di DANILO CARUSO
Non si sa con esattezza
quando Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) abbia scritto il “De brevitate vitae”: forse
alla fine degli anni 40 (finito il suo esilio), forse al principio degli anni
60 (dopo aver abbandonato la corte neroniana). Quest’opera senechiana, dove l’autore
si rivolge a Paulinus, un prefetto dell’annona di Roma, riporta la riflessione
del celebre maestro di Nerone sopra un particolare tema dell’esistenza: l’uso
fatto dagli uomini del tempo a loro disposizione. L’autore di tale dialogo
ricorda in apertura di trattazione una lamentela comune a più epoche: la
ritenuta brevità della vita. Però subito ribadisce: «Non è vero che abbiamo poco
tempo: la verità è che ne perdiamo molto. Ci è stata concessa una vita
sufficientemente lunga […]. Dopo che l’abbiamo lasciata trascorrere nel lusso e
nell’ignavia, dopo che non l’abbiamo impegnata in nessuna impresa degna,
quando, alla fine, si presenta la necessità ineluttabile, ci accorgiamo che è
passata senza che ne avvertissimo il trascorrere. […] Uno è prigioniero di un’avarizia
insaziabile, [...] chi è intorpidito dall’inerzia; questo è spossato da un’ambizione
[...], quello si fa condurre [...] dalla frettolosa passione per il
commercio e dalla speranza di guadagno [di tangenze marxiane dirò
meglio più avanti]; c’è anche chi si logora di volontaria schiavitù nell’ingrato ossequio a
chi sta in alto [una laboetiana considerazione1]; [...] i
più non hanno propositi ben definiti e si lasciano sballottare tra l’una e l’altra
decisione della loro irriflessività vagabonda, inconstante e sempre
insoddisfatta; ci sono anche quelli che non scelgono mai una direzione di
marcia, e la morte li sorprende tra gli sbadigli, disfatti dalla noia: insomma,
sono sicuro che è vero quel che disse, a mo’ d’oracolo, il più grande dei
poeti: “È ben piccola la parte di vita che viviamo”. Certo, l’intero
arco della vita non è vita, è tempo [omne spatium non vita sed tempus
est]». Il filosofo stoico romano ha appena colto una verità di fondo di
sempre: tanti presunti umani de facto non vivono, fanno trascorrere i giorni a
guisa di ignari animali da macello allevati in una fattoria. Un tratto di vita
più o meno lungo di per sé non dice niente. Nella nostra era sembra perdersi
pure uno dei valori della società passata il quale attribuiva ad anziani e
adulti un compito di guida e di esempio al cospetto delle nuove generazioni. Un
detto di un non remotissimo passato sottolineava la forza nei giovani e la saggezza nei vecchi. Nel mondo contemporaneo
si avvera la preoccupazione senecana che la somma degli anni si tramuti in un
inutile computo aritmetico. Seneca prosegue la sua argomentazione dicendo: «Ora ho voglia di pigliare uno
dalla folla dei più vecchi: “Vediamo che sei giunto all’età massima per un
uomo: hai cent’anni o qualcosa di più. [...] Cerca di ricordare [...] che cosa
ti risulta realizzato in tanti anni,
[...] quanto ti ha portato via [...] una letizia stolta, una cupidigia avida,
una conversazione leggera, quanto poco t’è rimasto del tuo: ti renderai conto
di morire prematuramente”. Ed il vero motivo, qual è? Voi vivete come se
doveste vivere sempre, non vi si prospetta mai la vostra fragilità, non
considerate quanto tempo è già passato, lo perdete, come se attingeste ad una
scorta completa, abbondante [...]. Voi temete tutto da mortali, ma desiderate
tutto come se foste immortali». Molti seguono lo stile del “Brave New World”:
inconsapevoli vuoti gaudenti sul modello della distopia huxleyana, i quali alla
fine della propria esistenza andranno a schiantarsi contro il muro finale
presentato dall’edonismo. I distopici personaggi del romanzo di Huxley vivono l’intera
esistenza da trentenni grazie ai progressi scientifici di quel futuro. Possiamo
osservare il modo in cui nel “Mondo Nuovo” scompare la visibilità della
saggezza, la quale nella realtà quotidiana aveva simbolo nella vecchiaia2.
Affinché non venga meno siffatto modello comportamentale (archetipo junghiano)
Seneca attua un richiamo: «Il saggio [...] se è l’uomo
della libertà integra ed indistruttibile, se non ha vincoli, è padrone di sé, è
al di sopra di tutti». E boccia il cattivo esempio degli edonisti: «La
corruzione di chi s’è avvilito nella gola o nella libidine è degradante. […] L’arte
di vivere si deve continuare ad impararla durante tutta la vita, anzi, e questo
forse ti stupirà di più, per tutta la vita si deve imparare a morire». L’autore
del “De brevitate vitae” sottolinea delle sfumature, nella sua valorizzazione del
tempo a disposizione di ognuno (il quale dovrebbe essere strumento di crescita
e non di esclusivo pascaliano divertissement) che lo avvicinano, come
anticipato, a Marx. Chiarito che l’anzianità possa svuotarsi del suo peso
pedagogico tradizionale, a causa di pratiche appartenenti alle pagine di decadenza,
all’inizio del cap. VIII abbozza una, non tanto nebulosa, connessione fra la
rilevanza del tempo individuale e il lavoro umano svolto: «Mi
stupisce sempre il vedere gente che chiede ad altri il loro tempo ed i
richiesti accogliere prontamente la domanda; tutti e due guardano al motivo della richiesta di tempo [illud uterque spectat propter quod tempus petitum est:
valore d’uso], nessuno bada al tempo
in quanto tale [ipsum
quidem neuter: valore di scambio]: lo si chiede e lo si dà, come fosse una
cosa di nessun conto [quasi nihil petitur, quasi nihil datur]. Giocano con
il bene più prezioso di tutti, un bene che li inganna, perché non ha corpo
[re omnium pretiosissima
luditur; fallit autem illos, quia res
incorporalis est], non cade sotto gli occhi e perciò è valutato pochissimo, anzi, non gli si dà quasi nessun prezzo
[vilissima aestimatur, immo paene nullum eius pretium est]. Gli uomini accettano
volentieri pensioni e largizioni e, per averle, appaltano la loro fatica, il loro lavoro, la loro attenzione,
ma il tempo nessuno lo conta, lo
impiegano molto alla buona, come se non costasse nulla [annua, congiaria
homines carissime accipiunt et illis aut laborem
aut operam aut diligentiam suam locant: nemo
aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito]». In questo brano
il precettore di Nerone è marxiano. Il sostantivo neutro latino pretium (la cui gamma semantico-concettuale indica: valore, costo, denaro,
paga, ricompensa, premio) ha una radice mercantile in senso lato:
“pret-” = idea di scambio, dello scambiare. L’autore de “Il
capitale” non potrebbe affermare di Seneca l’identica cosa sostenuta a
proposito di Aristotele, giacché Seneca sta tematizzando un tempo-lavoro legato
all’immateriale (senza dubbio non di esplicita natura economica, dato che siamo
in epoca precapitalistica): nelle parole senechiane il nesso tra un’attività
volta a produrre ricchezza-benessere e il suo aspetto di fine da un lato, e il
lavoro operato in un dato periodo nella sua dimensione astratta (gelatinosa)
dall’altro, è evidente. Notiamo che Seneca intuisce cose di un altro ambito,
socioeconomico, di cui non si rende conto. Tuttavia, al contrario del filosofo
greco, non ha i di lui limiti d’analisi, poiché il primo parla da un punto di
vista esistenziale: ciò gli consente di superare il difetto aristotelico sorto
dal legame con una società schiavista (il quale di per sé non consentirebbe una
prospettiva di astrazione analitica in simile materia di esame). Pertanto la
concezione di un lavoro pressoché gratuito, in quanto frutto di costrizione,
non impedisce al filosofo stoico di associare, in una notevolissima intuizione,
il tempo e l’attività umana al di là di soggetti e oggetti specifici, e di
intravedere che è in astratto il lavoro (l’opera generica dell’uomo) ad
avvalorare i prodotti in virtù di una spesa di tempo e di energie manuali e intellettuali. Sia per il
maestro di Nerone che per il filosofo di Treviri tanti individui non sono
concentrati sulla verità, ma rimangono distratti (a
seguito di un movente o di un
altro). La possibile multiforme alienazione trasforma gli uomini in vittime di
un’esistenza più animale che umana: «Quando la vecchiaia li
coglie, hanno mente ancora infantile: vi sono giunti impreparati, disarmati;
nulla è stato previsto. [...] Come una conversazione, una lettura, un pensiero
profondo ingannano il viaggiatore, al punto che s’accorge d’essere arrivato
prima d’aver notato l’approssimarsi della meta, così questo viaggio della vita
[...] non è avvertito dagli occupati, se non quando finisce». Qual è la causa
di questo svuotamento di autentica umanità? Seneca spiega la ragione dello scadere
di costoro in dettaglio: «Per poter loro rinfacciare il loro errore, bisogna
anche istruirli, non basta deplorarli. [...] Non hanno tempo di pensare al
passato e, se il tempo c’è, non trovano nessuna soddisfazione nel ricordare
cose incresciose. [...] Nessuno, se non colui che ha sempre agito sotto censura
propria, la sola infallibile, si volge volentieri al proprio passato; chi ha
bramato molte cose con ambizione, chi ha disprezzato con alterigia, vinto con
prepotenza o insidiato con inganno, rapito con avarizia o profuso con
prodigalità, deve inevitabilmente temere i propri ricordi». Il trascorso che
però tali individui non prendono in considerazione non è solo quello personale,
è altresì un passato più ampio scaturente dallo studio e che guarda a tutto il
versante cronologico alle spalle: la storia e quanto di eccellente in essa è
stato generato. Seneca ha un’altra considerevole intuizione quando sembra
avvicinarsi a un, più o meno confuso, concetto di inconscio collettivo
junghiano. Non si rendeva conto in precedenza di parlare dell’archetipo del vecchio
saggio, né tanto meno qui di seguito sa di parlare di inconscio collettivo
e di archetipi: «Questa parte della nostra vita è ormai intangibile come le cose
consacrate, è sfuggita a tutte le umane contingenze, sottratta al dominio della
sorte, [...] non può essere sconvolta né rubata; il suo possesso è
perpetuo, sicuro». Esseri umani, solo presunti, non patiscono soltanto la
mancanza di un decoroso trascorso personale: sono vacui, avendo spento e
rigettato il logos, della conoscenza dell’umanità tramite la sua storia. Del
loro insignificante insieme, estraneo a una positiva possibilità di cogliere gli
archetipi, resta al massimo un anonimo rammarico: «È prerogativa di una mente
serena e tranquilla il ripercorrere tutte le parti della propria vita; gli
animi degli occupati, come gli animali a giogo, non possono girare il collo per
voltarsi indietro. I loro anni,
perciò, finiscono sotto terra: come non giova a nulla versare nel vaso grandi
quantità di liquido, se non c’è un fondo che lo riceva e conservi, così non
importa la quantità di tempo che viene loro concessa, se non trova dove
depositarsi: filtra attraverso animi sconnessi e sforacchiati». Dedicare una fetta
della propria esistenza al sapere, accanto all’azione, rientra nello statuto
ontologico del genere umano. Chi trascura i compiti essenziali contribuisce all’imbarbarimento
della società. Costui va, vuoto, verso il nulla heideggeriano, il quale, nell’angoscia
descritta da Seneca, lo annichilirà, giacché, non essendosi elevato, grazie al
logos, alla nobiltà umana, passerà inosservato e dimenticato nel cammino dei
secoli. La fuga dei vigliacchi e degli edonisti dal mondo vero, dalle
preoccupazioni, dall’idea della morte, porta rispettivamente in direzione dell’alienazione
e del divertissement (si tratta di quelli che diventeranno Morlock ed Eloi
wellsiani3): «C’è gente la cui vita privata è un essere occupati [...]. Non è il
caso di parlare di vita ritirata, ma di occupazione inattiva. [...] Non
elencherei, per Ercole, tra i momenti di tempo libero, i conviti di costoro
[...]: [...] da tutto questo si ricava nomea di eleganza e sontuosità, ed i
loro mali li accompagnano a tal punto, in ogni angoluzzo della vita, che non
riescono più a mangiare e bere senza ostentazione. [...] So che un tale di
costoro che vivono in delizie (se delizia si può chiamare il disimparar vita ed
abitudini umane), una volta che fu tolto dal bagno e portato a braccia sulla
sedia, chiese: “Sono seduto, adesso?”. Pensi che costui, che non sa se è
seduto, sappia se è vivo, se vede, se è disimpegnato? Non mi sarebbe facile
dire se mi fa più compassione la sua ignoranza o la sua simulazione di ignorare.
