di
DANILO CARUSO
La vita è sempre terribile.
Non ne abbiamo colpa
e siamo d’altronde responsabili.
Non ne abbiamo colpa
e siamo d’altronde responsabili.
Si è nati, e già si è colpevoli.1
Hermann Hesse, “Il lupo della steppa”
Hermann Hesse, “Il lupo della steppa”
“Il
lupo della steppa (Der steppenwolf)” di Hermann Hesse (1877-1962) è un romanzo
del 1927. Tale testo hessiano possiede una forte connotazione autobiografica, e
in maniera caratteristica si configura alla volta di soddisfare la “funzione
trascendente” junghiana. Vale a dire che lo scrittore ha trasposto la sua
inquietudine esistenziale in un elaborato redazionale allo scopo di raggiungere
un livello di alleggerimento della tensione psichica. Non è un caso che nell’opera,
e proprio nella parte iniziale, si faccia cenno a: suicidio, disturbi psicosomatici,
depressione e ansia. In parole povere, Hesse (che vinse il Premio Nobel nel
1946) nel descrivere questo scenario sintomatologico ha preso spunto da sé, dal
suo malessere a dal suo mancato tentativo di uccidersi da giovane. Nel romanzo
permane un costante orizzonte junghiano: l’autore fu paziente nella sua vita
del fondatore della psicologia analitica. Protagonista di “Der steppenwolf” è
Harry Haller, un uomo benestante e pacifista che vive una condizione di disagio
nelle sue interrelazioni nel mondo. Respinto dalla moglie, ha iniziato a
girare. E dopo aver preso dimora affittando temporaneamente una stanza, ha
lasciato qui un memoriale in cui narra delle sue recenti vicende e della sua
vita. L’esperienza del tentato suicidio da parte dell’autore del romanzo emerge
nel suo ripensamento in taluni passaggi de “Il lupo della steppa”. Rappresenta
uno dei più intensi spunti autobiografici (il quale sarà meglio chiarito nel
memoriale incorporato di Haller), giacché lo scrittore non manca di rimarcare la
vocazione alla ricerca della libertà, alla liberazione dal peso della
sovrastruttura sociale della borghesia a beneficio di una libido dunque meno
compressa. Hesse presenta un’amletica dicotomia in relazione al suo alter ego
(Harry Haller): borghese/autentico. E sottolinea l’aspetto della funzione
trascendente junghiana. Tale dicotomia produce un conflitto psicosomatico:
l’uomo e il lupo, la ragione e il sentimento (facoltà personali dell’asse
razionale nella concezione di Jung) possono infatti entrare in conflitto.
L’incapacità di trovare un equilibrio (il quale non esclude preponderanza di
uno o dell’altro di simili fattori caratteriali), un’oscillazione inquieta
dall’uno all’altro polo senza padronanza producono delle conseguenze (dal
somatico allo psichico). Nel vivere il disagio, suo e del protagonista, il
creatore di “Der steppenwolf” ha individuato due precise coordinate: in
aggiunta all’Io, la società borghese in una sua fase di transizione, di crisi,
di instabilità, le quali colpiscono gli animi più sensibili e acuti; quindi i
richiami testuali a Nietzsche. Anche Hesse aspira al superamento dell’ipocrisia
borghese del suo tempo, causa di malessere. La figura di Haller si manifesta
nel suo essere-lupo-della-steppa come, o quasi, fosse un archetipo junghiano,
nella sua propensione a voler sciogliere le tensioni che lo affliggono, mirando
alla meta di un equilibrio interiore. In generale nel romanzo hessiano la
questione junghiana del “processo di individuazione” rimane costantemente
presente. L’Io del protagonista va alla ricerca di un posizionamento nella
interiore personale psiche il quale non dia più adito a oscillazioni fra
contrastanti caratteri. Da ciò nel testo scaturisce il sottofondo di falsariga
concettuale con radici nel pensiero di Jung. Si vede uno spirito antiborghese
mirante alla ricerca del significato dell’esistenza umana accompagnato da un’irrequietezza
che sarà tipica di Goldmund (Boccadoro). Ne “Il lupo della steppa” si nota come
l’autore tematizzi in modo nitido la contrapposizione tra le facoltà razionali
individuali (ragione e sentimento). Siffatta dinamica, a volte patologica (se
radicale), a volte fisiologica (se dosata), nel testo hessiano riprende
categorie provenienti da Jung, e fra le altre quella degli archetipi. Parlando
della dicotomia “Madre Natura / Dio” infatti Hesse esplicita meglio l’altra
testé ricordata. Da un lato si pone l’archetipo della Grande Madre, femminile,
il quale prospetta un ritorno al naturale originario, alla volta del sentimentale.
Dall’altro l’archetipo del vecchio saggio, maschile, il quale invece indica la
strada di un approdo in direzione della razionalità. Nel romanzo non manca il
chiarimento che il numero degli archetipi possibilmente agenti nell’esistenza
di ciascuno è indefinito, e dunque molteplice. Accanto alla struttura portante
junghiana in “Der steppenwolf” lo scrittore inserisce richiami più espliciti
alla cultura buddista, di cui è simpatizzante, laddove questa si propone di
conseguire la pacificazione psichica (l’ideale del nirvana).
Nel
corso delle vicende descritte da Harry Haller nel suo memoriale, capita al
protagonista la circostanza di essere invitato a una cena borghese durante la
quale a causa della sua indole matura uno sgradevole confronto di idee che lo
induce, allontanatosi in seguito a ciò, a cercare un liberatorio suicidio dalla
sua costante situazione di disaccordo con l’apparato sociale e i di esso canoni
standardizzati. Egli finisce, dopo aver girato con gran travaglio attorno
all’idea di darsi la morte, in un locale pubblico di divertimento denominato
«Zum schwarzen Adler (All’aquila nera)». E qui Hesse inizia a mettere in scena
un chiaro ciclo alchemico-junghiano: la rinascita spirituale dalla nigredo
(depressione) alla rubedo, dalla morte spirituale (tentativo di suicidio
fallito) a nuova vita. Dal nero (nigredo) dell’aquila, nel testo, si passa alla
comparsa dell’albedo grazie all’intervento di «ein hübsches bleiches Mädchen (una
graziosa ragazza pallida)», adornata in testa di una camelia (fiore di
possibili colorazioni: bianco, rosa, rosso). Si può evincere l’evidenza di un
ciclo alchemico da un altro dettaglio allegorico: quella ragazza, di nome
Hermine (Erminia), pulisce gli occhiali di Harry allo scopo di consentirgli di
vedere meglio; una cosa nella sua valenza accostabile a un miracolo evangelico
di Gesù che ridona la vista. Simile momento di “disvelamento alchemico” a
beneficio di Haller allude, più in generale nell’ambito delle sue fasi di
rinascita, alla presenza di un iter di svolgimento di “nozze alchemiche”:
“parlare di ballo / imparare a ballare” ne è metafora. In parole meno figurate,
meno criptiche, tale ballerina incontrata dal protagonista, e che si
intrattiene con lui, facendo amicizia simboleggia l’“anima junghiana”, cioè per
un uomo la psichica controparte sessuale davanti all’Io (“animus” per una
donna). Questa è la componente femminile del ciclo alchemico, il quale assume
come obiettivo psicologico per Jung “l’individuazione”: per tutti, il
conseguimento del Sé (ossia la lucida presa di consapevolezza del proprio
assetto psichico; momento della rubedo, della pacificazione interiore). Nel
ciclo alchemico di Harry Haller, legato a Hermine, Hesse, fra le varie
figurazioni, inserisce un sogno del protagonista in cui questo incontra Goethe.
Detto passaggio di “Der steppenwolf” rivela l’ulteriore pregnanza junghiana nel
suo mostrarsi allegoria dello scontro generazionale genitori/figli, qui
culminante con una sua sdrammatizzazione. In tutta questa faccenda della
rinascita spirituale di Haller compare qualcosa che potremmo definire un
piccolo percorso dantesco avente suoi precisi elementi: l’idea di suicidio / la
selva oscura; Goethe/Virgilio; Erminia/Beatrice. Hermine parla a Harry, e lo
ammaestra, proprio come farebbe Beatrice con Dante. La prima riprende
connotazioni concettuali più congeniali a Hesse attraverso personaggi
religiosi. Quando Haller si accomiata dalla ragazza, al suo primo accidentale
incontro, nel suo memoriale usa un’espressione verbale in accezione
esistenziale che mi ha fatto notare una singolare coincidenza plathiana: «trübe
Glasglocke (opaca campana di vetro)». In “Narciso e Boccadoro” esistono diverse
tangenze letterarie con Silvia Plath (al di là di quelle di carattere
biografico), le quali ho messo in luce in altra sede2. Qui ne “Il
lupo della steppa” oltre a rintracciare tale analogia col titolo del famoso
romanzo plathiano (a questo punto ipotizzo una suggestione hessiana), al
principio del memoriale del protagonista si presenta la scena di un bagno
nell’acqua calda in vasca: una cosa che ha un parallelo all’inizio di “The bell
jar”. La vasca è simbolo del rifugio offerto nel grembo della Grande Madre
positiva3: l’ennesimo concetto junghiano. Allorché Erminia anticipa
a Harry la di lei richiesta finale della loro amicizia, si può rimanere
disorientati a sentirle chiedere che, dopo averlo fatto innamorare di lei, egli
la uccida. Si tratta nel nostro caso nuovamente di qualcosa di simbolico:
pensiamo a Jung, il quale nel “Liber novus” ammazza Sigfrido. Una simile
pretesa va interpretata in termini di psicologia analitica: nel “processo di
individuazione” la controparte psichica sessuale deve cedere il passo, aperto
un canale di collegamento diretto con l’inconscio collettivo, alla auspicata
tappa definitiva (dove l’Io liberatosi dall’influsso negativo di altri
possibili complessi si adegua in modo genuino a un archetipo). Quindi “uccidere
Hermine” vuol dire per Haller: “individuarsi”. Hesse rammenta, sulla scia di
Jung, che non è benefico concedere a un determinato tono della personalità il
dominio esclusivo e respingente della funzione opposta, poiché l’effetto
collaterale sarà traumatico: ciò che di naturale viene soffocato verrà a galla all’improvviso
e in maniera disordinata. È bene mantenere degli equilibri più dosati. Infatti
in ciascuno operano sempre le quattro funzioni caratteriali: proviene da un
loro errato dosaggio la provocazione di uno stato patologico. Perciò in Haller
sorge questo conflitto interiore: non ha saputo sanare il rapporto tra la
dimensione del “logico” e del “sentimentale”. Erminia, essendo immagine
narrativa dell’“anima junghiana” (il “femminile” richiamante il
“sentimentale”), si propone il compito di essere foriera di un nuovo assetto
nel comportamento e nei pensieri del protagonista, un assetto il quale non
generi più il meccanismo del temporaneo rovesciamento radicale nell’opposto
escluso. L’autore del testo torna a rievocare la possibile molteplicità degli
archetipi agenti nell’esistenza di ognuno in una guisa che anticipa spunti
della psicologia analitica di Hilmann; ritorna anche a prendere la dicotomia
iniziale della sua opera in esame, “borghese/autentico”, ricollocando il tratto
“razionale” di Haller sotto l’etichetta del primo termine: pure lui non ha
mancato di assumere aspetti di vita conformisti. Tra gli aspetti di contorno in
“Der steppenwolf” ne emergono un paio.
A
Hesse è cara la figura del titkisser, Boccadoro praticherà il titkissing. Poi, così
come ne “Le affinità elettive” Goethe ha teorizzato gli scambi di coppia, ne
“Il lupo della steppa” lo scrittore vincitore del Premio Nobel, dal canto suo,
affronta il tema del poliamore: nel caso di Maria, la ragazza che, mandata
presso Harry da Hermine, egli incontra più volte; una ragazza la quale ha
diversi amanti, e del resto il protagonista ne aveva già una (benché distante).
I fili del romanzo, da Maria in avanti si vanno riannodando: Harry va via via
prendendo consapevolezza della sua “costellazione psichica interiore”, un passo
senza cui non si dà “individuazione junghiana”. E la dicotomia spirito/corpo
assume in lui uno forma meno rigida nella linea di demarcazione. Il cammino del
protagonista verso l’“individuazione junghiana” ricorda la dialettica erotica
del “Simposio” platonico nel momento in cui Erminia si trasforma in una sorta
di Diotima al cospetto di Harry, e spiega a costui che il quotidiano vivere
borghese non potrà mai essere il loro spazio. Per loro, spiriti usciti dalla
caverna, l’eros uranico non può aver altro premio che in una dimensione
iperurania. In simili tratti del romanzo affiora la visione spiritualista del
mondo di Hermann Hesse, il quale da giovane ricevette una rigida educazione
religiosa pietista (fra le motrici principali del suo disagio). Nella parte
conclusiva di “Der steppenwolf” le premesse junghiane inerenti
all’“individuazione” trovano la loro ideale evoluzione. La festa di ballo in
maschera rappresenta la “coniunctio mystica” dischiudente il momento della
“rubedo”. Come simbolica era la richiesta di Erminia a Harry di ucciderla,
ancor più evidente è la simbolicità del suicidio richiesto a Haller da parte di
Pablo: si tratta di un suicidio alchemico paragonabile a un battesimo per
immersione. Il teatro che si apre davanti al protagonista è quello della sua
psiche, la quale si decostruisce nitidamente nel culmine dell’“individuazione”,
dove egli prende coscienza delle sfaccettature della propria personalità. Alle
riflessioni prossime all’aspetto caratteriale di Haller, Hesse fa seguire nella
fase della “rubedo junghiana” considerazioni di natura ideologica, motivi
problematici già sollevati in apertura del romanzo. Il rapporto “ordine
/anarchia” è un tema nevralgico non solo nel pensiero hessiano. Qui,
nell’opera, si toccano dettagli molto acuti. L’opposizione tecnologica moderna
“macchina/Natura” viene esaminata nel suo profilo borghese: l’aggressiva
urbanizzazione appare dunque elemento di un processo espansivo di dominio, i
cui strumenti producono come inevitabile conseguenza altresì la guerra (la
quale si qualifica come prodotto sociale di una precisa classe dominante). Hesse
indica il ruolo sovrastrutturale di certa religione nel panorama borghese capitalistico moderno,
però lo fa in una guisa che si mostra di taglio ibrido weberiano-marxiano: la
religione in parte può essere movente (ad esempio mediante la mentalità
attivistica), in parte facciata (ad esempio nel contesto estetico di richiamo
dei proseliti). Simili due lati non si escluderebbero inter se, ma si mescolerebbero.
È da notare che l’immaginifico messo in scena dall’autor nella chiusura de “Il
lupo della steppa” abbia somiglianze strutturali catartiche con sezioni de “Il
libro rosso” di Jung. Nel finale del romanzo hesse dà corpo a tutte le esigenze
previste da un sano “processo di individuazione”, e le tratteggia in sottili e
pertinenti figurazioni, le quali consentono il passaggio dal “potenziale” di
inizio del romanzo all’“attuale”, sempre letterario, della chiusura dell’opera.
Non voglia sembrare strano l’epilogo di “Der steppenwolf”, a causa della
superficialmente ambigua uccisione di Erminia: essa non vuol dire altro che
Harry si è inoltrato in modo definitivo nel cambiamento esistenziale
(ricordiamo il caso Jung/Sigfrido del “Liber novus”). Soltanto che qui Hesse
lascia la questione ancora aperta (perdurante piuttosto che conclusa),
attraversando toni molto danteschi: pure Dante alla fine della “Divina
Commedia” ritorna alla mondanità senza Beatrice. Harry Haller è rinato, ma non
si è, per così dire, “santificato”. L’autore del romanzo è sì un figlio dei
suoi tempi, tuttavia va detto, e apprezzato, come egli abbia costruito un
“percorso terapeutico” che apre la porta del “teatro magico
dell’individuazione junghiana” a ciascuno.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Studi critici (2019)”
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici
1 Das Leben ist immer furchtbar. Wir können nichts dafür und sind doch
verantwortlich. Man wird geboren, und schon ist man schuldig.