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mercoledì 1 febbraio 2023

LE IMPLICAZIONI FILOSOFICO-POLITICHE DEL MIO SCHEMA PSICANALITICO

di DANILO CARUSO
 
In un mio precedente scritto avevo introdotto ed esposto la mia teoria sui tipi psicologici ponente la bipartizione fra “tipi freudiani” e “tipi junghiani”1. La distinzione da me operata ha posto l’accento sul grado di libido individuale maturata dal soggetto, sicché i due sistemi analitici di Freud e Jung, sebbene alternativi, non entrassero in contrasto estensivo, bensì avessero un’opportunità di coesistenza a seconda dello psicanalizzato. Le due forme libidiche descritte da questi due autori, secondo me, non sono assolute, ma caratterizzano due gradi (fase naturale e fase culturale, in Jung): uno più basso freudiano e uno più nobile junghiano. Simili modalità esistenziali coabitano inter homines, e l’obiettivo sarebbe raggiungere una maturità culturale junghiana, staccandosi dal livello freudiano più vicino al bestiale. Questo stadio di partenza può rimanere dominante nella vita. Predomina in tal caso la dimensione pulsionale animale nella ricerca del soddisfacimento degli appetiti corporei. In un soggetto del genere l’uso della razionalità non è adeguato allo status di “essere umano”, ed esso rimane limitato a funzioni essenziali volte al mantenimento del proprio posto nel consorzio sociale. La psicologia comportamentista, a mio avviso, si calibra sul gradino più basso psichico-libidico, e mi pare che qui la strategia sia quella di un ammaestramento di una scimmia evoluta. La mia partizione degli antropomorfi dotati di linguaggio articolato, costruita sulla base della constatazione della maturità della libido, la quale ha purtroppo comportato una sorta di aristotelica dicotomia discriminante “animale/razionale”, dove tutto si gioca su una gamma intensiva a proporzionalità inversa, ha intravisto un’occasione di migliore approfondimento nel pensiero di Thomas Hobbes. Una cosa che non ho ancora ben legata alla mia teoria distintiva tra “freudiani” e “junghiani” è il quoziente intellettivo, il quale nel primo tipo, secondo me, è perlopiù inferiore rispetto al secondo. I soggetti “junghiani” possiedono una padronanza del logos aristotelico nel senso vero e proprio, contrariamente a chi ha una testa letteralmente vuota e vive, gettato per caso nel mondo, non interessandosi (seriamente) della sfera umanistico-scientifica. La società capitalistica predilige individui facilmente plasmabili, imbottiti delle più varie distrazioni e stupidità, gente da ammaestrare, come chiarito da Marcuse, senza particolare fatica ricorrendo agli strumenti mediatici e a piccole gratificazioni. Ho ritrovato simile categoria di persone nella riflessione filosofia hobbesiana, la quale si contrappone a quella sociopolitica aristotelica: il che fa pendant con la mia dicotomia “freudiani/junghiani”. Thomas Hobbes ha confusamente rilevato gli effetti di una libido freudiana sopra l’agire umano che nella sua visione rimarrebbe condizionato da meccaniche sensistiche. In parole povere si è arenato alla superficie dell’introspezione, non avendo avuto la capacità poi di Schopenhauer di cogliere qualcosa che non era sottoponibile a parametri di rigore matematico. Comunque per Hobbes la possibile libertà umana di assentire o dissentire all’input rimane succube di qualcosa di istintuale. Infatti egli definisce «l’uomo un lupo per l’uomo». Prende atto cioè del soggetto “freudiano” con accanto alle sue pulsioni appetitive di base e di soddisfazione corporale le altre pulsioni strumentali miranti alla distruzione esterna. Dall’assenza, che il filosofo inglese generalizza nei confronti di tutti gli antropomorfi umani, di un’aristotelica e pacifica forza ordinatrice (logos), egli postula il radicale, presociale, «bellum omnium contra omnes». Io giudico che abbia fatto di tutta l’erba un fascio. Non credo che tutti siano lupi, reputo che nella costituzione dello Stato ci siano possibilità spontanee, razionali, pienamente “umane”, alla maniera aristotelica: pensiamo al colonialismo greco-antico. Ovviamente inquadro le due vie nell’ottica della mia bipartizione “freudiani/junghiani”, consapevole che un qualsiasi raggruppamento umano è stato sinora misto. Non si è mai storicamente realizzata una società che accorpasse fasce sul criterio della maturità libidica e del quoziente d’intelligenza. Il che è poi in sostanza l’ideale aristocratico della repubblica platonica. Lo Stato è quasi sempre sorto sulla Terra seguendo il modello hobbesiano. A tal riguardo, al fine di inserire con chiarezza la sociologia di Thomas Hobbes nel mio primo gradino psicologico, è il caso di ripercorrere il pensiero hobbesiano pertinente. Il filosofo inglese, come Freud, puntualizza che per gli antropomorfi in questione (al pari di qualsiasi bestia) è centrale l’obiettivo della propria autoconservazione, cercando di evitare ogni situazione di pericolo. Simili due propositi, le due facce di una stessa medaglia, mi hanno fatto pensare alla hegeliana dialettica “signore-servo”. Il tipo freudiano, scoperta la sua inferiorità di fronte a qualche suo pari più temerario, allo scopo di avere salva la vita cede la sovranità al Leviatano, allo Stato hobbesiano il quale si pone al di sopra dei cittadini in una autonomistica concentrazione del potere. Il Leviatano non deve giustificarsi, è uno Stato etico. È esso a stabilire cosa è bene e cosa è male. Quest’altra sfaccettatura mi fa volgere lo sguardo ulteriormente in direzione di Nietzsche e de Sade2. Il Leviatano persegue nella concezione di Hobbes la “forma” del bene, quale sia la concreta sostanza appare relativo. Lo Stato assolutistico hobbesiano per sopravvivere si trasforma in “volontà di potenza”, il metro di se stesso è esso medesimo, non un’etica razionale. Simile Stato tirannico, che Hobbes definisce un Dio (a dimostrazione che non si fonda sulla Ragione, ma sull’aspetto deterrente echeggiato dal paragone col terrificante mostro biblico), sembra un oppressore. In effetti il moderno Stato borghese a economia capitalista ricalca il modello hobbesiano e produce la marcusiana compressione sociale di deboli tipi freudiani, vittime di aver ceduto all’assalto del “padrone”, il quale ha imposto la sua “potente” signoria-di-classe. Chi detiene il potere della forza armata del Leviatano controlla tutto, a cominciare dall’indottrinamento mediatico (a seconda delle ere) sopra le masse. La forza militare fa la differenza (pensiamo al peso attribuito ai difensori nella repubblica platonica). I golpes con più alta probabilità di successo sono opera di generali o colonnelli: come dice Machiavelli i disarmati hanno poche speranze di successo. E anche nella conservazione del potere politico la forza militare mantiene il suo compito strategico centrale. Il Leviatano è perciò il mostro più terrificante. I singoli homines-lupi sono costretti nella quasi totalità a inchinarsi a esso, a condannarsi alla frustrazione di una libido freudiana mortificata e inappagata (principio di realtà). Non ci vuole molto a capire che tale garbuglio è patologico. La arendtiana “banalità del male” emerge dalla frustrazione dei miei tipi freudiani. La germania nazista aveva uno Stato hobbesiano. Con la propaganda di massa ha infine plagiato un popolo. Se i tipi che io definisco “freudiani” costituiscono obiettivamente la parte sociale (associata) vulnerabile, e si convertono di conseguenza in potenziali pericoli nei confronti di autentici stabilità, benessere, progresso, non mi appare esagerato studiare una forma pacifica al fine di disinnescare il problema. Costoro reputo siano i più propensi, tra l’altro, a delinquere, spinti a ciò da brame e appetiti pulsionali (passionali) non banditi da un corretto esercizio della razionalità. Mi pare lecito tutelare la parte migliore e più sana della società. Di fronte a tutta questa problematica, da cui peraltro si evince l’origine delle diffuse moderne comuni nevrosi, ho riflettuto a lungo ponendomi i più gravi dilemmi. Mi ha accompagnato da sempre l’idea dell’uguaglianza universale degli uomini. E nemmeno ora metto in dubbio che tutti gli esseri umani nascano eguali davanti al mondo, e che a tutti debbano essere concesse e garantite pari opportunità di crescita, di sviluppo, di formazione, di inserimento sociale. Tuttavia dopo decenni ho concluso che questa realtà in cui compariamo – per un motivo o per un altro – è la prima a diversificarci e a “discriminarci”. De facto siamo diversi e assortiti. Questa non è un a novità. Il campione del liberalismo, non soltanto inglese, John Stuart Mill propose di dare la facoltà di esprimere numericamente pro capite più voti politici alle persone di migliore qualità intellettiva rispetto al livello di base. Non ha parlato così un principe delle forme antidemocratiche. E a John Stuart Mill intendo proprio riallacciarmi, in una chiave più avanzata e parallela al pensiero scientifico post-ottocentesco. Prenderò in esame il diritto all’elettorato (attivo e passivo), nella fattispecie della nostra Repubblica italiana. A una determinata età da noi si diventa maggiorenni, e quindi si può accedere alla facoltà (a seconda dei casi previsti dalle leggi vigenti) di esprimere “un” voto per pubbliche magistrature popolarmente elettive, e di essere a queste eletti. Cioè si “discrimina” questo riconoscimento di diritti sulla base dell’età in relazione alla quale ogni individuo si ritenga sia diventato affidabile, capace, consapevole, responsabile. Ebbene, sono stato portato a credere che non sia il mito dell’età cronologica a rendere matura e saggia una persona. Sotto il profilo dello sviluppo della personalità, avere superato la soglia della ritenuta “maggiore età” non dice niente. Quanti irresponsabili, poveri di abilità e di conoscenza, adulti ci sono in giro ad esempio a cui si darebbe un’età mentale di otto anni? Daremmo a minorenni, nel corpo di qualcuno più in avanti negli anni la possibilità di indirizzare le sorti della società e dello Stato? A me, sinceramente, non sembra cosa buona e giusta lasciare correre una cosa del genere. John Stuart Mill e Montesquieu hanno parlato del problema della “dittatura della maggioranza” dentro un sistema democratico, che per me è la maggioranza dei “freudiani” all’interno della democrazia borghese, maggioranza sui cui poggia e specula il capitalismo. Chi vota deve “capire”, chi è votato non può essere qualcuno con “basse qualità intellettuali”. Ritorna qua il parametro del “quoziente d’intelligenza”. A chi pensasse inappropriato e superato un recupero delle osservazioni di Mill oggigiorno, giacché la moderna scolarizzazione avrebbe resi tutti eguali e abili, voglio ricordare un articolo del professor Tullio De Mauro, ministro della pubblica istruzione nel secondo governo Amato del 2000-2001, un preciso articolo datato 6-3-2008 e pubblicato sull’“Internazionale” (numero 734), nel quale l’eminente studioso ha evidenziato aspetti che ho sin qui evocato. All’inizio di questo secolo XXI nella fascia di popolazione italiana di anni da 14 a 65 il 5% è analfabeta; circa uno su tre ha le abilità di un bambino che non ha completato la scuola elementare; quattro italiani su cinque in generale non possiedono una qualità intellettiva all’altezza della realtà dove vivono, la quale li supera rimanendo nebulosa e lontana. Sempre nel suo articolo De Mauro ha lamentato che questi molto preoccupanti dati, emergenti da ricerca, non abbiano ricevuto un’adeguata attenzione da parte del mondo politico né tanto meno un’opportuna sottolineatura mediatica. Qual è il succo concreto di quest’interessante e profondo articolo? L’80 %, più o meno, degli Italiani vive in un proprio mondo di fantasia, impastato di arretratezze conoscitiva, culturale, tecnologica. Si può affidare il destino politico del consorzio in cui sono inseriti a costoro, cioè a persone che non capiscono le dinamiche politiche concrete attuali? Al cospetto di tale quesito propongo di sostituire il criterio dell’età cronologica con quello dell’età mentale effettiva (connesso all’espressione verificata di abilità cognitive e analitiche consone al potere di elettorato attivo e passivo). Questa periodica procedura si può realmente definire: esame di maturità. Al di sotto di un certo QI, secondo me, non si dovrebbe poter accedere alla possibilità di fare “cose complesse” superiori alle proprie attuali capacità, cose inerenti specialmente al bene pubblico e comune. Ovviamente c’è la speranza di migliorarsi, e si potrebbe verificare ogni 5/10 anni il QI individuale per attribuire il diritto di voto. Non penso di aver detto un’assurdità, o qualcosa di inattuabile. Periodicamente si fa il censimento popolare: si faccia il censimento intellettivo. La facoltà universitaria di medicina è a numero chiuso: si faccia similmente del diritto di voto e della politica una “facoltà a numero chiuso” a cui accedere dopo apposito accurato esame. Giudico che la salute dello Stato non sia meno importante della salute biologica. Reputo che se si facesse prezioso tesoro dello spunto offerto dal liberale John Stuart Mill la società potrebbe migliorare. L’ideale rimane che le istituzioni scolastiche e familiari possano essere realmente in grado di formare “persone” e “cittadini” proiettati al grado junghiano della personalità e artefici di un mondo equilibrato in tutti i profili. La meta di “un pezzo di carta” ancorato a una “mira di guadagno”, studiando poco, riflettendo poco, capendo poco del mondo (presente, passato e venturo) non genera gran che di positivo. Una società malata è destinata a crollare su se stessa in balia di sciacalli e avvoltoi di turno. In verità sono conscio che quando propongo di dividere la gente in α­+ (eccellenti) e α (normali) da un lato e β (deficitari) dall’altro possa io apparire distopico o in modo involontario sinistramente evocativo. Ho cercato di evitare queste fuorvianti non volute impressioni, mirando unicamente ad avanzare un’“idea”. Indubbiamente se ci fosse più “pensiero” in giro non ci sarebbe bisogno di idee come questa mia. La mia preoccupazione in relazione al futuro dell’umanità è per l’appunto quella che il mondo possa cadere in una spirale distopica, di cui ho sviluppato un modello storico degenerativo ipotetico3. Per il momento non mi sembra esagerato e fuor di luogo che “minorenne” debba essere considerato chi abbia un quoziente d’intelligenza inferiore al minimo richiesto, e “maggiorenne” (con i diritti della maggiore età) chi stia al di sopra della soglia. La Grecia classica ha trattato assurdamente le donne davanti allo Stato da perpetue minorenni. Di fronte a una tale assurda discriminazione di genere, lenta a scrostarsi, durata nella storia in varie forme, mi permetto di indicare il parametro che a mio modesto avviso è quello che realmente conta: il possesso di base di un “logos” efficiente (e dunque non deficiente) il quale connota il ζῷον πολιτικόν / ζῷον λόγον ἔχων. E simile tipo a me pare, nel mio modello sociopsichico, appartenere in primis agli “junghiani”. Una volta ho definito l’insieme di questi: comunità logica. Se qualcuno pensasse “illiberale” il mio progetto, rammento che nell’Italia “liberal-borghese” post-unitaria ebbero diritto di voto della popolazione 2 su 100 nel 1861-82, 7 su 100 nel 1882-1912, 1 su 4/5 nel 1912-23. Altresì voglio ricordare che il suffragio universale maschile giolittiano partiva dai 30 anni, riducibili a 21 con almeno una delle seguenti condizioni: 1) possesso della licenza elementare, 2) svolgimento del servizio militare, 3) pagamento annuo al fisco regio non inferiore a L 19,80. Nel 1912 il pane costava 38 c. al kg, l’imposta unica sui redditi era dell’8%, un bambino su cinque moriva