di DANILO CARUSO
Una
società giusta non dovrebbe garantire in primis lavoro ai suoi membri bensì
benessere: il lavoro è un mezzo, non un fine. Il progresso tecnologico
raggiunto su questo pianeta consentirebbe di offrire benessere a tutti, con una
ridotta partecipazione oraria lavorativa di ciascuno. A impedirlo sembra
l’inquinante sistema capitalistico e la sua imperfetta “mano invisibile”.
Speculare su tutte le forme di disgrazie può rappresentare una remunerativa
operazione economica. Se l’ordine, lasciato al caso, fosse gestito da un’entità
statale mondiale federale con la sua superiore razionalità, gli interessi
partigiani borghesi non intralcerebbero l’equilibrio sociale e la sanità
ambientale. Il modello statale aristotelico prevede di evitare la persistenza
di sacche di povertà e l’accumulo di un’eccessiva ricchezza nelle mani di
pochi. La sopravvivenza di tali due degenerati poli è storicamente alla base
del peggior capitalismo. Altresì, continuare ad allargare la contesa economica
in termini nazionalistici non giova ad altro che al nevrotico e attivistico
sistema capitalistico nei suoi fini reconditi. L’Occidente capitalista
dominante insiste a sfruttare le risorse umane e materiali sulla Terra privo di
un caritatevole logico riguardo. In questo inizio di nuovo secolo è pressoché
scomparsa la generazione di chi visse l’ultima guerra mondiale, ultimo tratto
della “peloponnesiaca” guerra intestina del capitalismo (allora euroamericano),
iniziata con la Grande guerra. La formazione educativa e i media inducono a
banalizzare la serietà dei problemi, come se il peggio dovesse accadere sempre
lontano da noi. Una cosa che sta accadendo dentro il sistema occidentale è lo
scontro radicale fra l’attivismo nevrotico protestante filocapitalista e la
Chiesa cattolica (totalitario nevrotico misogino omofobo regime oppressivo da
Teodosio all’Illuminismo), la quale non costituisce più un palliativo presso le
masse, anzi persegue una sua antitetica strategia (dopo la perdita del comune
nemico marxista). Scomparso il comunismo sovietico, l’Occidente pare cercherà
di sbarazzarsi del Cristianesimo pseudoassistenzialistico cattolico a beneficio
del Protestantesimo (il cui attivismo è più omogeneo). La conclusione che si
può tirare, in breve, recita che il Cristianesimo sia stato alla base, e
permane a esserlo, di uno squilibrato sviluppo del mondo occidentale. In
prospettiva di un definitivo successo del protestante Dio denaro o del ritorno
del cattolico Dio dell’Inquisizione (orizzonti distopici) occorre che la
filosofia sappia reagire con la proposta di un nuovo umanesimo (utopia). Il
recupero del pensiero antico della civiltà pagana, lo spirito illuministico più
vicino, possono fornire quegli spunti a favore di una liberazione (soprattutto
psicologica): l’umanità si salverà dagli scenari distruttivi nel momento in cui
i soggetti più assennati, ragionevoli (filosofi e studiosi), saranno nelle
condizioni di impedire al resto di nuocere. In mezzo ai futuri distopici
possibili forse quello huxleyano di un capitalismo impazzito nel Brave New World
sembra il più lieve, peggiore quello nello stile orwelliano di Oceania. Ma non
dimentichiamo che Huxley dipinge l’anticamera della wellsiana dicotomia
Eloi/Morlock. Per me la migliore utopia è rappresentata da quella visione del
mondo, preoccupante distopia agli occhi di Monsignor Benson, delineata in atto
in “Lord of the World”. Tuttavia, se non si potesse evitare il peggio, da
persona di studio preferirei vivere in quel distopico regime (ir)razionalista
descritto da Zamjatin: unicuique distopia. Chi definisce l’esperienza storica
del fascismo italiano del 1922-1943 un regime totalitario, al pari della
Germania nazista e dell’URSS (le quali invece lo furono), sembra non conosca
bene la storia o voglia presentare una versione dei fatti distorta. Il caso delle
Leggi razziali, il più eclatante, spesso evocato nei suoi aspetti esteriori al
fine di appiccicare l’etichetta spregiativa di “fascista” in maniera
anacronistica è l’esempio più utile per ricordare che in Italia allora c’era un
Parlamento bicamerale con un Senato di intera nomina regia (a norma dello
Statuto albertino del 1848), che le leggi necessitavano della promulgazione del
Capo dello Stato (sempre a norma dello Statuto, il Re): perciò quando si parla
di dittatura totalitaria si misconosce che i fascisti controllavano
direttamente solo la Camera, l’unica ad aver sempre mantenuto, seppur in
situazione di partito unico, un meccanismo elettivo (prima della nascita della
Camera dei fasci e delle corporazioni ebbe diritto di voto, pro o contro la
lista dei deputati fascisti presentata dal Gran consiglio, lo stesso elettorato
attivo dell’Italia liberale precedente: dov’è il totalitarismo nella
possibilità tecnica che avessero potuto bocciarla e procedere a una scelta dal
basso secondo la legge elettorale al momento vigente?). Nella circostanza delle
Leggi razziali, se la Monarchia sabauda avesse voluto respingerle, avrebbe
avuto mezzi istituzionali a disposizione, così come li ebbe durante il corso di
tutto il Ventennio per tutte le altre materie. Il governo del Regno inoltre
poggiava sulla fiducia presso il monarca: il potere esecutivo, sempre in base
allo Statuto, spettava al Re che lo delegava a un governo di cui nominava il
responsabile e a cui poteva revocare l’incarico in qualsiasi momento. Chi parla
di totalitarismo del fascismo italiano monarchico ignora l’architettura
costituzionale dell’epoca e le convenienze monarchico-borghesi nel tenere in
piedi quel governo: infatti quando l’ultima guerra non fu più conveniente, dopo
l’ultimo Gran consiglio, il Re mise alle strette Mussolini e lo fece dimettere.
Il fascismo ebbe aspetti dittatoriali, sì, ma definirlo sistema totalitario non
è corretto da un punto di vista storiografico. Non va dimenticato che in Italia
allora (come tuttora) c’era una significativa presenza della Chiesa cattolica:
resuscitata dal fascismo nella dimensione statale e presente sul territorio con
le sue organizzazioni, concorrenziali rispetto a quelle fasciste (ulteriore
esempio che in Italia il fascismo, sebbene dittatura, non fu totalitario in
senso stretto). Gli attori della politica italiana nel 1922-1943 erano tre: il
fascismo, la monarchia (con la borghesia industriale e fondiaria), la Chiesa.
Oggigiorno abusare dell’aggettivo “fascista” per un improprio uso non
contribuisce a una seria conoscenza storica. Soprattutto nel momento in cui,
parlando di rinascite fasciste, non si nota che le analogie sono maggiori con
la Repubblica di Weimar e il nazismo. Ai nostri tempi assistiamo ad
atteggiamenti neonazisti: chiamare le cose col loro nome è importante se si
vogliono comprendere le dinamiche storiche in maniera scientifica. La xenofobia
e la difesa del capitalismo nazionalistico furono aspetti precipui del nazismo,
non del fascismo italiano. Infine, che il fascismo abbia avuto lati negativi, e
molto negativi, questo è innegabile: tuttavia distorcere i fatti a uso e
consumo di una storiografia interessata alla beatificazione della parte avversa
dei vincitori della Seconda guerra mondiale non rappresenta un’operazione che a
mio parere possa contribuire alla comprensione dei fatti. E tengo a precisare che a
mio avviso all’orizzonte dell’Occidente appare qualcosa che assomiglia al
“Tallone di ferro” di Jack London: un capitalismo veramente spinto nelle sue
dimensioni nazionali ad assumere foggia totalitaria. Per questo nel caso
europeo mi pare bene che i singoli interessi capitalistici nazionali si
diluiscano in un contesto più ampio allo scopo di evitare tensioni continentali
estreme e che parimenti il processo di unificazione politica dell’UE assuma
connotati di solidarietà sociale migliore in luogo della deificazione del
liberalcapitalismo. Il progetto dell’Euro, di una moneta comunitaria in Europa,
è stato e rimane un disegno politico. Il fine di esso mira a evitare il ritorno
della guerra nel continente fra opposte fazioni nazionalcapitalistiche. L’Euro
ha unito il capitalismo europeo in un contenitore politico, il cui obiettivo
consiste nell’unificazione federale statale della CE. Il difetto, se così si
può definire, dell’organizzazione attuale sta nel fatto che gli Stati
comunitari non possono stampare in maniera autonoma moneta. La massa di denaro
interna dell’Euro risulta essere una quantità determinata a priori dalla BCE.
Ciò comporta che quando sistemi nazionali socioeconomici poggianti sul clientelismo
e sul parassitismo pubblico regaleranno perlopiù i soldi andranno in seguito in
perdita: se una economia di un Paese comunitario non ha una guida politica che
pianifica una reale e concreta crescita basata su una produzione vera e non
fittizia, la ricchezza nazionale potenziale si sprecherà a beneficio di altri
esterni che attrarranno la massa monetaria. Tale incapacità di evitare lo
spreco interessato del denaro pubblico e l’aumento dei prezzi non dipendono
dall’Euro in sé, né tanto meno dall’Unione europea. La quale, dal canto suo,
quel rigore che predica tende a rendere omogenea la base socioeconomica
dell’Europa federale auspicata. La macelleria sociale talvolta richiesta in
alcune Nazioni è stata il malaugurato prezzo di malgoverni passati. Tuttavia se
le riforme di risanamento sono state applicate senza sensibilità verso le
categorie coinvolte, ciò non vuol dire che il peggio (presente o futuro) sia
l’UE e l’Euro. L’impronta capitalista sregolata comunitaria si può sempre
correggere: uno Stato federale europeo che tutelasse i cittadini meglio dei
singoli Stati nazionali sarebbe l’ideale; tenendo conto soprattutto dello
scenario alternativo senza UE, dove le economie isolate ritornerebbero a un
clima bellico concreto (com’è accaduto nella prima metà del ’900, e prima). Un
simile scenario sarebbe gradito ai capitalismi extraeuropei: la distruzione
rappresenterebbe un mercato redditizio (in sede di vendita di armi e poi di
ricostruzione), nonché forme di imperialismo a danno dell’Europa potrebbero
trovare migliore spazio fatta fuori l’Unione europea. Il ritorno della guerra in
Europa è una prospettiva pericolosa da quasi tutti ignorata. Qui non appare
assurda l’eventualità di nemici della pace celati dietro a possibili realtà
politiche nazionali e/o regionali antieuropeiste, la cui propaganda
speculerebbe sulla suggestione xenofoba e sull’ignoranza dei fatti presso la
gente comune. In un’Europa senza UE le spinte secessionistiche di macroaree
economicamente sviluppate potrebbero cogliere successi a scapito di zone meno
progredite a causa della cattiva politica. Se l’alternativa all’unificazione
europea si mostra peggiore della situazione attuale delle cose, è bene
riflettere con moltissima attenzione su quanto sia bene o male nel destino
politico dell’Europa e dei suoi abitanti.
NOTA
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Studi critici (2019)”
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici
NOTA
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Studi critici (2019)”
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici