di DANILO CARUSO
Il testo seguente è un estratto della mia monografia “Parricidio dantesco” edita nell’aprile del 2021 in formato cartaceo e in pdf (ebook), disponibile integralmente online qui:
1) pdf (possibile il download del saggio intero)
https://www.academia.edu/47754422/Parricidio_dantesco
2) audiobook
https://www.youtube.com/watch?v=hs8sW1J3i6I
Sul blog è stata riproposta in quattro parti separate, il link della seconda è indicato in calce.
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IN OCCASIONE
DEL VII CENTENARIO
DELLA SCOMPARSA
DI DANTE ALIGHIERI
DEL VII CENTENARIO
DELLA SCOMPARSA
DI DANTE ALIGHIERI
La “Divina Commedia” è il celebratissimo poema di Dante Alighieri (1265-1321) da svariati secoli. La critica ne ha fatto un monumentum aere perennius. Per anni simile atteggiamento mi ha guidato nella mia personale considerazione. Tuttavia nelle mie riflessioni in materia sono giunto a un punto in cui ho guardato le tre cantiche senza la mortadella critica appresa comunemente, e le cose mi sono apparse parecchio in dissonanza con il tono celebrativo. Dante mi si è rivelato prigioniero di vari limiti e difetti. Prigioniero della sua epoca medievale, di un’integralistica dottrina cattolica, di sentimenti poco nobili (antipatia, rancore, odio). Simili aspetti negativi balzano subito in maniera impetuosa a partire dall’“Inferno”. Non sono stato precipitoso nell’assumere un pensiero critico severo, ho provato a vedere se nel Dante della “Commedia” al di sotto dello spirito del tempo (il quale lo circoscriveva con forza) ci fosse uno spirito del profondo che potesse veicolare messaggi di universale valore positivo. Però ciò è naufragato di fronte all’innegabile evidenza: quel percorso immaginifico letterario dantesco non rappresenta un iter junghiano di individuazione. Sono stato propenso a leggere Dante con i parametri adottati da Jung per il suo “Liber novus”, ma lo scrittore fiorentino non mi ha disvelato la profondità ricercata. Sono stato alquanto suggestionato ad esempio dall’idea di accostare i danteschi Paolo e Francesca a Salomè ed Elia junghiani nella ricerca di formali spunti di tangenza e di metri interpretativi, però l’autore della “Divina Commedia” alla fine del mio tentativo di salvataggio ha dimostrato che il di lui pensiero coincide con le parole scritte, che queste sono soltanto figlie della forma mentis medievale erudita cattolica. Non c’è figurativo cammino alchemico (dalla nigredo alla rubedo), c’è invece una simbologia espressiva di isolati stati d’animo (ad esempio la selva oscura non è collegabile al concetto di nigredo). Avevo pensato pure di equiparare i personaggi di Virgilio e Beatrice alle funzioni razionali individuali secondo il pensiero di Jung (la ragione e il sentimento), tuttavia la mia prova non ha recuperato margini adeguati. Ero propenso a vedere nello schema infernale dantesco il riflesso delle junghiane facoltà personali irrazionali (percezione e intuizione). Notavo le anime dei defunti intuitive del futuro, e i lussuriosi mi apparivano dei percettivi-sentimentali e i golosi molto percettivi. Però tutte le suggestioni evocate non sono state confermate dalla presenza di un reale quadro dantesco di profondità universale. Dante rimane quello indicato dal suo contesto storico-culturale, e questo non ammette un antitetico e contraddittorio profondo contenuto). Ho cercato di immaginare i personaggi della “Commedia”, laddove il caso desse spiraglio, quale archetipi junghiani, ma neanche qui si è dato spazio a un’operazione critica ad hoc. Loro rappresentano vittime o premiati unicamente nel riduttivo mondo dantesco, e solo se decontestualizzati (ad arte) possono diventarlo (come Francesca da Rimini o Ulisse). La biografia dell’autore fiorentino ci mostra un uomo che non disdegna l’uso delle armi: fu infatti in gioventù un milite guelfo. Il primo appunto che rivolgo a Dante e ai suoi critici adoratori è questo: costui non è un pacifista, è pronto ad ammazzare o a far uccidere gli altri in guerra a causa dei propri ideali politico-religiosi. Nell’“Inferno” il sommo (?) poeta esprime un forte odio contro Genova, Pisa e Pistoia, disprezzo verso i Lucchesi (tramite un diavolo), i Senesi e i Francesi: dov’è finito l’amore nei confronti del prossimo? Dante a Firenze è anticapitalista, si mostra ostile nei riguardi della borghesia più intraprendente (quella che porterà alla signoria medicea e che si troverà davanti l’integralista fra Girolamo Savonarola, a suo modo una sorta di epigono di Dante nell’attaccare i costumi). Il nostro scrittore florentini natione non moribus proveniva da famiglia legata alla rendita agraria, perciò possiede una mentalità reazionaria (ciceroniana direi). È protagonista dello scontro politico nella propria città e finisce per restarne vittima. Chi ha stabilito che i guelfi (bianchi) fossero i buoni e tutti gli altri i cattivi? Certa critica che ha beatificato Dante, il quale il primo a mettere all’inferno i suoi avversari (a cominciare da Farinata degli Uberti, il ghibellino salvatore di Firenze dall’intenzione catoniana di farla scomparire). Pensiamo che il sommo poeta attraversa tutto il mondo infero andando alla fine a infierire contro l’anima dannata di Bocca degli Abati, ritenuto traditore dei guelfi alla battaglia di Montaperti. Dante arriva in prossimità di Lucifero ed è ancora carico di astio: a che pro tutto quel cammino? Non si accorge innanzitutto di colpire col piede la testa di quel dannato emergente dal Cocito (denotando mancanza d’attenzione), poi comincia a tirargli e strappargli i capelli perché quello non vuol dirgli l’identità. Questo non costituisce un ideale coronamento dell’iter nella prima cantica, la quale si rivela nelle sue parti una celebrazione di un sadico odio. Gli inquisitori tiravano e strappavano i capelli alle streghe durante le torture. Dante avalla in quel momento modi aggressivi a scapito di chi non è ben allineato alla propria parte, senza che né Virgilio né Dio lo riprendano. Mi chiedo perché non gli sia finita come Vanni Fucci canti prima punito a causa di un innocuo gesto di antipatia verso Dio fatto con la mano (il gesto delle fiche). La condotta di Dante a scapito di Bocca degli Abati rimane ingiustificabile e inqualificabile. Ma in fin dei conti l’“Inferno” dantesco si rivela un testo protosadiano. Il meccanismo del contrappasso qui applicato appartiene a un’idea di giustizia arcaica: occhio per occhio, dente per dente. Un secondo pesante appunto che muovo deriva dal non valutare con lucidità tale impianto. Esso traduce, in maniera distopica, il sistema teologico cattolico medievale. Esiste una divinità suprema che punisce all’inferno attraverso la sofferenza: Dante ha ornatus verbis simile formale caposaldo (ribadito e chiarito dalla Chiesa attraverso la bolla papale “Laetentur coeli” del 1439 in occasione del Concilio ecumenico di Firenze: punizione di dannati mediante diverse modalità). Il Dio dantesco rappresenta un soggetto sadico, giacché si compiace della sua giustizia e di quelle forme di pena descritte dall’autore fiorentino. Un tale parametro generale si mostra inaccettabile dalla moderna giurisprudenza postilluministica: non si può torturare il condannato in quanto siffatta prassi denota più che altro un atteggiamento patologico. Dante non canta l’amore universale, celebra una visione di sadismo religioso (proseguita nella realtà con le varie persecuzioni e torture a danno di streghe, omosessuali, Ebrei, dissidenti, non cattolici). La critica letteraria celebrativa dantesca accantona perlopiù i lati oscuri della “Divina Commedia” assieme alle loro negative influenze sul comportamento. Esaltare questo Dante equivale a esaltare le cose che sostiene. E lui afferma che extra Ecclesiam nulla salus, e che chi devia può, e se non si corregge, deve finire male (per mano di Dio o degli uomini). Il poema dantesco costituisce un’apologia del totalitarismo religioso. Dante si rivela ad esempio omofobo, gli omosessuali vanno all’inferno. Egli non possiede elementi di modernità. In confronto a lui e al suo Medioevo cristiano migliore la più antica civiltà pagana greco-romana con tutti i limiti di turno però meno nefasti. C’era una misoginia meno perniciosa; non si torturavano uomini e donne sulla base di nevrotici motivi religiosi; la religione sospendeva le guerre non le promuoveva. Il sommo poeta ha preso la mitologia pagana allo scopo di usarne personaggi in vista di un obiettivo di degradazione: questi hanno avuto compiti di presenza e/o gestione infernali. Ciò indica uno spirito che nutre disprezzo nei confronti dei non cattolici. Si pensi in particolar modo a Maometto collocato tra i dannati. Dante ha coltivato una nevrotica presunzione di possedere la verità assoluta, nevrosi la quale nella Cristianità medievale tutto sommato non era obbligatoria. L’amico di gioventù Guido Cavalcanti (1258-1300), appartenente a una ricca famiglia guelfa a vocazione imprenditoriale, era di mentalità filosofica agnostica più filorazionalistica. I due compagni nella poetica dello Stil Novo si allontanarono poi a causa di un variato indirizzo dantesco che propendette alla volta di un involutivo interesse verso la dimensione dogmatica teologica (simpatie francescana e domenicana). Guido Cavalcanti, sposato con Beatrice/Bice degli Uberti (figlia del ghibellino Farinata: fu un matrimonio politico), fu espulso da Firenze in seguito a un violento episodio cittadino grazie anche all’intervento governativo ostile del suo ex amico, il quale nel fare ciò fa sospettare possibile compiacenza per via di antipatia ideologica (politico-religiosa). Dino Compagni nella sua “Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi” ci racconta i fatti: «Uno giovane gentile, figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio, nimico di messer Corso, avea più volte diliberato offenderlo. Messer Corso forte lo temea, perché lo conoscea di grande animo; e cercò d'assassinarlo, andando Guido in pellegrinaggio a San Iacopo; e non li venne fatto. Per che, tornato a Firenze e sentendolo, inanimò molti giovani contro a lui, i quali li promisono esser in suo aiuto. E essendo un dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguìto da’ Cerchi, per farli trascorrere nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale andò in vano. Era quivi, con messer Corso, Simone suo figliuolo, forte e ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri, con le spade; e corsogli dietro: ma non lo giugnendo, li gittarono de’ sassi; e dalle finestre gliene furono gittati, per modo fu ferito nella mano. Cominciò per questo l’odio a multiplicare». La situazione si ricompose con delle espulsioni da entrambi i gruppi in contesa: «Confinorono alcuni di ciascuna parte: cioè, per la parte de’ Donati, messer Corso e Sinibaldo Donati, messer Rosso e messer Rossellino della Tosa, messer Giachinotto e messer Pazino de’ Pazi, messer Geri Spini, messer Porco Manieri, e loro consorti, al Castel della Pieve; e per la parte de’ Cerchi, messer Gentile e messer Torrigiano e Carbone de’ Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinaccio Adimari, Naldo Gherardini, e de’ loro consorti, a Sarezano, i quali ubidirono e andorono a’ confini». Il poeta compagno della gioventù stilnovistica dantesca morì poco dopo in seguito all’espulsione dal Comune fiorentino, «tornonne malato Guido Cavalcanti, onde morìo, e di lui fue grande dammaggio, perciò ch’era come filosafo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso [da “Nuova Cronica” di Giovanni Villani]». Dante, uno degli artefici di quel provvedimento, potrebbe aver sentito sulla coscienza quella morte prematura, tant’è che di costui scrisse solo bene (mentre la realtà ha dimostrato che gli fu avverso appoggiando la misura di un allontanamento dalla città toscana). L’orientamento radicalizzato religioso del sommo poeta si mostra rilevabile non con difficoltà. L’autore della “Divina Commedia” appare sessuofobico, del resto in linea con la Chiesa (dalla Patristica in poi). Simile mia ulteriore considerazione necessita ovviamente di un approfondimento, e questo non può che far riferimento al celeberrimo V canto infernale. Ci ho riflettuto sopra e dunque ricavato delle idee che dovessero essere omogenee al Cattolicesimo integralista dantesco. Che cosa fa Dante nel V canto? Mette la poetica stilnovistica e l’esercizio sessuale non conforme ai principi patristici all’inferno. Sottolinea che femina est ianua Diaboli, e lo fa in un modo così preciso e fine che come effetto collaterale imprevisto davanti a menti libere, progredite, sane suscita molta simpatia a carico di Francesca da Rimini. Il che non era la sua intenzione: siamo tra la perduta gente – non dimentichiamolo – la quale non può e non dev’essere oggetto di apprezzamento e/o ammirazione. L’autore del sommo (?) poema colloca i due noti amanti nel mondo infero giacché vuole così: quella storia rappresenta un monito catechetico. Lui non fa parlare Paolo Malatesta a causa di un semplice motivo: è la vittima della porta del Diavolo, è stato fregato per debolezza (incontinenza), ed è finito all’inferno. Non parla poiché non avrebbe niente da aggiungere nel suo essere rimasto preda della lussuria (provocata ovviamente da una donna con le sue “malevoli” qualità). Francesca da Rimini recita la sua ante litteram parte romantico-decadente, ed è in virtù di ciò che ci piace. I critici e qui, come nel caso di Ulisse, hanno decontestualizzato la sezione in contraddizione al tutto. Dante non nutre indulgenza speciale nei riguardi di Francesca: viceversa non l’avrebbe messa nell’inferno (un pagano suicida fa il guardiano del purgatorio, i due pagani Traiano e Rifeo addirittura in paradiso; e quella che poteva stare quantomeno nel secondo regno oltremondano – non trascuriamo la vicenda dell’inganno matrimoniale a sua discolpa – sta invece all’inferno!). Perché Dante viene alla fine sopraffatto dalla tensione e dall’emozione? Altresì qui mi è parso di trovare il bandolo della matassa. Lo scrittore fiorentino cade a terra privo di sensi perché ha pensato di essere stato anche lui a un passo da quella radicale condanna oltremondana. A lui piaceva Beatrice sua coetanea, già sposatasi intorno ai 14/15 anni (stando alla scoperta di documenti d’epoca da parte di Domenico Savini), a lui piaceva una donna nella dimensione della ianua Diaboli. Il giovane Dante non era molto diverso dai suoi coetanei. L’inquadramento religioso lo porterà alla “Divina Commedia”, e prim’ancora alla sistemazione della “Vita nuova”. In parole povere la morte nel 1290 di Beatrice coniugata viene interpretata dal sommo poeta quale una concessione della Grazia divina allo scopo di toglierlo dalla propensione al peccato. Da quel punto in poi Beatrice viene desessualizzata (al pari della Madonna) e diviene l’antitesi di Francesca. Che la seconda concezione dantesca della maturità involuta a proposito delle donne sia meramente patristica lo dimostra la collocazione infernale della figlia di Tiresia. Attraverso la figura di Manto di Tebe vengono condannate le streghe e le donne – dice Dante alla fine di quel canto – che non sono rimaste a badare agli affari casalinghi prediligendo arti diaboliche. La “Divina Commedia” legittima la persecuzione per stregoneria: se Dio le tortura nel regno infernale, dove sta l’errore a infierire sul corpo delle donne in parallela maniera sadica in questo mondo nel momento in cui si combatte il Maligno? Se quella rappresenta la prassi approvata dal divino volere non è lecito che i suoi ministri terreni la riproducano? Infatti i torturati in genere, se non morivano prima, venivano uccisi al rogo, riproducente le fiamme del biblico inferno. Dante non condanna lo sterminio dei catari eretici e si pone, nella proporzione storica, come uno che oggi apprezzasse o negasse la Shoah. Simili cose a livello critico non si possono accantonare. Lo scrittore fiorentino alla luce del VI cerchio infernale manifesta la sua scelta illiberale pro Inquisizione (non la condanna, anzi ad esempio nel caso di Griffolino d’Arezzo non dice una parola al riguardo del rogo di costui). Agli occhi del sommo poeta esiste una sola Verità da imparare e da imporre, pure facendo ricorso alla violenza. Dante ha riproposto il fuoco dell’inferno biblico, passando dalla condanna capitale al rogo, nel contrappasso punitivo di eretici e atei. Una sottigliezza sadica, la quale non mi risulta notata in precedenza, riguarda il fatto che quella descrizione dantesca abbia anticipato i quemadores degli inquisitori spagnoli: nei territori sotto il controllo della Spagna il condannato a morte poteva essere messo a perire in un contenitore infuocato (tipo un forno) e moriva nel giro di pochissimi giorni. Il sommo poeta (magari ispirandosi al toro di Falaride) ha ideato una sadica macchina presentatasi nella realtà cattolica. Un altro aspetto della “Divina Commedia” in relazione a cui ho rilevato capriole critiche proviene dalla problematica antisemitica di origine patristica. L’autore del poema pone tutto l’universo non filocattolico nel mondo infernale: e gli Ebrei? Egli naturalmente dal proprio punto di vista non li trascura, infatti stanno nella sezione più profonda dell’inferno prima di Lucifero: la Giudecca. Tale termine è noto a Dante per il fatto di indicare il quartiere/ghetto ebraico di una comunità cittadina più ampia. La Giudecca, nella città di Dite, circoscrive lo spazio dei dannati di provenienza giudaica, rei di aver rinnegato il Messia venuto in terra. Dante in occasione dei primi tre settori del IX cerchio crea nomi ad hoc, per il quarto no, ne prende uno di uso corrente. Poiché il valore semantico che vuol comunicare è quello: nella Giudecca ci finiscono gli Ebrei. Dante è antisemita: all’inferno, dopo i Giudei, simboleggiati da Giuda traditore di Gesù, sta solo Satana. Il loro peccato si rivela il peggiore e Giuda rappresenta il loro campione da additare all’esecrazione universale. I contenuti del sommo poema letto e analizzato con obiettivo sguardo scientifico sono di tale tono. La fortuna critica di Dante è stata analoga a quella filosofica di Aristotele. La Cristianità medievale e posteriore ha selezionato gli autori più affini all’ideologia dominante. Quel cattolico nevrotico Dante era molto utile a scopi propagandistici religiosi. Soltanto il “De monarchia” è finito all’indice per via della non accettazione della Donazione di Costantino. Ma anche sotto il profilo teorico politico il Fiorentino lascia a desiderare. Infatti pure qua non è moderno. La diarchia cesaropapista che invoca non costituisce nient’altro che una ripresentazione dello Stato fondamentalista teodosiano, il quale esordì col significativo e gravissimo femminicidio di Ipazia d’Alessandria (del quale il sommo poeta non molto stranamente tace nella montagna di cose dette). Dante non sostiene affatto un dualismo laicizzante Chiesa/Stato: il suo ideale resta quello testé evocato, pertanto la persecuzione di quanti non fossero graditi al regime cattolico si configura ammissibile al fine di salvaguardare la Verità (soprattutto di fede). L’autore fiorentino coltivò una posizione prossima a quella di Thomas More1: si tratta di due cattolici radicali filoaristotelici. Due per i quali la scienza e il progresso scientifico e conoscitivo si sono fermati all’apice toccato nell’antichità dallo Stagirita («maestro di color che sanno»). A tal riguardo è d’uopo menzionare il canto di Ulisse, al quale è d’applicarsi lo stesso metro usato da me a proposito di Francesca da Rimini. Altresì qui sta parlando un dannato, il cui manifesto ideologico (al pari di quello stilnovistico pronunziato da Francesca) contiene secondo l’avviso dantesco elementi peccaminosi. Mentre in precedenza la sessuofobia antifemminista ha comportato il rigetto dell’emancipante poetica dello Stil Novo, qua il principio d’autorità scientifica a tutela del sistema religioso cattolico condanna l’intraprendenza conoscitiva. La solita decontestualizzazione critica attira al prometeico Ulisse dantesco un sentimento non ostile da parte del lettore progredito e liberale, facendo di quest’Odisseo tutto sommato un nuovo romantico Prometeo. Le cose che gli fa dire Dante sono le cose da non fare (poiché avendole compiute è andato all’inferno). Ulisse costituisce un exemplum negativo, la ricerca scientifica e filosofica deve sottostare al dogmatismo ecclesiastico: simile il monito dantesco, ripetuto nelle altre due cantiche. Di tale atteggiamento ne fece nel tempo le spese il progresso: eclatanti i casi di Galileo Galilei e di Giordano Bruno. Il meccanismo teologico punitivo dell’inferno è molto puntuale e rigoroso circa il suo nevrotico profilo repressivo. Una cosa che ha fatto saltare in aria lo schema narrativo non soltanto della prima cantica è stato nel 2007 il proclamare l’inesistenza del limbo da parte di Papa Benedetto XVI. Il che a livello di racconto presso Dante equivale a un violentissimo terremoto. Virgilio non dovrebbe più abbandonare il protetto al purgatorio, visto che adesso ha meritato il paradiso. Non ci sarebbe più necessità della guida di Beatrice (il Fiorentino ne aveva fatto una Diotima cattolica). L’autore della “Divina Commedia” incontrerebbe gli spiriti magni nella terza cantica (tra cui il virtuoso Saladino, e i filosofi arabi Avicenna e Averroè ammiratori d’Aristotele). In parole povere pure la Chiesa sembra mettere in crisi un Dante ormai con difficoltà riproponibile alla modernità laica e libera al di fuori di campanilistici toni di ascendenza tradizionalistica cattolica e/o nazionalistica: la vision de l’Alighieri mi pare destinata a non brillar più in tutti i cuor. Naturalmente sarebbe stupido negare l’abilità letteraria di questo scrittore fiorentino che ha creato un testo ricco e complesso, il quale a mio modesto intendere dovrebbe essere inserito però nel consono filone della letteratura cui appartiene de facto. Prima di fare un pronunciamento voglio ricordare un paio di episodi infernali che mi sono apparsi grotteschi. Il primo riguarda il demone Barbariccia qui dat signum culo sicut tuba («avea del cul fatto trombetta»). L’antropomorfismo demonologico medievale porta la teologia sul triviale, e questa mostra la sua fantastica sostanza animata da puerili vuoti conoscitivi. Immaginare l’oltretomba alla guisa dantesca e medievale, con le reali persone così prese e così convinte che fosse un esistente universo tolkieniano, ci lascia disorientati e di sasso nel valutare quali fossero le concrete capacità di giudizio dell’uomo del Medioevo. Non c’è da stupirsi del modo patologico in cui si sono sviluppati i cattolici fenomeni persecutori misogini, omofobici, antiereticali. Il secondo episodio riguarda il dannato Guido da Montefeltro il quale ricorda come san Francesco d’Assisi e un diavolo intavolassero una disputa di carattere giuridico-teologico in relazione alla sua destinazione ultraterrena (paradiso o inferno). Una cosa simile si ritroverà nella seconda cantica. Pure qui notiamo come toni mitologici traenti spunto dalla realtà vadano ad animare visioni fantastiche, sostitutive dell’ignoto. Il Cristianesimo medievale (e non solo) materializza un distopico cosmo fantasy alimentandolo di kierkegaardiana ansia2. La nostra epoca postilluministica ci ha emancipati da quei nevrotici turbamenti, pertanto il destino letterario di Dante e della “Commedia” mi sembra quello di finire nella distopia (teologica) fantasy a far compagnia a “Lo hobbit” e a “Il signore degli anelli” (opere non distopiche, attenzione, di un cattolico), nonché in aggiunta nel genere sadico. Il poema dantesco è datato in relazione ai suoi contenuti e alle sue proposte morali e culturali. Ad esempio, i suicidi vanno all’inferno a prescindere: si ricava di riflesso una contrarietà assoluta nei confronti dell’eutanasia. La illiberale posizione del Cattolicesimo medievale non è più riproponibile in termini attuali.
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