entro i 5 anni; il proletariato, netta maggioranza popolare, in pratica era estromesso dalla politica. Oggigiorno, dopo il suffragio universale per età cronologica post-bellico (nel 1950 uno su otto degli Italiani era analfabeta), esiste il fenomeno dell’alto tasso dell’astensionismo che coinvolge un elettore su tre, idest un partito italiano fantasma sul 30%. Ciò non rappresenta motivo di encomio della democrazia borghese, la quale silenziosamente ha riacquistato un quid di quell’Italia unitaria liberale prefascista. Esistono ora moltissime persone che non sono motivate a recarsi alle urne: costituisce questo un enorme fallimento sociale non solo educativo. Davanti al quale non è facile replicare, dal mio punto di vista, che distopico, illiberale e antidemocratico sia il mio sistema proposto di suffragio universale per QI, nel momento in cui la realtà concreta si riveste già di tratti negativi significativi. La mia impressione è che nelle democrazie borghesi la politica sia per vari tratti una roba marcia connotata da affarismo e interessi personali (causa prossima), e che la causa remota di tutto quanto sia il far votare un elettorato non interamente qualificato sopra il quale germogliano e crescono rigogliosi i più pesanti problemi, per la cui soluzione, dunque alla radice, ho avanzato una “soluzione platonica”. Io ho riflettuto nel merito allo scopo di miglioramento, e non certo di peggioramento. Ho il dubbio che se per far studiare la gente ci vuole un “obbligo” (il che è un concetto agli antipodi di qualcosa compiuto “liberamente”, “spontaneamente”) forse l’errore stia a monte: non esistono gli obblighi di mangiare o bere. Aristotele direbbe che lo studio nutre l’anima razionale, e non quella vegetativa. Ma il logos è raggiungibile solo dalla prima. Potremmo lasciare liberi tutti quelli che non vogliono studiare ed esercitare il logos di vivere la loro vita come vogliono. Sarebbero in fin dei conti filosofi “cinici”. Con la conseguenza però che costoro finirebbero nel mio gruppo β disconnesso dall’esercizio delle prerogative politiche (nella polis ci vuole il logos: no logos, no polis). Umano è colui che indaga il mondo circostante, i bambini sono filosofi naturali, un peccato sprecare simile predisposizione dentro una società che vanifica le cose serie a beneficio di un’estetica del vuoto divertissement. Allorché tale coltura del niente svanirà non ci sarà più bisogno, secondo me, di dividere la massa in α e β: ci sarà un livello di base interamente di α senza più β. È stato Antonio Gramsci a richiamare in passato l’importanza degli studi umanistico-scientifici a vantaggio della classe proletaria, giacché questi costituiscono, tra l’altro, una palestra per il pensiero. Il quale se non si cimenta con i limiti alti dell’attività mentale non produrrà atleti all’altezza di una società che vuole essere giusta, sana ed equilibrata. Chi possiede scarse qualità di analisi e di sintesi, congiunte a una bassa acculturazione, cadrà sempre in balia di persuasori i quali non sempre sono limpidi e onesti. Tullio De Mauro nel suo articolo ricordato ci ha segnalato una grave lacuna contemporanea nell’adeguatezza intellettuale. Io ho legato tutti i fili della mia analisi nel modo migliore possibile, nella maniera più ordinata volta a rintracciare un’alternativa allo status quo problematico. Mi sono reso conto che la mia bipartizione fra “tipi freudiani” e “tipi junghiani”, introdotta da me in termini psicanalitici, è tutto sommato già operante nella repubblica platonica laddove il grande filosofo ateniese separa i filosofi-governanti e i difensori dalla terza categoria degli operatori produttivi materiali. Platone aveva già compreso quanto io ho spiegato sopra, e che cioè chi è ancorato alle “passioni freudiane” rappresenta un fattore di squilibrio se inserito nel contesto amministrativo della res publica. Al celebre allievo di Socrate non è sfuggita una superiore valenza della libido, la quale lui ha illustrato nel “Simposio”, un dialogo a cui io a tal riguardo ho dedicato un mio precedente studio mostrando le analogie del caso tra il pensiero platonico inerente all’eros e lo sviluppo della libido nella psicologia analitica di Jung4. Platone ha dunque posto quelli che io definisco “tipi junghiani” nelle prime due classi della sua repubblica, concentrando i “freudiani” nella terza. Prima della nascita della moderna psicanalisi non era possibile un ragionamento politico platonico chiarito alla mia maniera psicanalitica. Le conseguenze della mia impostazione investigativa e costruttiva si rivelano molto ricche poiché ci forniscono il modo di capire altresì perché il comunismo storico marxista è fallito nel Novecento. Puntualizzo che, da peronista giustizialista, sono favorevole a una abolizione della grande proprietà privata personale, lasciando solo il possesso esistenziale (il frommiano “avere esistenziale”) di quanto sia essenziale (come ad esempio la casa e quanto ci sta dentro). Sono quindi più vicino a Proudhon che non a Marx nel merito. Detto ciò, proseguo dicendo che il socialismo reale non ha avuto il successo che Marx e i suoi seguaci si aspettavano per il fatto di non avere attuato la mia separazione proposta tra α e β. Nell’amministrazione statale sono stati messi “tipi freudiani” i quali hanno necessariamente fatto naufragare l’esperienza marxista storica. Se in quella classe dirigente comunista si fossero trovati perlopiù “tipi junghiani” le cose ovunque, a mio avviso, sarebbero andate meglio. E ciò è quanto Platone ci aveva fatto intuire nella sua filosofia politica allorché creava categorie di matrice attitudinale. Simile inconveniente, trascurato nell’attuazione del socialismo reale, è stato poi evidenziato dall’idealista Trockij. Una burocrazia, che io definirei “freudiana”, ha preso il potere pratico, interponendosi nell’andare verso la direzione dei più sinceri ideali marxisti di giustizia sociale e di benessere universale. Ovunque permane, nello Stato liberal-borghese o nello Stato socialista marxista, un istintuale latente «bellum omnium contra omnes» nelle menti dei dirigenti non c’è pertanto il trionfo dell’illuministico ideale di liberté égalité fraternité. Nella fattispecie marxista la dittatura del proletariato è stata appunto la via erronea, quella che ha portato i “freudiani” al potere, creando la criticata “tirannia della maggioranza” (Mill e Montesquieu). Tant’è che Lenin ha dovuto correggere un po’ la prospettiva di approccio al potere sostenendo che la borghesia più illuminata avrebbe dovuto collaborare coi comunisti. Lenin aveva intuito qualcosa di platonico, purtroppo è morto precocemente nel 1924 a 53 anni, e non sapremo mai se la sua URSS sarebbe stata migliore di quella di Stalin. Avviandomi alla conclusione della mia analisi voglio fugare due possibili critiche ad hoc. Mi si potrebbe far osservare che io abbia elaborato un modello pseudoscientifico di suprematismo intellettualistico. Il che, nel mio caso, non sarebbe vero. È attualmente scientifica la procedura sanitario-giuridica che verifica le capacità di intendere e di volere di una persona verificandone in pratica l’efficienza intellettiva. Una cosa del genere non è assurda né tanto meno una novità, sarebbe semmai approfonditamente e periodicamente rivolta a tutti, sempre nell’ambito medico consolidato. Non si tratterebbe di qualcosa di razzistico-spiritualistico, ma di una selezione seria e obiettiva rivolta a creare condizioni di miglioramento sociale e non mirante a generare una nuova forma di razzismo. Non è razzistica la distinzione maggiorenni/minorenni, cambierebbe solo il criterio di individuazione: al posto dell’età cronologica il QI. Fugata questa possibile osservazione ne voglio prendere in esame un’altra che parimenti non si è celata alla mia attenzione. Non voglio assolutamente proporre una specie di nuova “lotta di classe”: α contro β. Ho sempre parlato in termini di ricerca di armonia sociale senza voler proporre contrapposizioni. Mi basti ricordare il simbolo del Partido justicialista argentino dove due mani sono strette inter se a indicare collaborazione e non antagonismo. La società allo scopo di crescere e di approdare verso lidi migliori ha bisogno di una pacifica dialettica di idee, da cui emerga quella che appare più utile al bene collettivo integrale. Non abbisogna di scontri di alcuna sorta e di competizioni nelle gare per la vuota esteriorità. Sicuro di quanto ho appena affermato, intendo infine superare dimostrato il vaglio di costituzionalità della mia idea allorché questa si configura in proposta legislativa. Il mio ragionamento non è sovversivo dell’ordine costituito, di cui anzi sono altamente rispettoso. Si tratta di una “riforma”, non di una “rivoluzione”. Partiamo dall’art. 48 della Costituzione italiana: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. […] Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». Procediamo adesso per gradi, incominciando dalla «maggiore età». Io non ho intenzione di sostituire il concetto indicato con saggezza dalla carta costituzionale, poiché appunto è quello giusto. Propongo, mantenendone la forma, di sostituire il criterio della “maggiore età cronologica” con quello della “maggiore età effettiva mentale (QI)”: la Costituzione resterebbe inalterata in quanto si andrebbe ad agire con legge a parte statuente la maggiore età in guisa diversa rispetto a ora. La non assurdità giuridico-costituzionale del mio procedere è ulteriormente ben dimostrata quando ad hoc si proclama: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile». Idest propter impotentiam utendi ratione. È infatti ciò di cui ho parlato io nella mia analisi. In Italia sino alla Legge 13 maggio 1978 n. 180 i soggetti dichiarati mentalmente inabili dal Giudice civile erano privati del diritto di voto. È esistito un dispositivo di legge che imitava il mio disegno. Si tratterebbe di recuperarlo e adeguarlo all’occorrenza da me disegnata. La Costituzione parla pure di esclusione dal voto per «casi di indegnità morale indicati dalla legge». E anche qui è possibile trovare una sponda utile. Chi, volontariamente, e non dunque per cause esterne alla propria volontà (quali ad esempio patologie mediche o disagi), rimanesse in uno stadio mentale arretrato in relazione all’età cronologica in atto per pigrizia negli studi e disinteresse verso il bene comunitario potrebbe essere imputato di questa «indegnità morale» testé evocata. L’art. 48 parla chiaramente, basta soltanto capire cosa ci vuol dire e cosa ci può dire con esattezza. Gli artt. 2-3 della nostra carta costituzionale restano centrali e fondamentali, nonché di sprone: «Art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. / Art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. […]». A tal riguardo è il caso che io faccia delle puntualizzazioni esplicative nella mia ottica. I β over 18 andrebbero equiparati in giudizio agli α a causa della loro accidia. Per i β non ci sarebbe un “carcere minorile” o una particolare “giurisprudenza minorile”. Gli under 18 rimarrebbero “minorenni” per convenzione naturale, chi entra negli α ci rimarrebbe a tempo indeterminato senza nuovi periodici esami (a meno dei casi di incapacità già previsti dalle leggi vigenti che dispongono l’adozione di un tutore). Il computo dell’età degli α, ai fini delle leggi già esistenti, rimarrebbe anche quello tradizionale cronologico (per cui non ci sarebbe nessuno sconvolgimento pratico). Tutti i β over 18 avrebbero un tutore, al pari delle donne nell’antica Grecia. L’art. 2 della Costituzione dove afferma i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» offre un’altra sponda di sostegno alla mia argomentazione. I β risulterebbero responsabili per via della loro voluta inadeguatezza intellettiva di “inadempimento di quei doveri”: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». L’art. 51, parimenti a quelli 2 e 3, resta un faro prezioso inalterato: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. […]». Tutte le mie parole non intendono sovvertire, ma riformare. Ho ragionato in maniera nitida cercando di sondare tutti gli angoli al fine di stare saldamente ancorato nell’alveo della legalità e del buonsenso. Ho dimostrato la ragionevolezza della mia argomentazione in vario modo. Il mio obiettivo analitico è stato quello di fornire uno spunto mirato a migliorare il sistema democratico. La Storia ci ammonisce severamente. Assemblee parlamentari elette a suffragio popolare possono legittimare governi autoritari e antidemocratici. Possono consegnare il potere a governi in grado di instaurare dittature di breve o lunga durata. Dittature le quali possono prendere in ostaggio politico i parlamenti elettivi, nella quale circostanza si rivelano composti da opportunisti e curatori di interessi ridotti e parziali. Viceversa assemblee parlamentari in larga maggioranza sane non aprono le porte a prospettive dannose e illiberali. Da dove simili nefasti regimi? Da elettori squalificati, secondo me. Qualificando l’elettorato attivo, sarà più qualificato qualsiasi parlamento. Un parlamento di superiore selezione nella guisa da me illustrata dovrebbe essere un argine più robusto alle maree speculative e affaristiche. Per quanto mi è dato capire tutto il problema ha la sua radice nel “livello freudiano”. Da simile impostazione la mia soluzione platonica che ricerca il Bene. Il XXI secolo dimostra ulteriormente in virtù della mobilità globale di idee e persone che il vecchio concetto di “razza” sia qualcosa di reazionario, e che radicarsi nelle differenze equivalga a chiudersi al futuro. Esiste de facto una sola razza umana, la cui unica differenza interna deriva dal grado di avvalersi del pensiero razionale. La barriera che può separare proviene dunque dall’incapacità di acquisire conoscenze obiettive delle dinamiche storiche e dello sviluppo degli eventi attuali. L’idea classica e conservatrice di “Patria” appare superata dagli effetti della mobilità globale, e supportarla di contenuti religiosi si rivela un irrazionale progetto di conservazione pseudoculturale, soprattutto quando questi contenuti si rivelano frutti di tempi arretrati nella civiltà. Cultura è apertura all’apprendimento da cui consegue crescita: l’isolamento mentale proviene da nevrosi (o malafede) e conduce a nevrosi, nonché è strumento possibile di condizionamento di soggetti ignoranti. La storia insegna che disegnare confini nazionali costituisce un’operazione accidentale, così come la filosofia mostra che ritagliare limiti mentali si rivela deleterio. La vita è movimento, chiudersi in sepolcri imbiancati non sembra ragionevole. L’obiettivo rimane la pacifica coesistenza globale nel benessere, e le chiusure producono attriti e ostacoli nel processo di  armonizzazione generale. Nessuno migliorerà con lo spirito di contrapposizione militante (nazionale e/o religioso). Nel ’900 i capitalismi nazionalistici produssero un grandissimo conflitto mondiale (1914-1945) combattuto in più fasi (sulla falsariga della guerra del Peloponneso). Sfumare i confini (per abolirli del tutto) diminuisce le tensioni: l’amalgama verso il meglio e l’incontro creano stabilità. A chiusura di tutto questo scritto invito a leggerne un altro, sempre mio, pertinente, dedicato al “Discours sur la servitude volontaire” di Étienne de La Boétie, una analisi che rappresenta più la torta di questa ciliegina, che non la ciliegina su questa torta5.



NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
 
1 Si veda nella mia monografia Filosofie sadiche (2021) la parte intitolata L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard:
 
2 Per approfondimenti indico il mio saggio citato nella precedente nota:
 
3 Vedasi nota 1.