di DANILO CARUSO
In un mio precedente scritto avevo introdotto ed esposto la
mia teoria sui tipi psicologici ponente la bipartizione fra “tipi freudiani” e
“tipi junghiani”1. La distinzione da me operata ha posto l’accento
sul grado di libido individuale maturata dal soggetto, sicché i due sistemi
analitici di Freud e Jung, sebbene alternativi, non entrassero in contrasto
estensivo, bensì avessero un’opportunità di coesistenza a seconda dello
psicanalizzato. Le due forme libidiche descritte da questi due autori, secondo
me, non sono assolute, ma caratterizzano due gradi (fase naturale e fase
culturale, in Jung): uno più basso freudiano e uno più nobile junghiano. Simili
modalità esistenziali coabitano inter homines, e l’obiettivo sarebbe
raggiungere una maturità culturale junghiana, staccandosi dal livello freudiano
più vicino al bestiale. Questo stadio di partenza può rimanere dominante nella
vita. Predomina in tal caso la dimensione pulsionale animale nella ricerca del
soddisfacimento degli appetiti corporei. In un soggetto del genere l’uso della
razionalità non è adeguato allo status di “essere umano”, ed esso rimane
limitato a funzioni essenziali volte al mantenimento del proprio posto nel
consorzio sociale. La psicologia comportamentista, a mio avviso, si calibra sul
gradino più basso psichico-libidico, e mi pare che qui la strategia sia quella
di un ammaestramento di una scimmia evoluta. La mia partizione degli
antropomorfi dotati di linguaggio articolato, costruita sulla base della
constatazione della maturità della libido, la quale ha purtroppo comportato una
sorta di aristotelica dicotomia discriminante “animale/razionale”, dove tutto
si gioca su una gamma intensiva a proporzionalità inversa, ha intravisto
un’occasione di migliore approfondimento nel pensiero di Thomas Hobbes. Una
cosa che non ho ancora ben legata alla mia teoria distintiva tra “freudiani” e
“junghiani” è il quoziente intellettivo, il quale nel primo tipo, secondo me, è
perlopiù inferiore rispetto al secondo. I soggetti “junghiani” possiedono una
padronanza del logos aristotelico nel senso vero e proprio, contrariamente a
chi ha una testa letteralmente vuota e vive, gettato per caso nel mondo, non
interessandosi (seriamente) della sfera umanistico-scientifica. La società
capitalistica predilige individui facilmente plasmabili, imbottiti delle più
varie distrazioni e stupidità, gente da ammaestrare, come chiarito da Marcuse,
senza particolare fatica ricorrendo agli strumenti mediatici e a piccole
gratificazioni. Ho ritrovato simile categoria di persone nella riflessione
filosofia hobbesiana, la quale si contrappone a quella sociopolitica
aristotelica: il che fa pendant con la mia dicotomia “freudiani/junghiani”.
Thomas Hobbes ha confusamente rilevato gli effetti di una libido freudiana
sopra l’agire umano che nella sua visione rimarrebbe condizionato da meccaniche
sensistiche. In parole povere si è arenato alla superficie dell’introspezione,
non avendo avuto la capacità poi di Schopenhauer di cogliere qualcosa che non
era sottoponibile a parametri di rigore matematico. Comunque per Hobbes la
possibile libertà umana di assentire o dissentire all’input rimane succube di
qualcosa di istintuale. Infatti egli definisce «l’uomo un lupo per l’uomo».
