha ucciso
la Grecità antica autentica, l’ha perfezionata e migliorata. Tant’è che
l’apollineo nietzschiano condusse al nazismo. La cultura greco-antica nei suoi
lati migliori è alla base della Civiltà occidentale. Dall’irrazionalismo
(dionisiaco, o diversamente attivistico; o variamente nevrotico) non sono
uscite pagine encomiabili. Nella mia veste di razionalista junghiano non posso
condividere e approvare sistemi di pensiero a sostegno di tale irrazionalistico
“dionisiaco”, a scapito dell’apollineo e del Logos. Una civiltà veramente umana
non può essere eretta sugli aspetti animali (libido freudiana). La dicotomia
nietzschiana “apollineo/dionisiaco” offre una profondità radicale, e ci obbliga
a scegliere tra la religione della macht, che ha sostituito la fede nevrotica
col wille, e l’autentica Filosofia. Quest’ultima non propone l’idolatrare un
Logos arroccato; questo è un aspetto, il principale (differenza specifica non
attinente ai generi sessuali), dell’“umanità”: la biga del “Fedro” platonico
rende benissimo l’idea. Nietzsche si mostra di forma mentis maschilista,
all’apollineo ha contrapposto, a mio modesto avviso, una categoria disomogenea
e pertanto inadatta e patologica: il dionisiaco. La categoria che da un punto
di vista concettuale e semantico mi pare più sana, congeniale, naturale da affiancare
è: l’afrodisio4. La coppia “apollineo/afrodisio” rappresenta la
struttura bipolare della psiche individuale nella prospettiva junghiana (Io /
controparte psichica interna sessuale) e ricalca altresì la natura
dell’archetipo sommo androginico. In questo momento, in cui sto parlando di
apollineo, afrodisio, dionisiaco non sto discutendo di uomini e donne nella
loro versione fisiologica, errore in cui è caduto Otto Weininger il quale ha
attribuito specificità fisse ai generi e creato una dicotomia psicanalitica
“maschile positivo / femminile negativo”. Tra parentesi Weininger era Ebreo
antisemita, Hitler lo apprezzò per le sue idee. Il dionisiaco nietzschiano
costituisce un’usurpazione maschilista di prerogative declinate nella loro
normale natura al femminile (in senso lato). Tale maschilistico isolamento
conduce all’autonormativa volontà di dominio, giacché si è staccata dalla
facoltà razionale (stricto sensu; Jung poneva il “sentimento” sull’asse delle
capacità della Ragione in senso lato). Dionisiaco è il comportamento
irrazionale che soccombe alle passioni, appartenente a un
percettivo-sentimentale degenerato. Afrodisio è il comportamento “sentimentale”
equilibrato che non ammette squilibri, difetti (si va dall’immaturità al
sadismo). Riguardo a quest’ultimo tratto della mia analisi voglio ricordare una
dichiarazione fatta da Valentina Nappi il 14 luglio 2012 in un dibattito, nel
contesto della manifestazione culturale intitolata “Popsophia” (quel
particolare evento fu denominato “Pornosophia”), nella quale puntualizzò che
nella sua attività di pornostar si ispirava al dionisiaco nietzschiano: ecco
cosa intendo ad esempio per “afrodisio”. Un libidico accettabile, che non
consenta violenza. La gamma del dionisiaco nietzschiano si rivela ampia per il
modo in cui il suo teorizzatore l’ha concepita. Nel suo primo immediato tratto
compare l’afrodisio (non solo in questa forma di Valentina Nappi), ma al di là
stanno aristotelico eccesso e patologia mentale. La pornografia (con
protagonisti ovviamente maggiorenni), allorché non ha a che fare con lati
violenti (e quindi non si caratterizza quale reato), rappresenta la risposta
“positiva” alla sessuofobia cristiana (e varia). Può a volte essere arte. Ci
può essere dentro quello che indicava Nietzsche in maniera simbolica e
allegorica: danza, musicalità, vitalismo. La verniana Parigi nel XX secolo che
ho collegato a Leopardi, nella proiezione immaginaria della sua poetica
filosofica, è un mancato huxleyano Brave New World. Nello “Zibaldone” si dice:
«La vita non è fatta che per il piacere, poiché non è fatta se non per la
felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita,
perché manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e
necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di
felicità cioè di piacere». E nei tardivi “Pensieri” leopardiani si tocca pure
un tono nietzschiano. 1) «L’educazione che ricevono, specialmente in Italia,
quelli che sono educati (che a dir vero, non sono molti), è un formale tradimento
ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza contro la gioventù. I
vecchi vengono a dire ai giovani: fuggite i piaceri propri della vostra età, perché
tutti sono pericolosi e contrari ai buoni costumi, e perché noi che ne abbiamo
presi quanti più abbiamo potuto, e che ancora, se potessimo, ne prenderemmo
altrettanti, non ci siamo più atti, a causa degli anni. Non vi curate di vivere
oggi; ma siate ubbidienti, sofferite, e affaticatevi quanto più sapete, per vivere
quando non sarete più a tempo. Saviezza e onestà vogliono che il giovane si astenga
quanto è possibile dal far uso della gioventù, eccetto per superare gli altri
nelle fatiche. Della vostra sorte e di ogni cosa importante lasciate la cura a noi,
che indirizzeremo il tutto all’utile nostro. Tutto il contrario di queste cose
ha fatto ognuno di noi alla vostra età, e ritornerebbe a fare se ringiovanisse:
ma voi guardate alle nostre parole, e non ai nostri fatti passati, né alle
nostre intenzioni. Così facendo, credete a noi conoscenti ed esperti delle cose
umane, che voi sarete felici. Io non so che cosa sia inganno e fraude, se non è
il promettere felicità agl’inesperti sotto tali condizioni. L’interesse della
tranquillità comune, domestica e pubblica, è contrario ai piaceri ed alle
imprese dei giovani; e perciò anche l’educazione buona, o così chiamata,
consiste in gran parte nell’ingannare gli allievi, acciocché pospongano il
comodo proprio all’altrui. Ma senza questo, i vecchi tendono naturalmente a
distruggere, per quanto è in loro, e a cancellare dalla vita umana la gioventù,
lo spettacolo della quale abborrono. In tutti i tempi la vecchiaia fu congiurata
contro la giovinezza, perché in tutti i tempi fu propria degli uomini la viltà
di condannare e perseguitare in altri quei beni che essi più desidererebbero a
se medesimi. Ma però non lascia d’esser notabile che, tra gli educatori, i quali,
se mai persona al mondo, fanno professione di cercare il bene dei prossimi, si
trovino tanti che cerchino di privare i loro allievi del maggior bene della
vita, che è la giovinezza. Più notabile è, che mai padre né madre, non che altro
istitutore, non sentì rimordere la coscienza del dare ai figliuoli
un’educazione che muove da un principio così maligno. La qual cosa farebbe più maraviglia,
se già lungamente, per altre cause, il procurare l’abolizione della gioventù,
non fosse stata creduta opera meritoria. Frutto di tale cultura malefica, o
intenta al profitto del cultore con rovina della pianta, si è, o che gli alunni,
vissuti da vecchi nell’età florida, si rendono ridicoli e infelici in vecchiezza,
volendo vivere da giovani; ovvero, come accade più spesso, che la natura vince,
e che i giovani vivendo da giovani in dispetto dell’educazione, si fanno ribelli
agli educatori, i quali se avessero favorito l’uso e il godimento delle loro
facoltà giovanili, avrebbero potuto regolarlo, mediante la confidenza degli
allievi, che non avrebbero mai perduta». 2) «Nessuno diventa uomo innanzi di aver
fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e
determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la
fortuna e lo stato suo nella vita. A questa grande esperienza, insino alla
quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo, il vivere antico
porgeva materia infinita e pronta: ma oggi il vivere de’ privati è sì povero di
casi, e in universale di tal natura, che, per mancamento di occasioni, molta
parte degli uomini muore avanti all’esperienza ch’io dico, e però bambina poco
altrimenti che non nacque. Agli altri il conoscimento e il possesso di se
medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande,
cioè forte; e per lo più dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che
non accade in tutti come l’amare. Ma accaduta che sia, o nel principio della
vita, come in alcuni, ovvero più tardi, e dopo altri amori di minore
importanza, come pare che occorra più spesse volte, certo all’uscire di un amor
grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali
gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse
non provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di
loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento
proprio; se la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e oramai può
far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di sé, e, per quello
che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In
fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa
udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa,
forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto a
far uso di sé e degli altri».
Friedrich Nietzsche ritratto da Edvard Munch
Da “Così parlò Zarathustra”
Si ripaga un[o che è] Maestro
male, quando si rimane sempre solo allievo [Man vergilt einem Lehrer schlecht,
wenn man immer nur der Schüler bleibt].
Si deve ancora avere un caos
all’interno di sé, allo scopo di dare alla luce una stella danzante [Man muss
noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können].
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Filosofie sadiche”
https://www.academia.edu/45301442/Filosofie_sadiche
https://www.academia.edu/45301442/Filosofie_sadiche
2 Mi pare utile
offrire tale spunto:
3 Al fine di
approfondire indico un mio saggio:
4 Per un
interessante approfondimento: