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mercoledì 24 luglio 2013

SIMONE WEIL

FILANTROPIA E FEDE DI UNA FILOSOFA

di DANILO CARUSO

Simone Weil ebbe la ventura da viva di essere quasi unicamente conosciuta per i tratti caratteriali della sua ferma coerenza di principi pratici. La sua profonda e significativa figura è salita alla ribalta per le opere a partire dal secondo dopoguerra. Nacque da una famiglia benestante di origine ebrea il 3 febbraio 1909 a Parigi (ebbe un fratello affermato matematico). Già all’epoca del liceo mostrò un’inclinazione alla ricerca filosofica. Studiò all’École normale supérieure: fu allieva dei filosofi Emile Chartier (Alain) e René Le Senne; dopo la laurea insegnò filosofia alle scuole superiori femminili (1931-38). Per via del suo impegno in dimostrazioni antitotalitarie fu sottoposta a spostamento di cattedra. Come insegnante si mostrò aperta alle esigenze delle studentesse, lavorando gratuitamente più del dovuto e rimettendoci del proprio. Riguardo a un efficace apprendimento teorizzò i primati della disinteressata-attenzione-verso-l’oggetto-di-studio e del piacere-della-conoscenza. Le basi della sua analisi filosofica si impiantano nella cornice di uno spiritualismo che dava risalto al concetto di “volontà” (effort, sforzo). Il suo pensiero attraversò due momenti di sviluppo: il primo, che risentiva del clima storico della Rivoluzione bolscevica, fu caratterizzato più da interessi politico-sociali, quello successivo fu connotato da un’impronta mistico-religiosa. La sua matrice politica iniziale fu di sinistra radicale (ospiterà Trotzkij profugo, e non prenderà mai la tessera di alcun partito). Riallacciandosi fortemente all’insieme sociale di provenienza cercò di mettere in atto le sue idee con la personale condotta, trascurando la pubblicazione di opere in vita (diede alle stampe degli articoli, firmandosi con uno pseudonimo, e poche poesie; tutto il corpus weiliano sarà pubblicato postumo). Il suo spirito di carità la portò a lasciare temporaneamente la carriera d’insegnante, sollecitata dalla sua volontà di condividere la vita proletaria operaia, e così nel ’34 entrò in uno stabilimento Renault, abbandonato l’anno successivo, dopo otto mesi, a causa di una pleurite (fece la fresatrice): in quel periodo devolse il grosso dei suoi guadagni ai disoccupati. Da quell’esperienza prese forma il saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione”. Secondo l’autrice nel sistema capitalista l’origine delle sperequazioni sta più al di là della questione della proprietà: sta nella dicotomia “lavoro intellettuale / lavoro manuale”. «Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante ed angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte». L’aspetto settoriale della produzione provoca l’asservimento a questo tipo d’organizzazione e fa smarrire all’uomo la sua specifica dimensione complessiva nel frazionamento specialistico. Benché secondo lei non sia possibile raggiungere un’assoluta liberazione, l’ideale della libertà è il termine cui tendere asintoticamente: l’inconsapevolezza individuale e l’appiattimento generale, che maturano in seguito alla presenza di poderosi apparati produttivi anche in quelle società in cui è intervenuta una modificazione rivoluzionaria, possono essere contrastati dall’intento di riavvicinare e combinare le mansioni creative e quelle di attuazione, e contemporaneamente ponendo il ruolo del lavoro alla base del vivere umano. Elementi di questa analisi hanno anticipato contenuti del sindacalismo unitario della Repubblica sociale italiana e del pensiero di Herbert Marcuse (“L’uomo a una dimensione”). L’essere umano vive una scissione interiore in cui i lati spirituali e intellettuali sono alienati provocando disagio. La Weil sottolinea la soggettività dell’uomo, che deve essere rivitalizzata di fronte al suo stato passivo funzionale; perciò ella rivolse anche delle obiezioni ai gruppi marxisti, patrocinatori di una rivoluzione inautentica e di uno Stato antidemocratico, e a chi ambiva a un cambiamento non preceduto da un intenso impegno pratico a migliorare le cose. Pur essendo pacifista prese parte nel ’36 alla guerra civile spagnola al servizio dell’anarchica Colonna Durruti (rimasta ustionata a un piede dovette far ritorno in patria). La svolta in direzione di un interesse mistico-esistenziale risale al ’37, quando allargò l’orizzonte del suo pensiero alla fede nel Cristianesimo cattolico: non è sufficiente la sola volontà umana a risanare la frattura tra realtà concreta e realtà ideale, la passione di Cristo ricompone tutto. Ella però sino alla fine mantenne una prospettiva speculativa di apertura universalistica verso le altre religioni, non escluse dal contatto della Grazia, e rifiutò l’idea del battesimo, e di entrare nel corpo della Chiesa, che accusava di essere stata nei secoli un sistema di potere totalitario e persecutorio, che nella sua rigida circoscrizione lascia fuori della prospettiva della salvezza una considerevole parte di storia e di umanità. «Il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù». Nella visione omerica della guerra (“L’Iliade o il poema della forza”, manoscritto del ’39) la filosofa francese rileva un sentimento di equanimità nei confronti dei contendenti, sentimento che attribuisce all’intera Grecità. Questa società antica al cospetto della pulsione distruttiva, generatrice di lutti e rovine, replicava con le eccellenze dell’animo (le virtù). Simone Weil ricollega, tramite il comune spirito di pietà davanti alla sorte umana, tale schema al Cristianesimo, in cui la subordinazione alla forza, che sfugge al controllo dell’uomo, è combattuta dall’azione della Grazia. L’umanità è stata e rimane indistintamente vittima della violenza, tuttavia peggiore è l’infelicità causata dalla percezione del necessario allontanamento di Dio dal creato per dargli spazio di vita in quanto diverso da Lui. «Dio crea se stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se stesso. Quest’amore, quest’amicizia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della creazione, dell’incarnazione e della passione, è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio». In un’ottica impregnata dall’eretico rifiuto cataro della realtà materiale, la scoperta dell’apparente insignificanza della storia, carica dei suoi mali, può disorientare l’uomo, tuttavia in essa egli può trovare il luogo per procedere al disallontanamento dal divino, quella decreazione (presentante suggestioni eckhartiane, e induistiche da “Il canto del beato”) in cui l’io si annichilisce a vantaggio dell’ingresso di Dio: amarLo e ritornare a Lui sono gli scopi del progetto creativo divino, «essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto». Poiché Dio si manifesta nell’ordine naturale, la natura da cui trae ispirazione l’arte può essere veicolo di moralità nella testimonianza che la presenza del bello dà a favore dell’attuabilità dell’ideale. La Weil individuò il fondatore del pensiero mistico in Occidente in Platone (“Dio in Platone” del ’40) giudicandolo un precursore di punti che saranno poi della teologia cristiana: il rapporto tra Dio e l’amore, e il suo intervento salvifico, per mezzo della Grazia, nella storia dell’uomo (che si aggiunge alle virtù). Scoppiata la seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca della Francia, lasciò Parigi e si trasferì a Marsiglia: a causa della legislazione razziale della Repubblica di Vichy non poté insegnare nelle scuole. Lavorò alla raccolta dell’uva. Presa ripetutamente di mira dalle forze dell’ordine subì vari interrogatori ma non l’arresto. Nel ’42 con i familiari si trasferì negli USA, per poi prontamente ritornare in Inghilterra, spinta dal suo desiderio di opporsi alle ideologie totalitarie. Operò nel comitato “France libre”. Morì per le complicazioni di una tubercolosi il 24 agosto 1943 ad Ashford dopo un’esistenza di autentica partecipazione al disagio (soffriva di mal di testa e praticava digiuni per solidarietà). Altre opere di Simone Weil: “Cinque lettere a uno studente”, “I catari e la civiltà mediterranea”, “Il chicco di melagrana”, “Israele e i Gentili”, “L’amicizia pura”, “L’amore di Dio”, “L’attesa di Dio”, “L’ombra e la grazia”, “La condizione operaia”, “La conoscenza soprannaturale”, “La fonte greca”, “La Grecia e le intuizioni precristiane”, “La prima radice”, “Lettera a un religioso”, “Lezioni di filosofia”, “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, “Oppressione e libertà”, “Pensieri disordinati sull’amore di Dio”, “Primi scritti filosofici”, “Professione di fede”, “Progetto di una formazione di infermiere di prima linea”, “Quaderni”, “Sul colonialismo”, “Sulla scienza”, “Venezia salvata”.
L’epistola indirizzata nel novembre del 1942 da Simone Weil a Padre Couturier è una delle ultime testimonianze del suo genio intellettuale e mistico, nella quale lei scandisce, quasi fosse un manifesto, l’articolazione programmatica della propria teologia (edificata sopra un sentimento di fede che la condusse a costruire un ideale di natura universale). La filosofa francese nella sua ricerca scelse un’ottica differente da quella di uno storico: lei proiettò lo schema del cristianesimo all’indietro, la ragione a spiegare le radici, laddove uno studioso che guarda gli eventi nel loro sedimentarsi in un percorso di cause ed effetti avrebbe soprattutto rilevato – come anche la Weil in fin dei conti non mancò di fare – ciò che di quel passato si impresse sul Cristianesimo. Questa duplice, e non antitetica , possibilità di lettura dei fenomeni storici in campo mette capo a una seria e difficile riflessione critica del rapporto tra Simone Weil e il suo modo di fare i conti con la storia. La sua lettera apre le porte a lunghi spunti. In una parte della sezione 34 la Weil tocca, nel suo excursus di argomenti da riscoprire più veracemente a una rilettura oculata, il tema del “Logos (Verbo)”, su cui è incentrato il prologo del Vangelo non sinottico di Giovanni. Fa un’osservazione raffinata e pertinente che lascia purtroppo senza approfondimento riconducendola a un mistero di comprensibilità di tutto il brano. Stupisce, appunto, ed è cosa non da poco per il modo in cui lei presenta questo guadagno concettuale, da un lato leggere come avesse compreso il ruolo di intermediario tra Dio e gli uomini del Logos (cosa a cui accenna nel punto 7, brano di seguito riportato), e dall’altro notare il fatto che nell’intera lettera, e in questo passaggio in particolare, non faccia menzione della filosofia di Filone Alessandrino (il Platone ebreo, che questo dato affermò in modo esplicito nel suo pensiero che mediava e fondeva Ebraismo e conoscenze filosofiche greche): «Numerose parole del Cristo riferite dai Vangeli (soprattutto da san Giovanni) presentano, con una insistenza così accen­tuata che non può non essere intenzionale, la forma algebrica della media proporziona­le. Per esempio: “Come il Padre mio ha in­viato me, così io invio voi...”. II rapporto che unisce il Padre al Cristo è lo stesso che unisce il Cristo ai discepoli. II Cristo è media proporzionale tra Dio e i santi; lo indica il termine stesso: mediazione. Sono pertanto giunta alla conclusione che come il Cristo si è riconosciuto nel Messia dei Salmi, nel Giusto sofferente di Isaia, nel serpente di bronzo del Genesi, ugualmente si è riconosciuto nella media proporzionale della geometria greca, che diventa così la più clamorosa delle profezie.». La successiva considerazione weiliana, sempre nella sezione epistolare 34, è relativa a una diversa resa di Gv 1,9, versetto così volto secondo la Vulgata da lei contestata: «La vera luce, che illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo ( Ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν, ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον, ἐρχόμενον εἰς τὸν κόσμον. La sua diversa traduzione può incontrare migliore accoglimento: è lecito riferire il participio ἐρχόμενον al precedente termine ἄνθρωπον (accusativo maschile singolare, cui può essere o meno separato da virgola) e non necessariamente a φῶς (nominativo neutro singolare). Quindi la resa (quella proposta dall’autrice dell’epistola) sarebbe: «Era la vera luce che illumina ogni uomo che viene al mondo». Con questo meccanismo di concordanze si deduce che ciascun essere umano nasca con una scintilla di Logos incorporata. Ma pure collegando ἐρχόμενον a φῶς tal senso non muterebbe in virtù di quanto affermato in 1,4: «In lui [Logos] era la vita, e la vita era la luce degli uomini». La «luce» precede gli uomini che vengono al mondo e li illumina alla loro nascita, perciò, anche a voler tradurre in modo diverso dalla Weil il v. 9, il significato pare sempre quello intravisto da lei. Del resto a testimonianza del fatto che questo prologo evangelico è permeato di teologia filoniana, lo stesso Filone, in merito a questa lettura weiliana, sostiene che «l’invisibile divinità ha impresso nell’anima invisibile il sigillo di sé medesima, cosicché la stessa regione terrestre non rimanesse senza un’immagine di Dio» e che «ogni uomo per intelligenza è parente del Verbo divino, essendo impronta o particella e raggio della natura beata». Per inciso va detto che Filone era di forma mentis un po’ weiliana poiché vedeva sparse nella cultura filosofica greca verità concesse da Dio che meglio si rivelava nelle scritture sacre giudaiche.  L’idea del Logos come compare all’esordio del vangelo giovanneo (vv. 1-3) riecheggia la riflessione filoniana. Filone a sua volta si richiamava al lógos spermatikós degli stoici: nel Logos divino è la ragione seminale (e dunque altresì strumentale) di tutte le cose create, le quali senza di Lui non possono concretizzarsi nella realtà né tanto meno avere un sostegno a fondamento del loro essere. Nel “De opificio mundi” è spiegato come il Verbo sia un cosmo noetico di stampo platonico. La problematica del Logos nel vangelo non sinottico è tutta filoniana. Egli vede in Dio infatti l’Essere supremo ed esclusivo (che denomina Padre), il quale crea l’universo e i suoi singoli enti (in questa veste definito propriamente Dio, θεός = Elohiym), enti che vengono sorretti nell’esistenza da Lui (stavolta in quest’altra prospettiva, o potenza, definito Signore, κύριός = Yahwèh) per mezzo delle sue ragioni noetiche contenute nel Logos divino. Filone considera Dio, accanto a queste due potenze (Padre; Dio, che sta alla sua destra; Signore, che sta alla sua sinistra), uno e trino nelle sfaccettature. Questo tema dell’unità e trinità divina è d’altronde toccato dalla Weil nel punto 12 della lettera. La sua dicotomia “personalità/impersonalità” di Dio presenta spunti di tangenza con l’ottica filoniana. Però in tale confronto i valori si ribaltano: mentre per Filone l’uomo ha l’obiettivo di superare nel suo itinerarium mentis in Deum il divenire nella sua pluralità, e dunque gli aspetti delle sue due principali potenze, per arrivare a Lui come Essere unitario (e non trinitario, a suo avviso oggetto di un’attenzione inferiore), la filosofa francese pone l’accento non sul dato semplice della singola personalità divina, bensì sul suo carattere impersonale che si mostra attraverso gli effetti delle potenze tratteggiate da Filone, modi di operare verso cui l’uomo si relaziona in varia maniera. È così possibile, a parere di Simone Weil, incontrare Dio senza accorgersene, essere di convinzione atea, ma santi de facto: «Non si può pensare Dio allo stesso tempo, e non successivamente, come tre e uno (cosa a cui pochi cattolici arrivano) se non pensan­dolo insieme come personale e impersona­le. Altrimenti ci si rappresenta ora una sola Persona divina, ora tre Dei. […] Anime meno progredite rivolgono la loro attenzio­ne e la loro fede soprattutto – o esclusivamente – a uno di questi due aspetti. […] Poiché in Occidente la parola Dio, nel suo significato corrente, designa una Persona, quegli uomini nei quali l’attenzione, la fede e l’amore si applicano quasi esclusivamente all’aspetto impersonale di Dio possono cre­dersi e dirsi atei, sebbene l’amore sopranna­turale abiti nella loro anima. Costoro sono sicuramente salvati. Li si riconosce dal loro atteggiamento verso le cose di quaggiù. Quelli che posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’ac­cettazione dell’ordine del mondo, compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in appa­renza atei. Coloro che posseggono perfettamente que­ste due virtù, anche se vivono e muoiono atei, sono santi. Quando si incontrano uomini siffatti, è inu­tile volerli convertire. Essi sono pienamen­te convertiti, sebbene non in modo visibile; sono stati generati di nuovo a partire dall’acqua e dallo spirito, anche se non sono mai stati battezzati; hanno mangiato il pane della vita, anche se non si sono mai comuni­cati». Sia chiaro che in Filone quelle due da lui definite potenze rappresentano una dinamica interiore di Dio, mentre il Logos (come cosmo noetico) risulta frutto di una processione che getta le basi dell’universo, qualcosa in Lui sostanzialmente più separabile che non si dà al confronto con le sue attività del creare e del conservare il tutto. Nei primi versi del vangelo di Giovanni (vv. 1-3) si va in direzione di una sovrapposizione della figura del Verbo e delle due suddette potenze: «Nel principio era il Verbo, il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. Esso era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lui; e senza di lui neppure una delle cose fatte è stata fatta. (Εν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος. Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. Πάντα δι᾽ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἓν ὃ γέγονεν.)». Infatti l’apostolo Tommaso, scettico, dopo aver visto Gesù – Verbo incarnato – risorto gli esclamerà (Gv 20,28): «Mio Signore e mio Dio! (Ὁ κύριός μου καὶ ὁ θεός μου.)», ossia con valenza teologica: «Reggitore di me e Creatore di me!». La funzione della reggenza sarà attribuita dalla teologia cristiana alla terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, ipostasi corrispondente alla seconda potenza filoniana, della quale nel Credo cattolico si dice che «è Signore e dà la vita». La Weil che sosteneva, e non solo, la presenza di prefigurazioni di verità teologiche all’interno del sistema culturale greco, nella sezione 7 dell’epistola, riscopre argomenti di quello stoicismo che fu radice, assieme al platonismo, del ripensamento filoniano alla luce della cultura filosofica greca, argomenti che si riallacciano al filo dell’analisi: «In Eraclito c’è una Trinità, che si può solo intuire attraverso i suoi frammenti giunti fi­no a noi, ma che appare chiaramente nell’Inno a Zeus di Cleante, d’ispirazione eracli­tea. Le Persone sono: Zeus, il Logos e il Fuoco divino o Folgore. Cleante dice a Zeus: “Questo universo… ac­consente al tuo dominio (ἑκὼν κρατεῖται) / Tale è la virtù del servitore che lo tieni sotto le tue invincibili mani / Di fuoco, dal dop­pio taglio, eterno vivente, la folgore”. La folgore non è uno strumento di costrizione, è un fuoco che suscita il consenso e l’obbedienza volontaria. È dunque l’Amore. E que­sto Amore è un servitore, un eterno vivente, dunque una Persona. Forse le antichissime rappresentazioni di Zeus con un’ascia dal doppio taglio (simbolo della folgore), nei bassorilievi cretesi, avevano questo si­gnificato. Si accosti “dal doppio taglio” alle parole del Cristo: “Non sono venuto a porta­re la pace, ma la spada”. Nel Nuovo Testamento, il Fuoco è costante­mente il simbolo dello Spirito Santo. Gli Stoici, eredi di Eraclito, chiamavano pneuma il fuoco la cui energia sostiene l’ordi­ne del mondo. Pneuma è un soffio igneo. […] San Giovanni, servendosi dei termini Logos e Pneuma, indica la profonda affinità che lega lo stoicismo greco (che va distinto da quello di Catone e di Bruto!) al cristianesimo. Anche Platone conosceva chiaramente – vi allude nelle sue opere – i dogmi della Trini­tà, della Mediazione, dell’Incarnazione, della Passione, e le nozioni di grazia e di salvez­za mediante l’amore. Egli ha conosciuto la verità essenziale, cioè che Dio è il Bene». E in più nel punto 34 aggiunge: «Nell’insegnamento del Cristo doveva esserci la nozione di una certa virtù di indifferenza, simile a quanto si può trovare nello stoicismo greco e nel pensiero indù». La weiliana «accettazione dell’ordine del mondo» corrisponde a un tipico atteggiamento stoico. Questo tipo di adeguamento alle cose compare altresì rivisitato in Filone, per il quale la realtà si dispiega in base al suo copione contenuto nel Logos, nel migliore dei modi, su un registro di predestinazione che apre alla libertà individuale allorché l’uomo accoglie consapevolmente il suo destino incastonato nella più grande vicenda dell’universo volto al Bene Supremo: mete che nell’essere umano sono quelle dell’apertura a Dio e dell’ottenimento della fede. Simili obiettivi la Weil pone per l’uomo in ambito religioso, con la differenza che lei non attribuisce a un disegno divino la controversa presenza del male nel mondo, circoscrivendolo a un circuito di cause non riconducibile a Dio. Queste sue parole della sezione epistolare 25 (in cui lei sostiene l’invalidità del potere di testimonianza dei miracoli nei confronti delle religioni) rievocano il suo ideale di fede: «E se l’Evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta. Per me la prova, la cosa veramente miracolosa, è la perfetta bellezza dei racconti della Passione, insieme ad alcune parole folgoranti di Isaia: “Ingiuriato, maltrattato, non aprì la sua bocca”, e di san Paolo: “Non ha con­siderato l’uguaglianza con Dio come un bot­tino... Egli si è svuotato... Si è fatto obbe­diente sino alla morte, e alla morte di cro­ce...”, “È stato fatto maledizione”. È questo che mi costringe a credere. Senza l’anatema lanciato da un concilio, l’indifferenza nei riguardi dei miracoli non mi sarebbe di alcun ostacolo, dal momento che la Croce produce su di me lo stesso ef­fetto che su altri la resurrezione. D’altra parte, se la Chiesa non mette a punto una dottrina soddisfacente riguardo ai fatti ritenuti miracolosi, per colpa sua molte anime si perderanno a causa dell’apparente incompatibilità tra la religione e la scienza. E molte altre si perderanno perché, creden­do che Dio intervenga spesso nel tessuto delle cause seconde per produrre fatti partico­lari con una intenzione particolare, gli imputeranno la responsabilità di tutte le atro­cità in cui Egli non interviene». Perché Simone Weil non cita Filone d’Alessandria rivolgendosi a Padre Couturier? Il sistema filoniano è una summa operante all’interno dell’Ebraismo, summa che ricapitola nozioni già note e rielabora quelle conoscenze in vista di una preservazione del Giudaismo nel contesto politico romano. L’assetto teologico weiliano esclude dalla dimensione dell’autenticità di fede gran parte della religiosità ebraica a causa del suo nazionalismo e della sua lontananza dai valori evangelici neotestamentari (vedasi nei punti epistolari 1, 18, 31, 35) da lei rilevati altrove, in ambienti precristiani e non cristiani (leggasi nelle sezioni 7, 11, 13, 22, 29, 35). Ciò non rappresenta assolutamente una forma di antisemitismo, si tratta solo di una considerazione storico-filosofica che accomuna Israele a Roma nella ricerca di un’affermazione costruita con la forza (a tal riguardo nei punti 18 e 35). Pertanto, agli occhi dell’antinazista filosofa francese di famiglia ebraica, le eclettiche posizioni filoplatoniche e filostoiche del giudaismo alessandrino – nel cui seno era stata prodotta la versione dei Settanta del Tanak – apparivano un insincero ripiego di tornaconto che mancava l’appuntamento, con gran parte del popolo giudaico, di fronte alla novità del Cristianesimo. Se pensiamo a una sorprendente e anticipatrice definizione del Verbo divino data da Filone («figlio primogenito del padre increato», con una terminologia ripresa dal “Timeo” platonico, dove vien detto padre l’artefice di qualcosa, madre la sostanza per produrre e figlio il prodotto) non si rivelano di circostanza o casuali le parole weiliane della chiusura a Padre Couturier: «Come cambierebbe la nostra vita se si vedesse che la geometria greca e la fede cristiana sono scaturite dalla stessa fonte!». Rimane tuttavia un quesito senza risposta: come si sarebbe evoluto il pensiero teologico di Simone Weil dopo i ritrovamenti di Qumran, fatti pochissimi anni dopo la sua prematura scomparsa? In “Israele e i gentili” la Weil espone una serie di osservazioni riguardanti differenze tra la religiosità giudaica antica e quella pagana a essa contemporanea, mettendo in risalto il fatto che, a suo avviso, i Giudei avessero trascurato il principale aspetto di Dio, e cioè il suo essere “il Bene”. Lei fa notare che nell’Antico Testamento è quasi del tutto assente la dimensione della carità (assenza che va a vantaggio di un sistema repressivo), e che Mosè, istitutore della nazione ebraica (alla quale occorrevano basi materiali più che spirituali) e Platone avessero avuto in comune un sostrato culturale egiziano: «Mosè comprende che Dio impone dei comandamenti d’ordine morale. La qual cosa non ci stupisce, dato che egli era stato “istruito nella saggezza egiziana”. Egli ha definito Dio come l’Essere. I primi cristiani hanno cercato di spiegare l’affinità, su questo punto, fra l’insegnamento mosaico e quello di Platone, sostenendo che il primo ha esercitato un’influenza sul secondo attraverso la mediazione della cultura egiziana. Nessuno oggi sostiene questa interpretazione, tuttavia nessun’altra per ora si è sostituita ad essa. Ma la vera spiegazione è evidente: Platone e Mosè furono ambedue “istruiti nella saggezza egiziana”; se non proprio Platone, sicuramente Pitagora. D’altronde Erodoto sostiene che tutto il pensiero religioso degli Elleni ha le sue origini nelle dottrine religiose degli Egiziani, portate in Grecia da Fenici e Pelasgi». Il Dio giudaico, per Simone Weil, è espressione di un carattere di forza militare che nessun’altra divinità suprema dei gentili ha: tale preferenza nella visione teologica ebrea fece trascurare la piena identificazione divina con “il Bene”, e di conseguenza impedì l’emersione della bontà evangelica. Tratto, quest’ultimo, che, per esempio, invece lei rilevava attivo nella religione egizia allorché essa ispirava a non fare il male. «Gli Ebrei sono sempre oscillati fra la concezione di Jahvè come un dio nazionale fra gli altri dèi nazionali, appartenenti ad altre nazioni, e di Jahvè come Dio dell’universo. La confusione fra le due concezioni implicava la promessa di quel dominio del mondo al quale ogni popolo aspira. […] Jahvè appare in quel periodo della storia come un Dio nazionale ebreo più potente degli dèi egiziani: egli non chiede al faraone di adorarlo, ma solo di lasciar liberi gli Ebrei di farlo». Diversi nel pensiero weiliano sono i contenuti richiamati per segnalare intuizioni precrisitiane: l’immagine di “Zeus supplice”, di Dio che si immedesima nel bisognoso, accostata al Cristo evangelico; i simboli neotestamentari del grano e della vite culminazione di motivi già esistenti nella mitologia classica; Prometeo paragonato a Cristo, etc. La Weil ricorda, tra l’altro, l’egiziano “Libro dei morti” in cui al fine della salvazione eterna si indicava un’opportuna predisposizione dell’anima durante la ricerca di Dio, il quale dal canto suo si mostrava dispensatore di Grazia. Nella tradizione pagana in Egitto veniva raccontata altresì una rivelazione divina sotto forma di agnello sgozzato (v. Apocalisse 13,8). La filosofa rammenta, in aggiunta al caso di Osiride, che il tema della passione divina fosse conosciuto in ambiti misteriosofici mediterraneo-orientali. Le tangenze fra Ebraismo/Cristianesimo, filosofia greca e dottrine egizie sono indicate con chiarezza da Simone Weil. 


Bibliografia dei brani weiliani tradotti 

Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1983
L'amore di Dio, traduzione di G. Bissaca e A. Cattabiani, Borla, Torino 1968
L'ombra e la grazia, traduzione di F. Fortini, Bompiani, Milano 2002
Lettera a un religioso, Adelphi, 1996
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