Prende atto cioè del soggetto “freudiano” con accanto alle sue pulsioni
appetitive di base e di soddisfazione corporale le altre pulsioni strumentali
miranti alla distruzione esterna. Dall’assenza, che il filosofo inglese generalizza
nei confronti di tutti gli antropomorfi umani, di un’aristotelica e pacifica
forza ordinatrice (logos), egli postula il radicale, presociale, «bellum omnium
contra omnes». Io giudico che abbia fatto di tutta l’erba un fascio. Non credo
che tutti siano lupi, reputo che nella costituzione dello Stato ci siano
possibilità spontanee, razionali, pienamente “umane”, alla maniera
aristotelica: pensiamo al colonialismo greco-antico. Ovviamente inquadro le due
vie nell’ottica della mia bipartizione “freudiani/junghiani”, consapevole che
un qualsiasi raggruppamento umano è stato sinora misto. Non si è mai
storicamente realizzata una società che accorpasse fasce sul criterio della
maturità libidica e del quoziente d’intelligenza. Il che è poi in sostanza l’ideale
aristocratico della repubblica platonica. Lo Stato è quasi sempre sorto sulla
Terra seguendo il modello hobbesiano. A tal riguardo, al fine di inserire con
chiarezza la sociologia di Thomas Hobbes nel mio primo gradino psicologico, è
il caso di ripercorrere il pensiero hobbesiano pertinente. Il filosofo inglese,
come Freud, puntualizza che per gli antropomorfi in questione (al pari di
qualsiasi bestia) è centrale l’obiettivo della propria autoconservazione,
cercando di evitare ogni situazione di pericolo. Simili due propositi, le due
facce di una stessa medaglia, mi hanno fatto pensare alla hegeliana dialettica
“signore-servo”. Il tipo freudiano, scoperta la sua inferiorità di fronte a
qualche suo pari più temerario, allo scopo di avere salva la vita cede la
sovranità al Leviatano, allo Stato hobbesiano il quale si pone al di sopra dei
cittadini in una autonomistica concentrazione del potere. Il Leviatano non deve
giustificarsi, è uno Stato etico. È esso a stabilire cosa è bene e cosa è male.
Quest’altra sfaccettatura mi fa volgere lo sguardo ulteriormente in direzione
di Nietzsche e de Sade2. Il Leviatano persegue nella concezione di
Hobbes la “forma” del bene, quale sia la concreta sostanza appare relativo. Lo
Stato assolutistico hobbesiano per sopravvivere si trasforma in “volontà di
potenza”, il metro di se stesso è esso medesimo, non un’etica razionale. Simile
Stato tirannico, che Hobbes definisce un Dio (a dimostrazione che non si fonda
sulla Ragione, ma sull’aspetto deterrente echeggiato dal paragone col
terrificante mostro biblico), sembra un oppressore. In effetti il moderno Stato borghese a economia
capitalista ricalca il modello hobbesiano e produce la marcusiana compressione
sociale di deboli tipi freudiani, vittime di aver ceduto all’assalto del
“padrone”, il quale ha imposto la sua “potente” signoria-di-classe. Chi detiene
il potere della forza armata del Leviatano controlla tutto, a cominciare
dall’indottrinamento mediatico (a seconda delle ere) sopra le masse. La forza
militare fa la differenza (pensiamo al peso attribuito ai difensori nella
repubblica platonica). I golpes con più alta probabilità di successo sono opera
di generali o colonnelli: come dice Machiavelli i disarmati hanno poche
speranze di successo. E anche nella conservazione del potere politico la forza
militare mantiene il suo compito strategico centrale. Il Leviatano è perciò il
mostro più terrificante. I singoli homines-lupi sono costretti nella quasi
totalità a inchinarsi a esso, a condannarsi alla frustrazione di una libido
freudiana mortificata e inappagata (principio di realtà). Non ci vuole molto a
capire che tale garbuglio è patologico. La arendtiana “banalità del male”
emerge dalla frustrazione dei miei tipi freudiani. La germania nazista aveva
uno Stato hobbesiano. Con la propaganda di massa ha infine plagiato un popolo.