In realtà, finiscono per non accorgersi di molte cose, ma di molte altre
fingono di non accorgersi. Certi vizi li dilettano come fossero segni di
felicità [...]. Costui non è un uomo disimpegnato; dagli un altro nome: è un
malato, un morto. È disimpegnato chi è anche cosciente del proprio disimpegno.
Ma codesto mezzo vivo, che ha bisogno di un altro per conoscere la posizione
del proprio corpo, come può essere padrone di un solo attimo di tempo?». Non
poche immagini senecane, di cadaveri ambulanti, regala la realtà, aventi ruolo
di comparse, più che di protagonisti, in esibizioni e processioni nichilistiche.
Seneca rivolge un insegnamento similare a un pensiero di Umberto Eco nel
momento in cui rammenta che, «tra tutti, i soli che
davvero dispongono del loro tempo sono coloro che attendono alla saggezza; sono
i soli che vivono e non si limitano ad amministrare bene i loro anni, ma
aggiungono tutte le età alla loro. Tutti gli anni trascorsi prima che essi
esistessero fanno parte del loro patrimonio. [...] Nessuna epoca ci è vietata,
in tutte ci sentiamo accolti e, se vogliamo uscire mediante la magnanimità
dalle strettoie della caducità umana, abbiamo molto tempo in cui spaziare. Ci è
possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro,
dominare la natura umana con gli stoici, oltrepassarla con i cinici». Lo studio
conduce all’umanità, l’azione conseguente contribuisce alla costruzione di una
società migliore. Chi devia dalla strada maestra esce fuori dei margini di
circoscrizione della natura umana. Alienazione e divertissement non sono accidenti
inseparabili dell’agire, non rappresentano una vita ideale specialmente se il
loro livello di esercizio diventa esclusivo e integrale: soggetti alienati,
divertiti, non costituiscono esempi di successo. Agli occhi di tutti, fatti
salvi il diritto/dovere nei confronti del lavoro che procuri in maniera onesta
un lecito “avere esistenziale (Fromm)”, e il diritto a un sano svago, in
aggiunta al rispetto di sé e del prossimo (famiglia, società, et cetera),
Seneca dice al destinatario del suo discorso: «Sono occupati nel giusto
ossequio coloro che vorranno tenersi ogni giorno in strettissima familiarità
con Zenone, Pitagora, Democrito e con tutti i sacerdoti della scienza, con
Aristotele, con Teofrasto. Nessuno di costoro risponderà che non riceve,
nessuno mancherà di rendere più felice, più amico, il visitatore che congeda,
nessuno lo commiaterà a mani vuote. A costoro, tutti possono far visita, di
notte e di giorno. [...] I geni più insigni hanno formato delle famiglie:
scegli quella cui vuoi associarti. Con l’adozione, non condividerai soltanto il
nome, ma anche i beni, e non dovrai custodirli con avarizia o gelosia, perché
aumenteranno quanto più li distribuirai. Quegli uomini ti avvieranno
all’eternità e ti eleveranno ad una dignità dalla quale non si può essere
deposti. Questo è il solo modo di allungare la tua vita mortale, anzi, di
mutarla in immortalità. [...] La vita del saggio è dunque molto spaziosa; egli
non è prigioniero del limite che racchiude gli altri, è il solo esente dalle
servitù dell’umana schiatta; le età gli sono tutte soggette come sono soggette
a Dio. Un tempo è passato? Lo abbraccia con il ricordo; è presente? Lo utilizza;
è futuro? Lo pregusta. La sua capacità di unificare tutti i tempi gli fa
risultare lunga la vita. La vita più breve e più tormentata è quella di coloro
che dimenticano il passato, trascurano il presente e temono il futuro: quando
giungono alla fine, quei miseri s’accorgono troppo tardi d’essersi impegnati
per tanto tempo a non far nulla. [...] Neppure si può dedurre una loro
longevità dal fatto che spesso le giornate sembrano loro interminabili o che,
mentre attendono l’ora fissata per la cena, si lamentano che il tempo scorre
lento. In realtà, nei pochi casi in cui vengono loro meno le occupazioni, si
arenano nel tempo libero e restano perplessi: non sanno come ordinarlo per
venirne a capo. Perciò puntano su un impegno e risulta loro pesante tutto il
tempo dell’attesa [...]. Qualunque attesa di una cosa desiderata risulta loro
troppo lunga, eppure il tempo che amano è breve, è un istante, esageratamente
accorciato dal danno che essi stessi s’infliggono; in realtà, passano da una
cosa ad un’altra e non riescono a sostare su un solo piacere». A conclusione
del “De brevitate vitae” il suo autore torna a fare cenno di una forma di
alienazione, la quale a posteriori e con uno sguardo particolare potremo di
nuovo ricollegare a un ambito analitico marxiano, sulla cui soglia Seneca si
colloca in maniera inconscia tramite le sue intuizioni di matrice esistenziale.
Egli non vive, come già detto, in una società capitalistica, tuttavia trattando
del tempo e dell’uomo va al nocciolo di cose che matureranno in futuro e che
Marx potrà esplicitare meglio. Afferma il filosofo stoico: «La
condizione di tutti gli occupati è miserevole, ma la più misera è quella di
coloro che non sono impegnati in fatti propri, ma regolano il loro sonno su
quello degli altri, camminano secondo il passo degli altri e provano a comando
amore e odio, i due sentimenti più spontanei di tutti. Costoro, se vogliono
rendersi conto di quanto sia breve la loro vita, pensino quale parte ne
posseggano». Il precettore di Nerone e l’autore de “Il capitale” hanno in
comune una forma mentis semitica (al riguardo di Marx ne ho parlato in un mio
saggio4): Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo era
originario del Vicino Oriente fenicio; Seneca inoltre stette da giovane molti
anni in Egitto; per quanto riguarda Marx, tra l’altro, la sua famiglia era di
origine ebraica. L’attivismo umano operante nel tempo è il minimo comune
denominatore senechiano-marxiano, tenendo naturalmente conto dell’enorme
divario di contesti sociali e culturali che separa i due filosofi.
Ciononostante, per dirla con parole dello scrittore latino: Seneca non ha
soppresso la possibilità, nelle riflessioni di Marx, di una, non so quanto
consapevole, tangenza filosofica attraverso i brani del “De brevitate vitae”
accostati da me all’analisi marxiana ne “Il capitale”. Il brano alla fine del
discorso senecano esaminato mostra un concetto di alienazione distinto dal
divertissement, ed evidenzia la condizione di un uomo subordinato, la quale il
filantropo Seneca non può riferire in modo chiaro e diretto al lavoratore. La schiavitù
era allora giudicata lecita, e ciò gli impediva una scientificità marxiana,
sebbene egli ne parli con spirito critico (ma di stampo morale): nella
concezione stoica senechiana un individuo libero può essere schiavo (a causa
delle passioni, ad esempio), mentre un servo può essere libero (mediante la sua
interiorità, in virtù della nobiltà della sua anima). L’idea di un vampirismo,
di una cronofagia, accomuna lo scrittore latino e Marx: vampiri
antichi o vampiri moderni, comunque vampiri che sottraggono tempo agli
individui sono posti in risalto da loro nelle rispettive trattazioni. Entrambi osservano
l’essere umano, di cui studiano l’azione, sotto il profilo della temporalità.
Note
1 Riguardo al “Discours sur
la servitude volontaire” invito a leggere un mio scritto
2 Su “Brave New World” esiste
una mia monografia
3 Circa la dicotomia
Eloi/Morlock, nel contesto di “The time machine”, suggerisco la lettura di un
mio lavoro
4 “Critica
dell’irrazionalismo occidentale”
I
brani del “De brevitate vitae” nella versione tradotta sono stati tratti da
“SENECA / TUTTE LE OPERE”, testo pubblicato dalla Bompiani nel 2000.
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria