di DANILO CARUSO
In
un passato ormai abbastanza remoto l’accesso dei fanciulli alle istituzioni
scolastiche per ricevere un’educazione socioculturale era qualcosa non alla
portata di tutti: una grandissima parte di popolazione rimaneva in uno stato di
barbarica ignoranza che andava a braccetto con il suo sfruttamento da parte
della borghesia latifondista e imprenditoriale.
I poveri ignoranti sono sempre stati
vittime di chi ne sapeva di più e di chi conseguentemente gestiva il potere
nella società. L’evoluzione dei tempi ha portato all’istruzione obbligatoria
fino a un’età via via più elevata.
Questa
costrizione fu vissuta talvolta come violenza poiché toglieva forza operativa
per il guadagno al nucleo familiare di appartenenza.
Questo
aspetto era unicamente indice di altri squilibri sociali, ma non poteva
impedire l’affermazione del principio per cui un buon cittadino (allora
suddito) dovesse essere qualcuno a cui non mancassero le conoscenze essenziali.
A scuola moltissimi discenti
imparavano ciò che non potevano apprendere nell’ambiente familiare, e a seconda
delle circostanze anche correttivi valori. La recente modernità ha purtroppo
registrato un certo regresso della missione scolastica.
Più
volte è stato denunciato il fatto che gli studenti italiani siano mediamente
tra i meno preparati rispetto ai loro pari europei e come fra di loro non viga
più un senso adeguato di disciplina. Ciò non equivale a fare di tutta l’erba un
fascio, però è innegabile quanto alcuni periodici e alcune trasmissioni
televisive abbiano fatto emergere.
Il latente senso di
disordine che circola nella società sarebbe divenuto il modello da imitare per
quella parte di indisciplinati protagonisti di alcuni noti fenomeni.
Costoro
hanno difficoltà a imparare un criterio dell’ordine che appunto non
distinguerebbero nettamente in giro. I cattivi modelli trovano spazio nelle
classi e diversi insegnanti si trovano a dover arginare le realtà dei soggetti
socialmente non bene adattati. Il ruolo del docente – maestro o professore
(anche universitario) – è giustamente quello di un sacerdote nel tempio del
sapere: per insegnare bene ci vuole una vocazione. Insegnare di mala voglia o
con l’unico obiettivo dello stipendio non gioverebbe né alla scuola né agli
sfortunati discenti.
Molti
degli insegnanti sono diventati educatori grazie a quella conveniente passione
che li porta a trasmettere il sapere. Ma forse d’altro canto c’è qualcuno cui
questo alto compito non interessa, e se ciò si coniugasse con l’indisciplina ne
verrebbe fuori un più mesto ritratto di indesiderabili casi.
Gran
parte della scuola italiana è indubbiamente sana, tuttavia sui fenomeni che la
squalificano si dovrebbe intervenire ancor di più e incisivamente. È stato un
bene aver reintrodotto una forma di esami di riparazione, il voto in condotta e
il giudizio con il voto numerico decimale laddove non c’era.
Attraverso
le brecce costituite dall’elasticità precedente poteva passare ciò che non
doveva passare se non prima meritevole.
Non è di buon auspicio che ragazzi
non completamente formati vengano ammessi, non per causa loro, ai successivi
gradi scolastici inopportunamente perché saranno i cittadini e i professionisti
di domani.
Certo
quasi tutti i professionisti sono qualificati, però per quanto ridotta che sia
la schiera di chi esercita da semincompetente una professione questo non ne
legittima la potenzialmente nociva persistenza.
Da
tutte le scuole, e specialmente dall’università, dovrebbe uscire esclusivamente
gente preparata. Mettendo da parte il discorso dei professionisti, che
cittadini sarebbero anche quelli che hanno ricevuto un’educazione scolastica
limitata all’obbligo? È diffusa l’impressione che a scuola non si impari quanto
si possa veramente imparare. Dove si studia educazione civica? Quale studente
conosce la Costituzione italiana o ha ricevuto nozioni in favore di una sua
spontanea e autonoma crescita politica nell’ottica di formazione del cittadino?
Queste domande non
sono prive di significato perché quando i maggiorenni votano contribuiscono a
dare un indirizzo politico alla società, e che società sarà quella in cui gran
parte dei giovani non capisce da chi e in quale maniera si farà governare?
Neanche la presunta “morte delle ideologie” ha aiutato la gioventù
contemporanea. Quella del ’68 era fortemente politicizzata, ma aveva delle idee
in materia. Nella scuola dell’obbligo dovrebbe apprendersi a capire la politica
e imparare la storia d’Italia nel Novecento per non essere indifferenti al
mondo in cui si vive.
Sconoscere
la storia della propria nazione e il modo di funzionamento delle sue
istituzioni è gravissima mancanza ovunque. John Stuart Mill, uno dei teorici
più autorevoli del liberalismo nell’Ottocento, parlò di tirannia della
maggioranza del popolo non qualificata a scegliere politicamente, e propose per
rimediarvi di dare facoltà di esprimere singolarmente più voti ai soggetti
istruiti in politica.
Ai
nostri giorni, con tanto di riguardo, parrebbe il caso di ribaltare quel
ragionamento di Stuart Mill, e dire che piuttosto di dare ad alcuni la
possibilità di esprimere per esempio 3-4 voti individualmente è meglio fornire
a ognuno l’istruzione di base necessaria che rende eguali in un regime
democratico e mantenere il principio di un voto a persona.
La
scuola italiana non deve certamente ritornare all’epoca della bacchetta, ciò
nonostante deve avere vie chiare: il giusto ordine, migliore selezione. Essa ha
motivi di prestigio nella sua tradizione: le adozioni della bandiera
dell’Unione europea e del tricolore in ogni aula (come similmente negli USA con
la loro bandiera) e di un’uniforme ufficiale per gli studenti (come in
Giappone) non sarebbero provvedimenti di vuota esteriorità ma simboli di uno
status. Tra l’altro la questione dell’abbigliamento scolastico è pure problema
di sostanza di cui ogni tanto si parla: l’uniforme taglierebbe la testa al
toro.
Il
lodevole obiettivo di conseguire “un pezzo di carta” rischia di provocare come
effetto collaterale un livellamento culturale verso il basso a causa
dell’ipotesi che la concessione con manica larga di alcuni titoli non
corrisponderebbe nella realtà a quello che presume.
La storia
testimonia d’altronde che “un pezzo di carta” da solo non è fondamentale nel
creare il sapere. Un esempio canonico italiano: il filosofo e politico
Benedetto Croce non era laureato, eppure era lo stesso che influenzò il
panorama culturale italiano del secondo dopoguerra. La cultura e la scienza
hanno estensioni superiori e a volte non coincidenti con gli edifici di studio.