Se i tipi che io definisco “freudiani” costituiscono obiettivamente la parte
sociale (associata) vulnerabile, e si convertono di conseguenza in potenziali
pericoli nei confronti di autentici stabilità, benessere, progresso, non mi
appare esagerato studiare una forma pacifica al fine di disinnescare il
problema. Costoro reputo siano i più propensi, tra l’altro, a delinquere,
spinti a ciò da brame e appetiti pulsionali (passionali) non banditi da un
corretto esercizio della razionalità. Mi pare lecito tutelare la parte migliore
e più sana della società. Di fronte a tutta questa problematica, da cui
peraltro si evince l’origine delle diffuse moderne comuni nevrosi, ho
riflettuto a lungo ponendomi i più gravi dilemmi. Mi ha accompagnato da sempre
l’idea dell’uguaglianza universale degli uomini. E nemmeno ora metto in dubbio
che tutti gli esseri umani nascano eguali davanti al mondo, e che a tutti
debbano essere concesse e garantite pari opportunità di crescita, di sviluppo,
di formazione, di inserimento sociale. Tuttavia dopo decenni ho concluso che
questa realtà in cui compariamo – per un motivo o per un altro – è la prima a
diversificarci e a “discriminarci”. De facto siamo diversi e assortiti. Questa
non è un a novità. Il campione del liberalismo, non soltanto inglese, John
Stuart Mill propose di dare la facoltà di esprimere numericamente pro capite
più voti politici alle persone di migliore qualità intellettiva rispetto al
livello di base. Non ha parlato così un principe delle forme antidemocratiche.
E a John Stuart Mill intendo proprio riallacciarmi, in una chiave più avanzata
e parallela al pensiero scientifico post-ottocentesco. Prenderò in esame il
diritto all’elettorato (attivo e passivo), nella fattispecie della nostra
Repubblica italiana. A una determinata età da noi si diventa maggiorenni, e
quindi si può accedere alla facoltà (a seconda dei casi previsti dalle leggi
vigenti) di esprimere “un” voto per pubbliche magistrature popolarmente
elettive, e di essere a queste eletti. Cioè si “discrimina” questo
riconoscimento di diritti sulla base dell’età in relazione alla quale ogni
individuo si ritenga sia diventato affidabile, capace, consapevole,
responsabile. Ebbene, sono stato portato a credere che non sia il mito dell’età
cronologica a rendere matura e saggia una persona. Sotto il profilo dello
sviluppo della personalità, avere superato la soglia della ritenuta “maggiore
età” non dice niente. Quanti irresponsabili, poveri di abilità e di conoscenza,
adulti ci sono in giro ad esempio a cui si darebbe un’età mentale di otto anni?
Daremmo a minorenni, nel corpo di qualcuno più in avanti negli anni la
possibilità di indirizzare le sorti della società e dello Stato? A me,
sinceramente, non sembra cosa buona e giusta lasciare correre una cosa del
genere. John Stuart Mill e Montesquieu hanno parlato del problema della
“dittatura della maggioranza” dentro un sistema democratico, che per me è la
maggioranza dei “freudiani” all’interno della democrazia borghese, maggioranza
sui cui poggia e specula il capitalismo. Chi vota deve “capire”, chi è votato
non può essere qualcuno con “basse qualità intellettuali”. Ritorna qua il parametro
del “quoziente d’intelligenza”. A chi pensasse inappropriato e superato un
recupero delle osservazioni di Mill oggigiorno, giacché la moderna
scolarizzazione avrebbe resi tutti eguali e abili, voglio ricordare un articolo
del professor Tullio De Mauro, ministro della pubblica istruzione nel secondo
governo Amato del 2000-2001, un preciso articolo datato 6-3-2008 e pubblicato
sull’“Internazionale” (numero 734), nel quale l’eminente studioso ha
evidenziato aspetti che ho sin qui evocato. All’inizio di questo secolo XXI
nella fascia di popolazione italiana di anni da 14 a 65 il 5% è analfabeta;
circa uno su tre ha le abilità di un bambino che non ha completato la scuola
elementare; quattro italiani su cinque in generale non possiedono una qualità
intellettiva all’altezza della realtà dove vivono, la quale li supera rimanendo
nebulosa e lontana. Sempre nel suo articolo De Mauro ha lamentato che questi
molto preoccupanti dati, emergenti da ricerca, non abbiano ricevuto un’adeguata
attenzione da parte del mondo politico né tanto meno un’opportuna
sottolineatura mediatica. Qual è il succo concreto di quest’interessante e
profondo articolo? L’80 %, più o meno, degli Italiani vive in un proprio mondo
di fantasia, impastato di arretratezze conoscitiva, culturale, tecnologica. Si
può affidare il destino politico del consorzio in cui sono inseriti a costoro,
cioè a persone che non capiscono le dinamiche politiche concrete attuali? Al
cospetto di tale quesito propongo di sostituire il criterio dell’età
cronologica con quello dell’età mentale effettiva (connesso all’espressione
verificata di abilità cognitive e analitiche consone al potere di elettorato
attivo e passivo). Questa periodica procedura si può realmente definire: esame
di maturità. Al di sotto di un certo QI, secondo me, non si dovrebbe poter
accedere alla possibilità di fare “cose complesse” superiori alle proprie
attuali capacità, cose inerenti specialmente al bene pubblico e comune.
Ovviamente c’è la speranza di migliorarsi, e si potrebbe verificare ogni 5/10
anni il QI individuale per attribuire il diritto di voto. Non penso di aver
detto un’assurdità, o qualcosa di inattuabile. Periodicamente si fa il
censimento popolare: si faccia il censimento intellettivo. La facoltà
universitaria di medicina è a numero chiuso: si faccia similmente del diritto
di voto e della politica una “facoltà a numero chiuso” a cui accedere dopo
apposito accurato esame. Giudico che la salute dello Stato non sia meno
importante della salute biologica. Reputo che se si facesse prezioso tesoro
dello spunto offerto dal liberale John Stuart Mill la società potrebbe
migliorare. L’ideale rimane che le istituzioni scolastiche e familiari possano
essere realmente in grado di formare “persone” e “cittadini” proiettati al
grado junghiano della personalità e artefici di un mondo equilibrato in tutti i
profili. La meta di “un pezzo di carta” ancorato a una “mira di guadagno”, studiando
poco, riflettendo poco, capendo poco del mondo (presente, passato e venturo)
non genera gran che di positivo. Una società malata è destinata a crollare su
se stessa in balia di sciacalli e avvoltoi di turno. In verità sono conscio che
quando propongo di dividere la gente in α+ (eccellenti) e α (normali) da un
lato e β (deficitari) dall’altro possa io apparire distopico o in modo
involontario sinistramente evocativo. Ho cercato di evitare queste fuorvianti
non volute impressioni, mirando unicamente ad avanzare un’“idea”. Indubbiamente
se ci fosse più “pensiero” in giro non ci sarebbe bisogno di idee come questa
mia. La mia preoccupazione in relazione al futuro dell’umanità è per l’appunto
quella che il mondo possa cadere in una spirale distopica, di cui ho sviluppato
un modello storico degenerativo ipotetico3. Per il momento non mi
sembra esagerato e fuor di luogo che “minorenne” debba essere considerato chi
abbia un quoziente d’intelligenza inferiore al minimo richiesto, e
“maggiorenne” (con i diritti della maggiore età) chi stia al di sopra della
soglia. La Grecia classica ha trattato assurdamente le donne davanti allo Stato
da perpetue minorenni. Di fronte a una tale assurda discriminazione di genere,
lenta a scrostarsi, durata nella storia in varie forme, mi permetto di indicare
il parametro che a mio modesto avviso è quello che realmente conta: il possesso
di base di un “logos” efficiente (e dunque non deficiente) il quale connota il ζῷον πολιτικόν / ζῷον λόγον ἔχων. E simile tipo a me pare, nel mio modello
sociopsichico, appartenere in primis agli “junghiani”. Una volta ho
definito l’insieme di questi: comunità logica. Se qualcuno pensasse
“illiberale” il mio progetto, rammento che nell’Italia “liberal-borghese” post-unitaria
ebbero diritto di voto della popolazione 2 su 100 nel 1861-82, 7 su 100 nel
1882-1912, 1 su 4/5 nel 1912-23. Altresì voglio ricordare che il suffragio
universale maschile giolittiano partiva dai 30 anni, riducibili a 21 con almeno
una delle seguenti condizioni: 1) possesso della licenza elementare, 2)
svolgimento del servizio militare, 3) pagamento annuo al fisco regio non
inferiore a L 19,80. Nel 1912 il pane costava 38 c. al kg, l’imposta unica sui
redditi era dell’8%, un bambino su cinque moriva entro i 5 anni; il
proletariato, netta maggioranza popolare, in pratica era estromesso dalla
politica. Oggigiorno, dopo il suffragio universale per età cronologica
post-bellico (nel 1950 uno su otto degli Italiani era analfabeta), esiste il
fenomeno dell’alto tasso dell’astensionismo che coinvolge un elettore su tre,
idest un partito italiano fantasma sul 30%. Ciò non rappresenta motivo di
encomio della democrazia borghese, la quale silenziosamente ha riacquistato un
quid di quell’Italia unitaria liberale prefascista. Esistono ora moltissime
persone che non sono motivate a recarsi alle urne: costituisce questo un enorme
fallimento sociale non solo educativo. Davanti al quale non è facile replicare,
dal mio punto di vista, che distopico, illiberale e antidemocratico sia il mio
sistema proposto di suffragio universale per QI, nel momento in cui la realtà
concreta si riveste già di tratti negativi significativi. La mia impressione è
che nelle democrazie borghesi la politica sia per vari tratti una roba marcia
connotata da affarismo e interessi personali (causa prossima), e che la causa
remota di tutto quanto sia il far votare un elettorato non interamente
qualificato sopra il quale germogliano e crescono rigogliosi i più pesanti
problemi, per la cui soluzione, dunque alla radice, ho avanzato una “soluzione
platonica”. Io ho riflettuto nel merito allo scopo di miglioramento, e non
certo di peggioramento. Ho il dubbio che se per far studiare la gente ci vuole
un “obbligo” (il che è un concetto agli antipodi di qualcosa compiuto
“liberamente”, “spontaneamente”) forse l’errore stia a monte: non esistono gli
obblighi di mangiare o bere. Aristotele direbbe che lo studio nutre l’anima
razionale, e non quella vegetativa. Ma il logos è raggiungibile solo dalla
prima. Potremmo lasciare liberi tutti quelli che non vogliono studiare ed
esercitare il logos di vivere la loro vita come vogliono. Sarebbero in fin dei
conti filosofi “cinici”. Con la conseguenza però che costoro finirebbero nel mio
gruppo β disconnesso dall’esercizio delle prerogative politiche (nella polis ci
vuole il logos: no logos, no polis). Umano è colui che indaga il mondo
circostante, i bambini sono filosofi naturali, un peccato sprecare simile
predisposizione dentro una società che vanifica le cose serie a beneficio di
un’estetica del vuoto divertissement. Allorché tale coltura del niente svanirà
non ci sarà più bisogno, secondo me, di dividere la massa in α e β: ci sarà un
livello di base interamente di α senza più β. È stato Antonio Gramsci a
richiamare in passato l’importanza degli studi umanistico-scientifici a
vantaggio della classe proletaria, giacché questi costituiscono, tra l’altro,
una palestra per il pensiero. Il quale se non si cimenta con i limiti alti
dell’attività mentale non produrrà atleti all’altezza di una società che vuole
essere giusta, sana ed equilibrata. Chi possiede scarse qualità di analisi e di
sintesi, congiunte a una bassa acculturazione, cadrà sempre in balia di
persuasori i quali non sempre sono limpidi e onesti. Tullio De Mauro nel suo
articolo ricordato ci ha segnalato una grave lacuna contemporanea
nell’adeguatezza intellettuale. Io ho legato tutti i fili della mia analisi nel
modo migliore possibile, nella maniera più ordinata volta a rintracciare un’alternativa
allo status quo problematico. Mi sono reso conto che la mia bipartizione fra
“tipi freudiani” e “tipi junghiani”, introdotta da me in termini psicanalitici,
è tutto sommato già operante nella repubblica platonica laddove il grande
filosofo ateniese separa i filosofi-governanti e i difensori dalla terza
categoria degli operatori produttivi materiali. Platone aveva già compreso
quanto io ho spiegato sopra, e che cioè chi è ancorato alle “passioni freudiane”
rappresenta un fattore di squilibrio se inserito nel contesto amministrativo
della res publica. Al celebre allievo di Socrate non è sfuggita una superiore
valenza della libido, la quale lui ha illustrato nel “Simposio”, un dialogo a
cui io a tal riguardo ho dedicato un mio precedente studio mostrando le
analogie del caso tra il pensiero platonico inerente all’eros e lo sviluppo
della libido nella psicologia analitica di Jung4. Platone ha dunque
posto quelli che io definisco “tipi junghiani” nelle prime due classi della sua
repubblica, concentrando i “freudiani” nella terza. Prima della nascita della
moderna psicanalisi non era possibile un ragionamento politico platonico
chiarito alla mia maniera psicanalitica. Le conseguenze della mia impostazione
investigativa e costruttiva si rivelano molto ricche poiché ci forniscono il
modo di capire altresì perché il comunismo storico marxista è fallito nel
Novecento. Puntualizzo che, da peronista giustizialista, sono favorevole a una
abolizione della grande proprietà privata personale, lasciando solo il possesso
esistenziale (il frommiano “avere esistenziale”) di quanto sia essenziale (come
ad esempio la casa e quanto ci sta dentro). Sono quindi più vicino a Proudhon
che non a Marx nel merito. Detto ciò, proseguo dicendo che il socialismo reale
non ha avuto il successo che Marx e i suoi seguaci si aspettavano per il fatto
di non avere attuato la mia separazione proposta tra α e β.
Nell’amministrazione statale sono stati messi “tipi freudiani” i quali hanno
necessariamente fatto naufragare l’esperienza marxista storica. Se in quella
classe dirigente comunista si fossero trovati perlopiù “tipi junghiani” le cose
ovunque, a mio avviso, sarebbero andate meglio. E ciò è quanto Platone ci aveva
fatto intuire nella sua filosofia politica allorché creava categorie di matrice
attitudinale. Simile inconveniente, trascurato nell’attuazione del socialismo
reale, è stato poi evidenziato dall’idealista Trockij. Una burocrazia, che io
definirei “freudiana”, ha preso il potere pratico, interponendosi nell’andare
verso la direzione dei più sinceri ideali marxisti di giustizia sociale e di
benessere universale. Ovunque permane, nello Stato liberal-borghese o nello
Stato socialista marxista, un istintuale latente «bellum omnium contra omnes»
nelle menti dei dirigenti non c’è pertanto il trionfo dell’illuministico ideale
di liberté égalité fraternité. Nella
fattispecie marxista la dittatura del proletariato è stata appunto la via
erronea, quella che ha portato i “freudiani” al potere, creando la criticata
“tirannia della maggioranza” (Mill e Montesquieu). Tant’è che Lenin ha dovuto
correggere un po’ la prospettiva di approccio al potere sostenendo che la
borghesia più illuminata avrebbe dovuto collaborare coi comunisti. Lenin aveva
intuito qualcosa di platonico, purtroppo è morto precocemente nel 1924 a 53
anni, e non sapremo mai se la sua URSS sarebbe stata migliore di quella di
Stalin. Avviandomi alla conclusione della mia analisi voglio fugare due
possibili critiche ad hoc. Mi si potrebbe far osservare che io abbia elaborato un
modello pseudoscientifico di suprematismo intellettualistico. Il che, nel mio
caso, non sarebbe vero. È attualmente scientifica la procedura sanitario-giuridica
che verifica le capacità di intendere e di volere di una persona verificandone
in pratica l’efficienza intellettiva. Una cosa del genere non è assurda né
tanto meno una novità, sarebbe semmai approfonditamente e periodicamente
rivolta a tutti, sempre nell’ambito medico consolidato. Non si tratterebbe di
qualcosa di razzistico-spiritualistico, ma di una selezione seria e obiettiva
rivolta a creare condizioni di miglioramento sociale e non mirante a generare
una nuova forma di razzismo. Non è razzistica la distinzione
maggiorenni/minorenni, cambierebbe solo il criterio di individuazione: al posto
dell’età cronologica il QI. Fugata questa possibile osservazione ne voglio
prendere in esame un’altra che parimenti non si è celata alla mia attenzione.
Non voglio assolutamente proporre una specie di nuova “lotta di classe”: α
contro β. Ho sempre parlato in termini di ricerca di armonia sociale senza
voler proporre contrapposizioni. Mi basti ricordare il simbolo del Partido
justicialista argentino dove due mani sono strette inter se a indicare
collaborazione e non antagonismo. La società allo scopo di crescere e di
approdare verso lidi migliori ha bisogno di una pacifica dialettica di idee, da
cui emerga quella che appare più utile al bene collettivo integrale. Non abbisogna
di scontri di alcuna sorta e di competizioni nelle gare per la vuota
esteriorità. Sicuro di quanto ho appena affermato, intendo infine superare
dimostrato il vaglio di costituzionalità della mia idea allorché questa si
configura in proposta legislativa. Il mio ragionamento non è sovversivo
dell’ordine costituito, di cui anzi sono altamente rispettoso. Si tratta di una
“riforma”, non di una “rivoluzione”. Partiamo dall’art. 48 della Costituzione
italiana: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto
la maggiore età. […] Il diritto di voto non può essere limitato se non per
incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di
indegnità morale indicati dalla legge». Procediamo adesso per gradi, incominciando
dalla «maggiore età». Io non ho intenzione di sostituire il concetto indicato
con saggezza dalla carta costituzionale, poiché appunto è quello giusto.
Propongo, mantenendone la forma, di sostituire il criterio della “maggiore età
cronologica” con quello della “maggiore età effettiva mentale (QI)”: la
Costituzione resterebbe inalterata in quanto si andrebbe ad agire con legge a
parte statuente la maggiore età in guisa diversa rispetto a ora. La non
assurdità giuridico-costituzionale del mio procedere è ulteriormente ben
dimostrata quando ad hoc si proclama: «Il diritto di voto non può essere
limitato se non per incapacità civile». Idest propter impotentiam utendi ratione. È
infatti ciò di cui ho parlato io nella mia analisi. In Italia sino alla Legge
13 maggio 1978 n. 180 i soggetti dichiarati mentalmente inabili dal Giudice
civile erano privati del diritto di voto. È esistito un dispositivo di legge
che imitava il mio disegno. Si tratterebbe di recuperarlo e adeguarlo
all’occorrenza da me disegnata. La Costituzione parla pure di esclusione dal
voto per «casi di indegnità morale indicati dalla legge». E anche qui è
possibile trovare una sponda utile. Chi, volontariamente, e non dunque per
cause esterne alla propria volontà (quali ad esempio patologie mediche o
disagi), rimanesse in uno stadio mentale arretrato in relazione all’età
cronologica in atto per pigrizia negli studi e disinteresse verso il bene
comunitario potrebbe essere imputato di questa «indegnità morale» testé
evocata. L’art. 48 parla chiaramente, basta soltanto capire cosa ci vuol dire e
cosa ci può dire con esattezza. Gli artt. 2-3 della nostra carta costituzionale
restano centrali e fondamentali, nonché di sprone: «Art. 2 – La Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. / Art. 3
– Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale davanti alla legge, senza
distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali. […]». A tal riguardo è il caso che io faccia
delle puntualizzazioni esplicative nella mia ottica. I β over 18 andrebbero
equiparati in giudizio agli α a causa della loro accidia. Per i β non ci
sarebbe un “carcere minorile” o una particolare “giurisprudenza minorile”. Gli
under 18 rimarrebbero “minorenni” per convenzione naturale, chi entra negli α
ci rimarrebbe a tempo indeterminato senza nuovi periodici esami (a meno dei
casi di incapacità già previsti dalle leggi vigenti che dispongono l’adozione
di un tutore). Il computo dell’età degli α, ai fini delle leggi già esistenti,
rimarrebbe anche quello tradizionale cronologico (per cui non ci sarebbe
nessuno sconvolgimento pratico). Tutti i β over 18 avrebbero un tutore, al pari
delle donne nell’antica Grecia. L’art. 2 della Costituzione dove afferma i
«doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» offre
un’altra sponda di sostegno alla mia argomentazione. I β risulterebbero
responsabili per via della loro voluta inadeguatezza intellettiva di
“inadempimento di quei doveri”: «fatti non foste a viver come bruti, ma per
seguir virtute e canoscenza». L’art. 51, parimenti a quelli 2 e 3, resta un
faro prezioso inalterato: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso
possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. […]». Tutte le mie
parole non intendono sovvertire, ma riformare. Ho ragionato in maniera nitida
cercando di sondare tutti gli angoli al fine di stare saldamente ancorato
nell’alveo della legalità e del buonsenso. Ho dimostrato la ragionevolezza
della mia argomentazione in vario modo. Il mio obiettivo analitico è stato
quello di fornire uno spunto mirato a migliorare il sistema democratico. La
Storia ci ammonisce severamente. Assemblee parlamentari elette a suffragio
popolare possono legittimare governi autoritari e antidemocratici. Possono
consegnare il potere a governi in grado di instaurare dittature di breve o
lunga durata. Dittature le quali possono prendere in ostaggio politico i
parlamenti elettivi, nella quale circostanza si rivelano composti da
opportunisti e curatori di interessi ridotti e parziali. Viceversa assemblee
parlamentari in larga maggioranza sane non aprono le porte a prospettive
dannose e illiberali. Da dove simili nefasti regimi? Da elettori squalificati,
secondo me. Qualificando l’elettorato attivo, sarà più qualificato qualsiasi
parlamento. Un parlamento di superiore selezione nella guisa da me illustrata
dovrebbe essere un argine più robusto alle maree speculative e affaristiche.
Per quanto mi è dato capire tutto il problema ha la sua radice nel “livello
freudiano”. Da simile impostazione la mia soluzione platonica che ricerca il
Bene. Il XXI secolo dimostra ulteriormente in virtù della mobilità globale di
idee e persone che il vecchio concetto di “razza” sia qualcosa di reazionario,
e che radicarsi nelle differenze equivalga a chiudersi al futuro. Esiste de
facto una sola razza umana, la cui unica differenza interna deriva dal grado di
avvalersi del pensiero razionale. La barriera che può separare proviene dunque
dall’incapacità di acquisire conoscenze obiettive delle dinamiche storiche e
dello sviluppo degli eventi attuali. L’idea classica e conservatrice di
“Patria” appare superata dagli effetti della mobilità globale, e supportarla di
contenuti religiosi si rivela un irrazionale progetto di conservazione
pseudoculturale, soprattutto quando questi contenuti si rivelano frutti di
tempi arretrati nella civiltà. Cultura è apertura all’apprendimento da cui
consegue crescita: l’isolamento mentale proviene da nevrosi (o malafede) e
conduce a nevrosi, nonché è strumento possibile di condizionamento di soggetti
ignoranti. La storia insegna che disegnare confini nazionali costituisce
un’operazione accidentale, così come la filosofia mostra che ritagliare limiti mentali
si rivela deleterio. La vita è movimento, chiudersi in sepolcri imbiancati non
sembra ragionevole. L’obiettivo rimane la pacifica coesistenza globale nel
benessere, e le chiusure producono attriti e ostacoli nel processo di armonizzazione generale. Nessuno migliorerà
con lo spirito di contrapposizione militante (nazionale e/o religioso). Nel
’900 i capitalismi nazionalistici produssero un grandissimo conflitto mondiale
(1914-1945) combattuto in più fasi (sulla falsariga della guerra del
Peloponneso). Sfumare i confini (per abolirli del tutto) diminuisce le
tensioni: l’amalgama verso il meglio e l’incontro creano stabilità. A chiusura
di tutto questo scritto invito a leggerne un altro, sempre mio, pertinente,
dedicato al “Discours sur la servitude
volontaire” di Étienne de La Boétie, una
analisi che rappresenta più la torta di questa ciliegina, che non la ciliegina
su questa torta5.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
1 Si veda nella mia
monografia Filosofie sadiche (2021) la parte intitolata L’irrazionalismo
nevrotico di Kierkegaard:
2 Per approfondimenti indico il mio saggio citato nella
precedente nota:
3 Vedasi nota 1.