di
DANILO CARUSO
Hermann
Hesse (1877-1962) è stato uno scrittore molto profondo. I suoi elaborati recano
l’impronta di un duro travaglio spirituale, il quale lo condusse a essere un
paziente di Carl Gustav Jung (e in precedenza di un seguace di costui).
L’irrequietezza fu per lo scrittore una fonte da cui trarre ispirazione nella
redazione di romanzi divenuti celeberrimi. “Siddhartha” (uscito nel ’22) è uno
dei suoi capolavori letterari che possiede una forte struttura logico-narrativa
junghiana1. L’omonimo protagonista vi compie un iter ascrivibile a
un sistema concettuale legato alla psicologia analitica oltre che a schemi
filosofico-religiosi informanti parallelamente, ma con tono sostanziale
subordinato, l’esposizione. In partenza Siddhartha, figlio di un bramino, è una
persona dotata di un’indole caratteriale, in termini junghiani, logico-percettiva.
Nel testo egli è animato da un desiderio di ricerca razionale rivolto
all’Universo, e nell’ambito della cultura indiana che fa da omogenea cornice allo
schema junghiano, il giovane vuol raggiungere l’“atman”. Si può paragonare
questo all’Io penso kantiano, poiché costituisce il fondamento della coscienza
individuale, quel “sé” termine del riferimento della percezione personale.
Perciò sta alla base di una rappresentazione del mondo. L’atman sarebbe un
elemento posto a subire una trasmigrazione nel ciclo vitale di nascita e morte,
una catena di reincarnazioni in relazione alla quale i mistici indiani hanno
cercato di trovare una via di fuga. Mosso dal desiderio di raggiungere la
liberazione dalle passioni e dalla brama prospettata dal “nirvana”, Siddhartha
e il suo fraterno amico Govinda si aggregano a un gruppo di asceti mendicanti
nella speranza che le pratiche di rigore da costoro praticate possano insegnare
il percorso mirante a sfuggire al principio che regola le rinascite dell’atman
(samsara). Il logico-percettivo Siddhartha si rende conto che nonostante tutte
le mortificazione del “sé” personale, questo rimane sempre là. A livello di
psicanalisi esso è infatti paragonabile al complesso dell’Io. Il protagonista
del romanzo, che è un alter ego di Hesse (il quale nel 1911 si recò in India,
parimenti al filosofo Pirrone di Elide all’epoca di Alessandro Magno, e assorbì
la cultura religiosa indiana), si propone, rimasto deluso dall’esperienza con i
samana, di trovare altrimenti la meta della propria ricerca, la quale in parole
junghiane è possibile indicare nell’“individuazione”: l’assunzione di un
armonico stato dell’Io col mondo, visto come negativo schermo ingannatore dalla
religiosità indiana, scenario dell’esistenza (potenzialmente positivo) nella
psicologia analitica. Dall’incontro col Buddha, Siddhartha e Govinda traggono
lo spunto volto a operare la modificazione della propria personalità.
Quest’ultimo personaggio, da logico-percettivo che era come il primo, diventa
logico-intuitivo; l’altro si volge invece, nella sua insoddisfazione in sentimentale-percettivo,
aprendosi a future esperienze svincolate da preliminari e astratti perimetri di
sicurezza dettati perlopiù a priori sui fedeli di una tradizione antimondana. Siddhartha
scopre il mondo-della-vita, dove è innestata la sua esistenza, e rileva, in
maniera esistenzialistica, una nuova ricchezza, un rapporto positivo, nel
legame tra l’Io e il resto dell’esistente, la Natura, l’Universo. Il problema
inerente al giudizio della mondanità da etico-ontologico, piuttosto che partire
da premesse formali negative, lascia il passo alla concreta esperienza,
cosicché in guisa pratica possa maturare una coscienza della realtà fondata
sopra la diretta esperienza di essa. Hesse ha privato il suo personaggio
principale di una visione pessimistica in stile schopenhaueriano. Siddhartha
quindi si dispone con animo meravigliato, con ingenuità, di fronte alla libido
(junghiana), la quale alimenta il mondo. Il protagonista hessiano è
paragonabile a un Socrate inquadrato dentro un profilo di riflessione esistenzialistica.
Hesse nel suo raccontare riprende un motivo filosofico, quello della voce
interiore, del dáimon socratico, che è stato tanto caro al pensiero dello
junghiano Hillman (fondatore della psicologia archetipica). L’autore del testo
sottolinea un significativo aspetto: l’auto-nomia del dáimon. Nel telaio
narrativo, costruito con elementi progettuali provenienti dalla psicologia
analitica, trova spazio inoltre il richiamo al concetto del Grande Madre,
concetto nel quale la Natura, vita sensibile in atto, assume un valore
adeguatamente rapportato al vivere umano. Siddhartha, che ha esperito l’eros
con Kamala, e i frutti dell’arricchimento grazie all’intraprendenza (dopo
essere entrato in contatto col benestante mercante Kamaswami, mediante
l’interessamento della prima), giunge nel proprio cammino a un punto di
saturazione, dove a causa dell’eccesso nella sua psiche emerge prorompente
l’esigenza di una revisione generale. In Siddhartha termina, muore la “fase
naturale” della libido (in seguito alla quale ogni vivente che vi perviene
riceve la possibilità di condurre un riesame della personale esistenza,
rimodulando ed emendando tutti quei modelli mentali che a una rinnovata luce
apparissero ormai inopportuni e inefficaci, se non addirittura dannosi). Siddhartha
lasciata la sua precedente vita alle spalle, come Dante si smarrisce in una
situazione mortale per lo spirito. Purtroppo la vicenda del tentato suicidio
del personaggio hessiano rappresenta una eco di quello reale tentato dal
creatore del romanzo: Hermann Hesse nel corso della sua giovinezza attraversò
momenti di disagio provocati dal suo ambiente familiare originario imbevuto di
rigorismo religioso pietista. Siddhartha cerca di suicidarsi gettandosi in un
fiume, ma da esso, pentitosi riemerge: è un’immagine molto allegorica, molto
diffusa questa del rinascere dall’acqua. La rinascita spirituale proietta il
protagonista dell’opera nella junghiana “fase culturale” (seguente quella
“naturale”), e altresì lo porta più in avanti nel personale “processo di
individuazione”. In questo momento egli muta ulteriormente il suo assetto
psichico-caratteriale, il quale da sentimentale-percettivo muta in
sentimentale-intuitivo. Siddhartha prende a stare, nella fase conclusiva della
sua parabola, in compagnia di un barcaiolo imitandone il mestiere. Vasudeva
costituisce al pari del Virgilio dantesco un simbolo della razionalità logica (contigua
alla razionalità sentimentale, Beatrice). Quello rappresenta una figura che
compare allo scopo di compensare il segmento psichico junghiano “sentimentale”
del personaggio hessiano. In aggiunta a Vasudeva, l’immagine del fiume si
riqualifica quale metafora della vita universale. In questi tratti del testo il vincitore
del Premio Nobel (nel 1946) attua
una serie di recuperi concettuali filosofici a proposito delle convinzioni che
il suo protagonista assume. La visione del mondo assunta da Siddhartha si
colora non solo di connotazioni religiose orientali indiane ma anche di toni
eleatici, pirroniani. Nella ricerca della felicità (della liberazione: nirvana)
l’Universo in sé non giocherebbe né pro né contro; la totalità dell’Essere
sarebbe in modo concettuale inconoscibile e ineffabile, non esisterebbero in
generale affermazioni vere che scarterebbero le contrarie false. Agli occhi di
Siddhartha esiste possibile solo un mistico cogliere l’autentica atemporalità retrostante
al fenomenismo, un’intuizione dell’unità dell’Universo: il linguaggio umano
sarebbe figlio di un vuoto nominalismo. Nell’ultima parte del romanzo il
protagonista rivede Kamala e si ricongiunge col figlio da lei avuto a sua
insaputa. Il processo junghiano di individuazione di Siddhartha perviene al
culmine col raggiungimento da parte di lui dell’archetipo del “vecchio saggio”.
Questa porzione del prodotto letterario rievoca inoltre uno dei temi classici
della psicologia, il quale riguardò da vicino Hesse: lo scontro generazionale. Alla
fine dell’opera il suo autore ribadisce e puntualizza varie cose. Il fiume
rappresenta la libido junghiana, la vita universale, in cui Siddhartha, aiutato
da Vasudeva, che raffigura un virgiliano supporto (simbolo della razionalità,
promotore della ricerca dell’ordine interiore), si rispecchia raggiungendo una
“noluntas hessiana”. Al contrario di Schopenhauer, Hesse, con Jung, intravede
nella libido (=voluntas) una radice positiva dell’esistenza. Trovare il proprio
posto in quel meccanismo ridà una consapevolezza interiore psichica che produce
la junghiana individuazione: sentirsi armonica parte di un tutto, dentro e
fuori di sé. Il creatore del romanzo ribalta idealmente il pensiero
schopenhaueriano e i principi religiosi indiani: il mondo non è un illusorio,
malevolo contenitore della vita. È il teatro dove ciascuno si trova
gettato-a-vivere, e nel quale usufruisce della possibilità di costruire un
percorso positivo. Usando in modo adeguato ed equilibrato le facoltà umane,
inquadrarsi in un’armonia universale non rimane una chimera. Siddhartha
all’ultimo rivede pure Govinda, cui ribadisce che la Verità è l’Essere, e che
Tutto è Vita. Nella chiusura del testo il suo autore affronta anche l’argomento
del ruolo che l’“ombra” junghiana abbia nell’esistenza. Questo è quello di una
catarsi, nell’auspicio migliore di un attraversamento potenziale dell’eccesso e
di quanto sia male. Nel quadro junghiano del personaggio creato da Hesse
l’ordine portato dalla funzione logica psichica consente uno schietto recupero di
quella sentimentale, la quale a questo punto non si sofferma più in maniera pro
tempore esclusiva su singole cose ma coglie l’Essere nella sua trasversale
dimensione di sottofondo rispetto al fenomenico: l’Essere compenetra tutto il
reale, illusorio o sostanziale che sia, e lo rende “amabile” e lo scioglie
nella sua unità di base.
L'evoluzione psichica junghiana di Siddhartha
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NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche
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