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lunedì 25 novembre 2019

“SIDDHARTHA” E LA NOLUNTAS HESSIANA

di DANILO CARUSO

Hermann Hesse (1877-1962) è stato uno scrittore molto profondo. I suoi elaborati recano l’impronta di un duro travaglio spirituale, il quale lo condusse a essere un paziente di Carl Gustav Jung (e in precedenza di un seguace di costui). L’irrequietezza fu per lo scrittore una fonte da cui trarre ispirazione nella redazione di romanzi divenuti celeberrimi. “Siddhartha” (uscito nel ’22) è uno dei suoi capolavori letterari che possiede una forte struttura logico-narrativa junghiana1. L’omonimo protagonista vi compie un iter ascrivibile a un sistema concettuale legato alla psicologia analitica oltre che a schemi filosofico-religiosi informanti parallelamente, ma con tono sostanziale subordinato, l’esposizione. In partenza Siddhartha, figlio di un bramino, è una persona dotata di un’indole caratteriale, in termini junghiani, logico-percettiva. Nel testo egli è animato da un desiderio di ricerca razionale rivolto all’Universo, e nell’ambito della cultura indiana che fa da omogenea cornice allo schema junghiano, il giovane vuol raggiungere l’“atman”. Si può paragonare questo all’Io penso kantiano, poiché costituisce il fondamento della coscienza individuale, quel “sé” termine del riferimento della percezione personale. Perciò sta alla base di una rappresentazione del mondo. L’atman sarebbe un elemento posto a subire una trasmigrazione nel ciclo vitale di nascita e morte, una catena di reincarnazioni in relazione alla quale i mistici indiani hanno cercato di trovare una via di fuga. Mosso dal desiderio di raggiungere la liberazione dalle passioni e dalla brama prospettata dal “nirvana”, Siddhartha e il suo fraterno amico Govinda si aggregano a un gruppo di asceti mendicanti nella speranza che le pratiche di rigore da costoro praticate possano insegnare il percorso mirante a sfuggire al principio che regola le rinascite dell’atman (samsara). Il logico-percettivo Siddhartha si rende conto che nonostante tutte le mortificazione del “sé” personale, questo rimane sempre là. A livello di psicanalisi esso è infatti paragonabile al complesso dell’Io. Il protagonista del romanzo, che è un alter ego di Hesse (il quale nel 1911 si recò in India, parimenti al filosofo Pirrone di Elide all’epoca di Alessandro Magno, e assorbì la cultura religiosa indiana), si propone, rimasto deluso dall’esperienza con i samana, di trovare altrimenti la meta della propria ricerca, la quale in parole junghiane è possibile indicare nell’“individuazione”: l’assunzione di un armonico stato dell’Io col mondo, visto come negativo schermo ingannatore dalla religiosità indiana, scenario dell’esistenza (potenzialmente positivo) nella psicologia analitica. Dall’incontro col Buddha, Siddhartha e Govinda traggono lo spunto volto a operare la modificazione della propria personalità. Quest’ultimo personaggio, da logico-percettivo che era come il primo, diventa logico-intuitivo; l’altro si volge invece, nella sua insoddisfazione in sentimentale-percettivo, aprendosi a future esperienze svincolate da preliminari e astratti perimetri di sicurezza dettati perlopiù a priori sui fedeli di una tradizione antimondana. Siddhartha scopre il mondo-della-vita, dove è innestata la sua esistenza, e rileva, in maniera esistenzialistica, una nuova ricchezza, un rapporto positivo, nel legame tra l’Io e il resto dell’esistente, la Natura, l’Universo. Il problema inerente al giudizio della mondanità da etico-ontologico, piuttosto che partire da premesse formali negative, lascia il passo alla concreta esperienza, cosicché in guisa pratica possa maturare una coscienza della realtà fondata sopra la diretta esperienza di essa. Hesse ha privato il suo personaggio principale di una visione pessimistica in stile schopenhaueriano. Siddhartha quindi si dispone con animo meravigliato, con ingenuità, di fronte alla libido (junghiana), la quale alimenta il mondo. Il protagonista hessiano è paragonabile a un Socrate inquadrato dentro un profilo di riflessione esistenzialistica. Hesse nel suo raccontare riprende un motivo filosofico, quello della voce interiore, del dáimon socratico, che è stato tanto caro al pensiero dello junghiano Hillman (fondatore della psicologia archetipica). L’autore del testo sottolinea un significativo aspetto: l’auto-nomia del dáimon. Nel telaio narrativo, costruito con elementi progettuali provenienti dalla psicologia analitica, trova spazio inoltre il richiamo al concetto del Grande Madre, concetto nel quale la Natura, vita sensibile in atto, assume un valore adeguatamente rapportato al vivere umano. Siddhartha, che ha esperito l’eros con Kamala, e i frutti dell’arricchimento grazie all’intraprendenza (dopo essere entrato in contatto col benestante mercante Kamaswami, mediante l’interessamento della prima), giunge nel proprio cammino a un punto di saturazione, dove a causa dell’eccesso nella sua psiche emerge prorompente l’esigenza di una revisione generale. In Siddhartha termina, muore la “fase naturale” della libido (in seguito alla quale ogni vivente che vi perviene riceve la possibilità di condurre un riesame della personale esistenza, rimodulando ed emendando tutti quei modelli mentali che a una rinnovata luce apparissero ormai inopportuni e inefficaci, se non addirittura dannosi). Siddhartha lasciata la sua precedente vita alle spalle, come Dante si smarrisce in una situazione mortale per lo spirito. Purtroppo la vicenda del tentato suicidio del personaggio hessiano rappresenta una eco di quello reale tentato dal creatore del romanzo: Hermann Hesse nel corso della sua giovinezza attraversò momenti di disagio provocati dal suo ambiente familiare originario imbevuto di rigorismo religioso pietista. Siddhartha cerca di suicidarsi gettandosi in un fiume, ma da esso, pentitosi riemerge: è un’immagine molto allegorica, molto diffusa questa del rinascere dall’acqua. La rinascita spirituale proietta il protagonista dell’opera nella junghiana “fase culturale” (seguente quella “naturale”), e altresì lo porta più in avanti nel personale “processo di individuazione”. In questo momento egli muta ulteriormente il suo assetto psichico-caratteriale, il quale da sentimentale-percettivo muta in sentimentale-intuitivo. Siddhartha prende a stare, nella fase conclusiva della sua parabola, in compagnia di un barcaiolo imitandone il mestiere. Vasudeva costituisce al pari del Virgilio dantesco un simbolo della razionalità logica (contigua alla razionalità sentimentale, Beatrice). Quello rappresenta una figura che compare allo scopo di compensare il segmento psichico junghiano “sentimentale” del personaggio hessiano. In aggiunta a Vasudeva, l’immagine del fiume si riqualifica quale metafora della vita universale. In questi tratti del testo il vincitore del Premio Nobel (nel 1946) attua una serie di recuperi concettuali filosofici a proposito delle convinzioni che il suo protagonista assume. La visione del mondo assunta da Siddhartha si colora non solo di connotazioni religiose orientali indiane ma anche di toni eleatici, pirroniani. Nella ricerca della felicità (della liberazione: nirvana) l’Universo in sé non giocherebbe né pro né contro; la totalità dell’Essere sarebbe in modo concettuale inconoscibile e ineffabile, non esisterebbero in generale affermazioni vere che scarterebbero le contrarie false. Agli occhi di Siddhartha esiste possibile solo un mistico cogliere l’autentica atemporalità retrostante al fenomenismo, un’intuizione dell’unità dell’Universo: il linguaggio umano sarebbe figlio di un vuoto nominalismo. Nell’ultima parte del romanzo il protagonista rivede Kamala e si ricongiunge col figlio da lei avuto a sua insaputa. Il processo junghiano di individuazione di Siddhartha perviene al culmine col raggiungimento da parte di lui dell’archetipo del “vecchio saggio”. Questa porzione del prodotto letterario rievoca inoltre uno dei temi classici della psicologia, il quale riguardò da vicino Hesse: lo scontro generazionale. Alla fine dell’opera il suo autore ribadisce e puntualizza varie cose. Il fiume rappresenta la libido junghiana, la vita universale, in cui Siddhartha, aiutato da Vasudeva, che raffigura un virgiliano supporto (simbolo della razionalità, promotore della ricerca dell’ordine interiore), si rispecchia raggiungendo una “noluntas hessiana”. Al contrario di Schopenhauer, Hesse, con Jung, intravede nella libido (=voluntas) una radice positiva dell’esistenza. Trovare il proprio posto in quel meccanismo ridà una consapevolezza interiore psichica che produce la junghiana individuazione: sentirsi armonica parte di un tutto, dentro e fuori di sé. Il creatore del romanzo ribalta idealmente il pensiero schopenhaueriano e i principi religiosi indiani: il mondo non è un illusorio, malevolo contenitore della vita. È il teatro dove ciascuno si trova gettato-a-vivere, e nel quale usufruisce della possibilità di costruire un percorso positivo. Usando in modo adeguato ed equilibrato le facoltà umane, inquadrarsi in un’armonia universale non rimane una chimera. Siddhartha all’ultimo rivede pure Govinda, cui ribadisce che la Verità è l’Essere, e che Tutto è Vita. Nella chiusura del testo il suo autore affronta anche l’argomento del ruolo che l’“ombra” junghiana abbia nell’esistenza. Questo è quello di una catarsi, nell’auspicio migliore di un attraversamento potenziale dell’eccesso e di quanto sia male. Nel quadro junghiano del personaggio creato da Hesse l’ordine portato dalla funzione logica psichica consente uno schietto recupero di quella sentimentale, la quale a questo punto non si sofferma più in maniera pro tempore esclusiva su singole cose ma coglie l’Essere nella sua trasversale dimensione di sottofondo rispetto al fenomenico: l’Essere compenetra tutto il reale, illusorio o sostanziale che sia, e lo rende “amabile” e lo scioglie nella sua unità di base.

L'evoluzione psichica junghiana di Siddhartha


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche

1 Per approfondimenti: