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martedì 15 agosto 2023

DALL’INNO STOICO A ZEUS DI CLEANTE ALLA FONDAZIONE DEL CRISTIANESIMO

di DANILO CARUSO
 
In un mio passato lavoro mi sono occupato del lato stoico della figura letteraria e mitologica del Gesù evangelico1. Qua proseguo l’esame dei rapporti concettuali intercorrenti fra stoicismo e nuova religione cristiana. Come già visto nell’altra mia analisi, e ben noto prima di me a studiosi attenti e molto meno alla stragrande maggioranza della gente, la filosofia stoica ha fornito molto materiale all’erigendo Cristianesimo. Sebbene questo fenomeno culturale sia stato evidente sotto il naso di menti acute, non ho trovato niente che andasse al di là del semplice accenno nei termini di una approfondita indagine filosofica e teologica. Ci sono intellettuali che mi hanno preceduto i quali sono consapevoli che la religione cristiana sia una invenzione umana, però di tale costruzione non hanno prodotto al pubblico l’esame genetico delle idee puntuale. Non mi sono mai imbattuto in indagini paragonabili alle mie nelle quali grazie all’uso di strumenti adeguati alla filosofia e alle religioni dell’antichità ho smontato nel tempo, sempre meglio, la tradizione giudaicocristiana nelle sue contestuali culturali, ideologiche, filosofiche componenti di base. Non ho avuto la ventura di incontrare una simile intenzione di destrutturazione sino agli elementi di pensiero ultimi. Ci sono dei lavori storici pertinenti, tuttavia la storia dei fatti non è stata accompagnata da una storiografia di ampio raggio. Naturalmente non sono il primo a scoprire alcune cose che scrivo, ma non le ho trovate ben spiegate e chiarite prima di me. Perciò non poche cose in relazione a me sono state nuove scoperte, e come frutto di mie riflessioni e ricerche autonome poi pubblico i risultati d’analisi. Nello studiare i testi biblici e le due religioni collegate non è stato facile accantonare il tradizionale senso fideistico cristiano che la società occidentale inculca in huxleyano modo (mi riferisco ai metodi di trattamento formativo mentale del Brave New World2). Riuscitoci da solo per puro spirito filosofico grazie alle mie indagini, continuo ad analizzare gli argomenti di cui ho fatto menzione, e nelle mie particolari personali modalità. Come ho anticipato in questo scritto parlerò della maternità stoica del Cristianesimo e anche della paternità ebraica. C’è nel Nuovo Testamento un brano degli “Atti degli apostoli” molto rilevante nella determinazione dei legami fra stoicismo e Giudaismo in relazione alla nascita del Cristianesimo. Paolo di Tarso si trova all’Aeropago e rivolge agli astanti che lo ascoltano un discorso di nitida matrice stoica. Egli, dopo aver introdotto un ancora demiurgico Dio giudaicocristiano (più avanti destinato dalla teologia cattolica a essere invece protagonista di una creazione ex nihilo3), dipinge costui con tratti monistici e panteistici di tonalità hegeliane e spinoziane4, pur volendosi mantenere nell’orizzonte personalistico del divino. E non sorprende che in simile contorsionismo teologico, volto a valorizzare la radice stoica, Paolo appunto si esprima quale profondo simpatizzante dello stoicismo. Afferma infatti, all’Areopago, che ogni essere vivente opera dentro Dio e che da lui ha sostegno ontologico. E addirittura l’apostolo va a citare proprio un pertinente verso dell’inno a Zeus di Cleante di Asso (304-233 a.C.) dove si asserisce che gli uomini sono il frutto di una discendenza divina. Paolo condanna altresì, tra l’altro, le rappresentazioni artistiche del divino. Anche nei Vangeli compaiono tracce esplicite di panteismo stoico riformulato nella direzione dell’inglobante ubiquità divina. Il filosofo Cleante citato, di cui esaminerò detto inno, fu di modeste origini, ebbe uno spirito sensibile alla sfera della religione e fu di orientamento filosofico panteista. Fu il primo a subentrare nel ruolo di scolarca stoico a Zenone di Cizio, e diede allo stoicismo un’inclinazione investigativa e riflessiva ritenuta preliminare e faro rispetto ai contenuti della prassi. Lo stoicismo nel tempo spostò via via la sua visione panteistica greca verso un assetto teistico nella speculazione romano-latina. In detto testo di Cleante l’autore definisce Zeus αθάνατος. E dal momento in cui la sua posizione è spinoziana non c’è da stupirsi che egli non metta una frattura nichilistica al corso divino (identificato col corso della realtà). La nota di contrasto emerge allorché si evidenzia la mortalità degli Dei (Elohiym) biblici, a cominciare dal “numero uno”5. Il Vecchio Testamento non possiede la categoria teologico-filosofica dell’“eternità”, la mortalità inerisce pure alla divinità, e in luogo dell’immortalità personale, di garantita eterna vita, si offre la prospettiva di “lunghissimo tempo”. La teologia cristiana poi prenderà spunti esterni al Giudaismo e renderà il Dio biblico un soggetto teologico con attributi ontologici parmenidei. Il filosofo greco di Asso poi definisce Zeus πολυώνυμος. Sebbene tale definizione possa apparire scontata in un contesto stoico panteista che risente dei modi orientali teologici di vedere nel molteplice dispiegamento delle divinità una manifestazione di facciata di un divino alla sua base e nella sua sostanza unitario, si rivela per me molto interessante se la collego a un mio studio precedente sul concetto veterotestamentario di “Elohiym”6. Là avevo spiegato che il termine, la cui forma invariabile riaguardo al numero non ci precisa da sola la quantità (“il Dio / gli Dei”, in generale “il Divino”), a mio avviso nel contesto biblico giudaico finì per assorbire la possibilità del pluralismo a vantaggio di una singolarità semantica privilegiata in quel sistema religioso. Il Dio ebraico in posizione di supremazia enoteistica diviene cioè lo Elohiym per eccellenza, il “numero uno” come recita Dt 6,4 nella mia corretta e approfondita traduzione dall’ebraico. Nella linea di vicinanza semitica fra Ebraismo e stoicismo (fondato da Zenone di Cizio) sono in grado di rilevare un’altra pertinente cosa grazie all’uso di Cleante, primo successore del fondatore della scuola filosofica stoica, dell’aggettivo πολυώνυμος. I Giudei maturarono il divieto di pronunziare il nome del loro Dio. Penso che se la parola Elohiym si spostò nella teologia ebraica dal plurale di partenza a una forma singolare di maggiore e migliore copertura semantica, anche il Dio d’Israele è definibile strutturalmente nel suo concetto costitutivo globale e finale (inglobante soprattutto elementi egizi e sumeri7) “dai-molti-nomi”. Lo stoicismo non ha guadagnato ancora con Cleante una dimensione di persona al divino unico e si mantiene sopra un piano panteistico spinoziano rispetto al Giudaismo, ma entrambi i sistemi possiedono analogie originarie nel meccanismo di una semantica unificatrice del “divino”. Lo stoicismo è stato molto più saldo a proposito dell’unicità esclusiva, però non della personalità; il pensiero ebraico ha operato invece sul costruire un Dio persona ben preciso, ma lasciandogli degli Elohiym avversari (comunque non alla sua altezza). Sarà il definitivo matrimonio culturale stoico-giudaico a generare nella teologia cristiana il Dio personale unico contrastato solamente da un’altra singola personalità malefica (Satana). Riguardo al discorso che stavo facendo poc’anzi sul Dio d’Israele dai-molti-nomi e sul divieto di pronunziarne il nome ho l’impressione che il fagocitamento semantico da parte di “elohiym” possa aver prodotto un risultato semantico di ribaltamento. Vale a dire che il Dio dai-molti-nomi è divenuto alla fine una divinità senza-nome: qualità di “elohiym” dall’enoteismo veterotestamentario potenzialmente vocato al monoteismo personalistico cristiano, raggiunto dopo l’incontro conciliante con la filosofia stoica. Cleante definisce altresì Zeus παγκρατὲς, cioè onnipotente. Pnsiamo all’incipit del cantico di Francesco d’Assisi: «Altissimu, onnipotente, bon Signore / tue so’ le laude la gloria e l’honore et onne benedictione. / Ad te solo, Altissimo, se konfano». L’altezza lirica, anche in generale, è analoga a quella del filosofo greco antico, però i toni sono differenti: più cupi e irrigiditi in Francesco, dove il recinto appare prigione mentale animata da gaiezza inquadrata dai vincoli di un Dio onnivoro, mentre in Cleante, quantunque si stigmatizzi parimenti la devianza, si mostrano una forma religiosa e una sostanza filosofica non oppresse da una teologia oscurantista. Il Dio cattolico francescano monopolizza tutte le celebrazioni e le attenzioni, lo Zeus dell’autore greco invece si offre alla richiesta di interlocuzione umana, non manifesta pretesa: da un lato notiamo un negativo divino incalzare, dall’altro uno spazio di gioiosità più libera. Il Cristianesimo ha recintato il Paganesimo, ha buttato via lo spirito religioso liberale e cordiale, e tenuto dentro le cose peggiori. Nonostante stoici ed epicurei fossero come cani e gatti non sono finiti all’uso della violenza, la quale invece sarà introdotta in relazione a questioni teologiche e filosofiche nella cultura e nella società occidentali proprio dal Cristianesimo, i cui scontri interni e rivolti in direzione dell’esterno, ispirati o mascherati da motivazioni nevrotiche o di interesse, di richiamo propagandistico religioso cristiano sono stati fra le pagine più orrende della Storia universale8. Non trascuriamo quindi che lo Zeus di Cleante non si è trasformato nel Paganesimo in un persecutore. Oggigiorno quasi tutti giudicano erroneamente la religiosità greca antica come se fosse stata un fattore di deficienza, senza peraltro rendersi conto che il Cristianesimo è sorto grazie all’incontro di stoicismo ed Ebraismo, tra cultura pagana e cultura ebraica. Molti ignorano o trascurano che il Paganesimo greco era in grado di far sospendere pro tempore le guerre in Grecia durante significativi eventi religiosi. Si pensi ad esempio alle olimpiadi, una serie di competizioni sportive in onore degli Dei. Il Cristianesimo non ha posseduto simile potere, anzi ha promosso le guerre e l’odio: pensiamo alle crociate e all’antisemitismo, ad esempio. A me pare che il Paganesimo greco fosse socialmente migliore e, mi si consenta di dire, superiore al Cristianesimo. Gli antichi Greci pagani, nonostante di cultura perlopiù misogina, non perseguitarono, torturando e uccidendo, le streghe. Non ebbero affatto omofobia di uguale effetto. Rispettarono con profondo senso di riguardo il sacerdozio religioso femminile, mentre ancora questo resta tabù a tutt’oggi nel Cattolicesimo romano. Lo Zeus di Cleante mira alla conciliazione, il Gesù evangelico ci prospetta invece in alcune sue note parole divisione e contrasto. A mio modestissimo avviso gli Dei greci non erano né falsi né bugiardi, e l’Occidente sarebbe cresciuto meglio se la massa fosse rimasta con loro. È vero che lo Zeus mitologico comune fu un clamoroso donnaiolo; ma meglio tenersi lui che il Dio cristiano il quale si rivelò, nell’opera plurisecolare di suoi psicopatici pericolosissimi credenti e seguaci, persecutore, sadico torturatore e uccisore di streghe, omosessuali, Giudei, non cristiani in generale, eretici e intellettuali dissidenti. Se simili crimini contro l’umanità sono stati compiuti è perché i loro responsabili psicopatici intesero rispettare una volontà in quella direzione di un Dio immaginario, inventato dal Cristianesimo, un Dio-nevrosi molto nefasto. La Patristica, misogina, omofoba, antisemita, intollerante, elaborò una teologia neopagana monoteistica radicale troppo deviata alla volta dell’Ombra junghiana. Quando l’albero dà i suoi frutti, tutto dipende dai semi che sono stati piantati. E io ritengo che veramente il Medioevo, iniziato con l’Editto di Costantino, sia stato il periodo dell’Oscurantismo9, poi via via sempre più scemato riguardo al dominino politico-religioso cristiano nell’Occidente. I Greci antichi non concepivano le “eresie religiose” e presso di loro la filosofia fu sempre molto libera. Uccisero Socrate per motivi politici, ma non ebbero mai un caso Giordano Bruno né un caso Ipazia d’Alessandria. L’ultima strega nell’Occidente cristiano fu uccisa a fine ’700 in Svizzera alla vigilia della Rivoluzione francese, cioè quattordici secoli dopo l’Editto di Teodosio. Ai nostri giorni il vecchio modello culturale del Cristianesimo risulta sostituito in linea di massima da un altro più adeguato al rispetto delle diversità, alla tolleranza delle ideologie differenti, a uno spirito di carità semplice e incruento. Dall’epoca della ottocentesca postunitaria scomparsa dello Stato pontificio, di Don Bosco e della “Rerum novarum” il Cattolicesimo romano avviò una fase 2.0 e dopo il novecentesco post-bellico Concilio ecumenico vaticano ha avviato una ulteriore fase 3.0. Nonostante tutti gli ammodernamenti dottrinari e liturgici la Chiesa cattolica contemporanea è stata colpita dallo scandalo della pedofilia. Tornando all’analisi testuale dell’inno di Cleante, proseguo il mio esame dicendo che il filosofo di Asso aggiunge una nuova definizione di Zeus: φύσεως ἀρχηγός, originatore della Natura. Non creatore ex nihilo: in Cleante immanente e panteistica spinoziana causa sui et Naturare, nella “Genesi” il Dio ebraico uscito fuori dall’arché acqueo assieme alla materia è sempre demiurgo e non creatore ex nihilo. L’autore greco afferma che Zeus governa ogni cosa per mezzo del νόμος. Quello di “legge” rappresenta un concetto nevralgico sia nello stoicismo che nell’Ebraismo. Qui esprime nella Torah l’indiscutibile volontà normativa divina del Dio personale: la Legge sta fra Dio e gli uomini con la sua direzione univoca e inderogabile. La stessa cosa succede per gli stoici originari: il loro sommo panteistico riferimento divino impone una legge, la quale si traduce non in un diretto testo di norme a cui guardare, bensì passa attraverso la Natura (da cui il “vivi secondo Natura” stoico). La Natura costituisce questa legge per lo stoicismo e rappresenta la carta normativa a cui guardare: essa è una Torah naturale da cui trarre i principi e da cui rifuggire l’inottemperanza. Il filosofo stoico di Asso e la “genesi” biblica concordano formalmente su cosa sia l’essere umano: θεοῦ μίμημα. Il testo ebraico ci parla esplicitamente di somiglianza divina quando Dio dice a principio del suo atto artigianale di produzione dell’umano androginico: «Produciamo [naaseh] adam per mezzo della nostra immagine [be-tsalme-nu] a nostra somiglianza [ki-dmute-nu]»10. In passato ho spiegato più volte Gv 1,9 riallacciandomi alla corretta traduzione weiliana e alla mitologia dionisiaca11. Il fatto che ogni uomo che nasca porti con sé una scintilla divina fu condiviso prima dell’affermazione del Vangelo non sinottico di Giovanni dagli stoici, e pure in seguito a loro influenza l’idea finì in quel prologo evangelico. Il Vecchio testamento, comunque, a sua volta ci aveva già spiegato che Dio aveva soffiato per mezzo della sua ruach la nefesh, cioè attraverso la sua facoltà determinatrice e attualizzante la forma attiva animata dell’ente umano. Tali due dettagli (ruach e nefesh) diventeranno nella teologia cristiana lo Spirito Santo e l’anima individuale immortale. In un suo punto l’inno a Zeus di Cleante introduce direttamente nel testo il concetto chiave di Logos quale strumento di “in-formazione” del reale. Per dirla con Hegel esso costituisce il momento tetico, progettuale, il quale in atto sarà retto ontologicamente dallo Pneuma stoico. Il Logos nel pensiero stoico-eracliteo non rappresenta qualcosa di derivato da un principio primo. Ho notato simile coabitazione ab aeterno nel prologo del Vangelo non sinottico di Giovanni12. Filone di Alessandria con le sue idee teologiche sul Logos preneotestamentario edificò un fondamentale ponte tra stoicismo ed Ebraismo alla volta della loro fusione nell’esperienza cristiana. Gli stoici chiamavano “pneuma” il fattore reggitore degli enti animati e dell’intera realtà: ragione seminale. Questo “spirito” proveniente dal sommo unitario soggetto divino tutto inglobante, viene immaginato come soffio-di-fuoco e sarà la base teologica dello Spiritus Sanctus cristiano, la cui raffigurazione rimarrà infatti collegata alla “fiamma” (pensiamo alla Pentecoste o alla Trinità alla fine del “Paradiso” dantesco: «Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza; / e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e ’l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri»). L’ascendenza concettuale è così evidente che il Cristianesimo delle origini puntualizzerà che lo Spirito Santo è Dominus et vivificans. Non è stato Domina, secondo l’auspicio gnostico, per via della misoginia patristica. La Santissima Trinità cattolica dunque è stata concepita integralmente al maschile. Lo pneuma stoico, il cui concetto è presente nell’inno di Cleante a Zeus, rappresenta il Dio reggitore; il logos rappresenta il Dio produttore/creatore. Simile potere ontologico bipolare della divinità stoica unica e dello Zeus del filosofo di Asso, schema (Zeus, Logos, Pneuma) che si evolverà nella formazione cattolica del dogma trinitario divino, lo ritroviamo nell’episodio del dubbioso Tommaso davanti al Cristo risorto, allorché lo appellerà: «Signore di me e Dio di me». Vale a dire: “reggitore-della-mia-esistenza” e “causa-della-mia-esistenza”. Gesù ha assunto chiare connotazioni teologiche stoiche connesse in fusione con formali analoghi schemi forniti dalla teologia di Filone di Alessandria13. L’agire di Zeus, descritto nell’inno di Cleante, in quanto sostanza spinoziana, contempla una razionalità hegeliana ante litteram et sui generis, la quale nel filosofo di Asso ci riconduce a una radice eraclitea. Cleante al di là del momento tetico-logico ci mostra una contrapposizione nel reale fra ciò che rispetta e segue il Logos e ciò che nella sua possibilità di libertà possa sfuggirgli. È questo filosofo stoico nel suo inno a costruire l’agostiniana spiegazione sulla presenza del Male nel Mondo. Non è il divino che contempla nella sua produzione della realtà l’esistenza dell’iniquità. Come riecheggerà Agostino d’Ippona, Dio non è causa prossima del Male, bensì causa remota indiretta (origine) poiché sono le creature umane a operare secondo spirito malvagio di propria iniziativa (più o meno influenzata da fattori prossimi negativi). L’obiettivo di stoicismo e Cristianesimo rimane quello di ricondurre gli uomini all’osservanza della Legge divina, espressa grazie al Logos (il quale è attualizzato nella Natura per gli stoici, nella Torah per i Giudei, nel Verbo incarnato neotestamentario per i cristiani; ma in ogni caso come dice Cleante la Legge rimane per tutti θεοῦ κοινὸς νόμος). La dialettica stoica in Cleante che in Hegel sarà ab ovo “razionale” fra “negativo razionale” (momento del divenire seguente il tetico-logico) e “positivo razionale” è sorta sotto altro spirito speculativo e sotto altra dinamica. La divinità stoica postula logicamente e attua positivamente la sua legislazione ontologica: qui dal tetico-logico passiamo al “positivo razionale”; “negativo razionale” è un difetto di osservanza del Logos (un difetto più che altro pratico umano); qua non ci sono ancora le necessità hegeliana e spinoziana a “razionalizzare” tutto e persino il male. Il filosofo greco di Asso ci dice che Zeus riesce a riprendere tuttavia i fili del reale sfuggiti nel “negativo” e così a risanare la frattura tra negativo arazionale (si badi bene: non “razionale”) e Logos col suo “positivo razionale” (il quale sarebbe il complesso delle “ragioni seminali” immesse nella materia naturale). Cleante inquadra la cosa sopra un tavolo morale, e l’opposizione che ne viene fuori riguarda l’agire umano. Simile dialettica generale (tetico-positivo-negativo-positivo-tetico di apocatastasi) delinea il corso universale dato dagli stoici al Cosmo, dove dopo una finale conflagrazione universale ricomincia il ciclico ritmo descritto, improntato al suo interno da “fatalismo logico” (il quale costituisce la più profonda radice della “predestinazione luterana”, radice passante attraverso il pensiero teologico di Agostino d’Ippona). Suddetta stoica sequenza ciclica cosmica mostra avere un’ascendenza analogica induista: “creazione-conservazione-distruzione” da parte della Trimurti. Lo Zeus di Cleante è pure a suo modo di apparenza trinitaria, ma nei canali speculativi teologici ripresi da Filone di Alessandria: la trinità induista si evolve in quella stoica (Zeus, Logos, Pneuma), e questa infine si evolverà in quella cristiana (Padre, Figlio, Spirito Santo). La fase della distruzione rigenerativa è stato via via isolato e separato dalla concezione più schietta del divino. Riprendiamo lo schema della dialettica cosmica stoica: tetico-positivo-negativo-positivo-tetico di apocatastasi. Riesaminiamolo alla luce di Giudaismo e Cristianesimo. Il Dio Veterotestamentario (tetico) produce l’Universo (positivo), però l’uomo simboleggiato da Adamo ed Eva devia in relazione all’ordine divino dato (negativo). Qui le strade speculative di stoicismo, Ebraismo e Cristianesimo si separano. Il razionalismo panteistico stoico non era a vocazione nazionalistica bensì cosmopolitica e guardava all’umanità nel suo insieme indistinto. I Giudei in possesso di tradizionale forte spirito etnico, dettato dalla loro religione, hanno vissuto profondamente il “negativo stoico” delle vicende connesse alla sorte del loro antico stato nazionale. Il loro ritorno del “positivo” proviene dalla venuta del Messia liberatore con il ripristino di un terreno Regno di Dio (i cui sudditi sarebbero gli Ebrei). Il Cristianesimo rielaborò gli schemi visti stoico e giudaico. Mantenne il Dio personale ebraico strutturandolo teologicamente secondo canoni desunti da Filone di Alessandria e dallo stoicismo. Qua Dio, dietro suggestione induista, finirà per creare ex nihilo l’Universo (tetico e positivo). La concezione stoica ciclica del tempo fu abbandonata sulla scia lineare giudaica. Dopo il “peccato originale” di Adamo ed Eva (negativo) i cristiani posero una figura di Messia stoicizzante (positivo). Ciò costituisce un incontro a metà strada fra Ebraismo e stoicismo: non ci sono più un popolo nel senso etnico eletto di Dio e il bisogno di un parallelo Stato nazionale, adesso il popolo di Dio viene rappresentato dai battezzati (in virtù del nuovo sacramento che recupera il “positivo”) e viene inquadrato nella Chiesa (una santa cattolica apostolica), la quale ha preso il posto dello Stato nazione giudeo. Ritorna nel Nuovo Testamento in maniera aperta il concetto stoico di apocatastasi nella forma di “ultima restaurazione messianica del Cosmo” (ci si riferisce a una fase postapocalittica): ciò costituisce il tetico di apocatastasi a cui non v’è altro seguito nella teologia cristiana. Alle origini del Cristianesimo l’idea stoica di Cleante, espressa nel suo inno, di un emendante riassorbimento integrale del lato negativo della realtà, senza dunque procedere a soppressione (ma a conversione), era ancora sentita e qualche pensatore cristiano immaginò che anche Satana potesse essere recuperato alla fine dei tempi. La Chiesa, poi, poco dopo, qualificò eretica una simile visione. Cleante nel suo inno a Zeus non apprezza i piaceri legati alla corporeità, la scriteriata vocazione all’arricchimento e gli amanti della notorietà. Nel Cristianesimo patristico la sessuofobia fu radicale dopo la concezione neotestamentaria paolina un po’ più moderata. Il Giudaismo non era sessuofobico, bensì legato al vincolo procreativo del congresso carnale: l’Antico Testamento, a dispetto di Paolo di Tarso, celebra l’atto quale ripristino dell’unità androginica14. Il Cristianesimo non colse questo contenuto veterotestamentario e inventò un mito nuovo estraneo al testo ebraico, fondato sulla famosa costola di Adamo. Il divieto cristiano di accumulare ricchezze è un esplicito precetto evangelico. La conclusione dell’inno di Cleante propone uno spinoziano itinerarim mentis in Deum: l’auspicio è che gli uomini possano essere beneficiari di un’illuminazione divina, se non riescono da soli a conformarsi alla Legge-Logos, e cogliere in ogni caso il senso ontologico del Cosmo mediato dal Logos. A chiusura della mia analisi voglio far presente altre due cose. La prima è che la filosofa Simone Weil colse perfettamente il legame ideologico che univa l’inno a Zeus di Cleante di Asso alla fondazione del Cristianesimo, però la prospettiva fideistica di costei, che ha ribaltato di 180° lo sviluppo storico nel di lei pensiero filosofico-religioso, non le ha consentito di farsi convinta (correttamente) che le corrispondenze de facto marciavano in direzione confutatoria piuttosto che di conferma di fede15. L’ultima cosa che voglio dire a proposito delle analogie riguarda il Dio biblico e Zeus. Il primo nasce teologicamente quale riproposizione di Aton, quindi raffigura una divinità solare16. L’etimologia del nome del secondo riporta al sostrato indoeuropeo dove il concetto della radice è: “luce-del-giorno-proveniente-dal-cielo”. Pertanto Zeus e il Dio giudaicocristiano si pongono sulla stessa linea concettuale, nella quale hanno altresì in comune il kabôd biblico. Esso (volto comunemente con “gloria di Dio”) costituisce per la divinità “numero uno” veterotestamentaria la manifestazione della propria potenza uranico-solare. Uguale prerogativa di kabôd appartiene a Zeus dietro una facciata statica simbolica differente: il suo potere uranico-solare si rende manifesto attraverso il fulmine. Rappresentazioni di simboli diversi, ma unità concettuale dinamica in comune. Cleante nel suo inno menziona il fulmine di Zeus: κεραυνός, il quale è là nel testo greco qualificato a doppio taglio, infocato, imperituro. L’antico Testamento racconta che Dio mostra il suo kabôd grazie a una nuvola (elemento uranico) dal cui interno si manifesta un fuoco (elemento solare). Con medesimo fuoco (aysh) partito dal cielo, ci narra il testo ebraico, in una particolare mitologica circostanza, la divinità “numero uno” distrugge Sodoma e Gomorra coi suoi abitanti. I Settanta volgeranno il segmento che ci interessa con: «πῦρ παρὰ Κυρίου ἐκ τοῦ οὐρανοῦ».



NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive rinnovate”
 
1 Allo scopo di riallacciarsi a questa mia precedente trattazione indico dove trovarla: Gesù stoico e dionisiaco nella mia pubblicazione intitolata Partita a scacchi (2022).
 
2 Al noto romanzo di Aldous Huxley ho destinato una mia monografia: Il capitalismo impazzito Di Aldous Huxley (2015).
 
3 Per approfondimenti suggerisco di leggere dei miei studi: Radici egizie nella cosmogonia ebraica dentro la mia monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013) e Radici sumere di ebraismo e capitalismo all’interno dell’altra mia opera Note di critica (2017).
 
4 Al fine di approfondire il concetto relativo all’aggettivo “spinoziano” segnalo una mia analisi contenuta nel mio saggio Distopie occidentali (2023): Il nevrotico e distopico idealismo di Spinoza.
 
5 Si veda in direzione dell’approfondimento nella mia monografia già menzionata Ermeneutica religiosa weiliana (2013) dentro alla sezione recante il titolo Radici egizie parimenti già citata nella nota 3.
 
6 Nel mio saggio ricordato nella nota precedente nel segmento Il Dio del Tanak non è solo.
 
7 Vedasi nota 3.
 
8 Si può rilevare d’altro canto quale fosse l’atteggiamento epicureo leggendo un mio studio destinato a Lucrezio: Riflessioni sopra il “De rerum natura” lucreziano, contenuto nella mia pubblicazione Analisi letterarie e filosofiche (2023).
 
9 A chi volesse meglio conoscere il mio punto di vista consiglio di leggere: due mie monografie in particolare, Teologia analitica (2020) e Parricidio dantesco (2021); il mio scritto intitolato Guido Guinizelli e la nascita della sistematica caccia alle streghe presente nel mio saggio Radici occidentali (2021); e infine una terza mia monografia che ha trattazione tangente al tema e intitolata Il Medioevo futuro di George Orwell.
 
10 Alla volta dell’approfondimento segnalo una mia analisi: Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi nella mia pubblicazione Considerazioni letterarie (2014).
 
11 Si veda il mio lavoro citato nella nota 1 e nella mia opera Ermeneutica religiosa weiliana (2013) la sezione intitolata La “lettre a un religieux”.
[seconda parte di questo testo su internet]
 
12 A proposito di ciò si veda il mio scritto di nota 1.
 
13 Riguardo a tale argomento vedasi dentro la mia monografia Ermeneutica religiosa weiliana (2013) la parte recante il titolo La “lettre a un religieux”.
[seconda parte di questo testo su internet]
 
14 Si veda nota 10.
 
15 Per approfondire consiglio la lettura di una mia analisi: Cristianesimo e verità in Simone Weil nel mio saggio Note umanistiche (2020).
 
16 Per un approfondimento vedasi nota 6.

DALLE PAROLE DI GESÙ CRISTO A QUELLE DI PAULINE HARMANGE

di DANILO CARUSO
 
I Vangeli di Matteo e Marco contengono i celebri brani in cui Gesù comanda ai suoi mal disposti discepoli di lasciare che dei bambini gli andassero vicino, ammonendo i primi sul fatto che il regno celeste divino è riservato a soggetti paragonabili ai secondi. Li ho esaminati negli originali in greco antico, e mi sono reso conto che il discorso possiede un significato diverso da quello che uno sprovveduto ingenuo lettore della traduzione dà. Chi non ha svolto il lavoro d’analisi che di seguito esporrò viene indotto a credere che il Messia si stia riferendo alla semplicità, alla cordialità, alla benevola disposizione dei fanciulli nei confronti degli altri e del mondo. Leggendo una qualsiasi traduzione non ci vuole niente a uscire fuori del binario concettuale corretto: “bambini”, “fanciulli” sono termini indicanti categorie umane positive, degne del massimo ossequio. Non che il termine greco corrispondente nei testi evangelici in questione meriti minore rispetto, tutt’altro. La pietra d’inciampo è di natura semantica: «παιδία», al singolare το παιδίον, è una parola molto precisa e indica i bambini esclusivamente maschietti. La radice del termine è la stessa di πέος, membrum virile. Quando Gesù ci dice che chi entrerà nel celeste regno divino è τοιοῦτος a un παιδίον ci sta esponendo un ragionamento misogino: il genere-qualità da possedere è la forma biologica del vir. E la cosa non deve turbare: a conoscere l’antropologia biblica, specialmente quella veterotestamentaria legata al discorso della originaria adamitica scissione androginica1, comprendiamo benissimo come le donne rappresentino in quell’ottica intollerabile il Male. Posssono essere recuperate, ontologicamente, soltanto in occasione di prospettive di riunificazione androginica: una è il congresso carnale procreativo in cui si ricompone «la carne primigenia»; l’altra è la vita dei risorti in Cielo col riassorbimento integrale del femminile nel maschile (ciò vuol dire essere-come-angeli-nei-cieli). Quanto ci ha chiarito il Messia nei brani evidenziati è che coloro, fra gli esseri umani, muniti di membrum virile salveranno il mondo. Alle donne è strutturalmente impedito un concorso in posizione di vertice dirigenziale (la figura della Madonna rappresenta una desessualizzata incubatrice): infatti gli apostoli erano tutti uomini e il sacerdozio, secondo la consequenziale posizione misogina tomista2, dovrebbe essere esclusivamente maschile, riservato al genere dei παιδία. La riprova che Gesù abbia formulato un ragionamento discriminatorio antifemminista e che fra i fanciulli che lo avvicinarono non c’era nemmeno una bambina la ritroviamo sempre in sede semantica. Se il Messia non avesse voluto porre l’accento sulla forma biologica (di non secondario peso, come detto e visto, nelle faccende teologiche della tradizione giudaicocristiana) avrebbe usato al posto di παιδίον l’altro termine concettualmente più aperto παῖς. Questo infatti grazie all’uso degli articoli ὁ ed ἡ indica la variabile forma di genere: fanciullo, fanciulla, ragazzo, ragazza. Nel caso in cui Gesù avesse adoperato quest’altra parola per riferirsi agli astanti bambini avrei potuto reputare possibile che stesse facendo un altro tipo di discorso imperniato su parametri spirituali di semplicità e riguardanti entrambi i generi biologici e grammaticali. Il termine neutro παιδίον è collegato all’idea di παιδεία (educazione). L’insegnamento e l’apprendimento nel mondo grecoromano e in quello ebraico, intesi nel loro là predominante senso (assurdamente ritenuto più serio e più nobile), costituiscono robe da soli maschi. Il Cristianesimo porterà a nozze tutte le misoginie esistenti dentro l’Impero di Roma3, a dispetto dell’embrionale femminismo platonico e dell’altra posizione progressista epicurea4. Rimanendo al filo dell’argomentazione principale, la quale ho basato sui dettagli semantici, possiamo concludere che il Messia non ha detto ai suoi discepoli di fargli venire incontro bambini e bambine dal candore esemplare (non che tale sfumatura a posteriori sia ingiusta nell’apposizione) ma ha affermato che gradiva molto la vicinanza degli “educandi”: tale voltura ci rende meglio παιδία. Lui non sta evocando una categoria di spirituale fanciullesca semplicità, sta indicando una categoria maschile pedagogica. La supremazia maschile riecheggiata nella teologia di Tommaso d’Aquino non è peregrina. La misoginia del Cristianesimo ha rappresentato una delle pagine più orribili della storia occidentale, gli effetti della cui martellante un tempo propaganda, a mio modesto giudizio, sono rimasti sedimentati anonimi nell’inconscio maschile. La facilità degli odierni tragici femminicidi, senza che ci sia una barriera psichica a un’azione di uccisione, secondo me, deriva da un solco avito, proseguito in qualche modo silente e senza coscienza precisa di sé. È stata la religione cristiana a dimostrare in maniera così incisiva ed evidente che si possono maltrattare, torturare e uccidere le donne in guisa sadica al punto tale che scomparsa oramai dalla fine del XVIII secolo la caccia alle streghe tuttora quell’irrazionale nefando deprecabile slancio, così ben inculcato, è rimasto nell’animo maschile di quei soggetti di più bassa maturità psichica (quelli che io chiamo “freudiani”, opposti ai più evoluti “junghiani”: faccio un discorso di grado libidico, non di discepolanza agli studiosi da cui ho tratte le denominazioni5). In parole povere è sopravvissuta una forma mentis al di fuori della coscienza della fonte: i criminali rei di femminicidio seguono una suggestione dell’Ombra junghiana senza sapere più una pseudogiustificazione ideologica, sono psicopatici vittime di un archetipo negativo, l’archetipo dell’inquisitore, in senso lato ante litteram, a partire dall’epoca del femminicidio di Ipazia di Alessandria, il modello di nevrotico fortemente disturbato uccisore, torturatore e stalker di donne. Non mi sono testé speso in questi ragionamenti qui per ludo divagatorio, ho voluto creare anzi le premesse in vista di un’ulteriore trattazione fondata sugli aspetti semantici. Sono rimasto non poco sconcertato nel corso del mio esame sulle parole del Messia che qua ho sottoposto ad analisi allorché ho notato che παιδίον non è correlato in virtù della sua radice solo a παιδεία, ma anche ad altri inquietanti termini: πῦρ (fuoco), πυρά/ή (pira). I concetti di purificazione, di riconduzione alla norma/normalità, di formazione (educativa) costruiscono un ponte tra questi due e i παιδία di Gesù. I cristiani sono gente su cui scende il “fuoco” dello Spirito Santo ad animarli, “infuocati” divengono purificatori (a loro volta) a quanto pare grazie sempre al “fuoco”. Il rogo è stato tipico dei cristiani: streghe, omosessuali, Giudei, intellettuali dissidenti sono finiti sopra una “pira” a opera degli educandi-del-Messia diventati adulti. La domanda è: quanto c’è di potenzialmente e di profondamente inconscio nelle parole di Gesù sui bambini? Io parlo da junghiano, cogliendo a posteriori un contenuto di profondità che storicamente si è concretizzato. Constato che i roghi cristiani erano inseriti nel DNA concettuale originario di questa religione. Tale pena di morte per gli omosessuali nell’Impero romano cristianizzato riale alla fine del IV secolo. Ricordo altresì che il cadavere di Ipazia nel 415 uccisa da estremisti cristiani fu poi bruciato. Verrà poi tutto il resto messo in pratica con logica nazista. È possibile che i principi ideologici del Cristianesimo contenessero pericolosissime radici germogliate poi nell’inconscio di soggetti deformati da un’educazione fortemente deviante? Io rilevo di sì a più livelli analitici (storico, concettuale, psicanalitico). Simili educandi/educati nelle parole del Messia, parole in greco antico ritaglianti un contorno inconfondibile, mi rammentano i pompieri di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury6: i cristiani delle origini bruciavano pure i libri con uno slancio non dissimile da quello mostrato dai nazisti. I cristiani hanno bruciato una più libera Civiltà occidentale per rimpiazzarla con una società nevrotica lacerata da irrazionali scontri teologici. Dai παιδία di Gesù sono discesi gli illiberali costruttori di un mondo distopico7, perché sembra che fossero concettualmente programmati a ciò, a edificare un mondo dove ὁ παῖς doveva fagocitare ἡ παῖς anche al costo di disintegrarla letteralmente (bruciarla) in una sorta di sadico (figurato cannibalesco) rito8. Questi due termini greci (in verità uno, differenziato e polarizzato dall’articolo) appartengono alla stessa famiglia di radice di quelli riportati sopra. La dicotomia creata dagli articoli, la quale esploderà nevroticamente nella teologia cristiana (di impronta stoica9) è purificatore/purificata (inquisitore/strega, uno-che-porta-il fuoco/una-che-viene-bruciata). V’era una bomba nevrotica a orologeria nella testa dei cristiani, ed è scoppiata peraltro velocemente e durati molto a lungo sono i suoi effetti. Tanto che, a mio modestissimo modo di valutare, il binario suddetto in una malaugurata maniera è proseguito per inerzia archetipica sino a oggi nonostante si sia persa la visione coscienziale individuale della stazione di partenza. Nel 2020 è stato pubblicato in Francia un libro intitolato “Moi les hommes, je le déteste” opera di Pauline Harmange, la quale ha fatto parlare di sé per via di questa sorta di manifesto misandrico. L’ho letto con cura, ho compreso e condiviso le ragioni dell’autrice. Ci sono stati dei lettori che invece sono rimasti scandalizzati e urtati da quell’esposizione di idee, che io ritengo lecita. Nella prima parte di questo mio studio ho affrontato il tema della misoginia nella cultura occidentale individuandone le radici della manifestazione attuale di oggigiorno nel sistema ideologico cristiano. Leggere questo libro della Harmange senza possedere una sufficiente nitida obiettiva visione della storia dell’Occidente cristianizzato non conduce a un giudizio finale ponderato. Non sto dicendo che bisogna coltivare una forma di odio antimaschilista, sto affermando che tale posizione della scrittrice francese non è infondata, nel senso che non spunta dal nulla, da deliranti fantasie. Nutrire rancore nei riguardi dell’universo maschile occidentale si rivela naturale, si mostra spontaneo, meccanicamente consequenziale. Chi studia (bene) conosce come le donne siano state discriminate, perseguitate, torturate, uccise con spirito più o meno sadico per troppi secoli. Se una di loro adesso, nella veste di intellettuale, colpevolizza gli uomini della società cristianizzata, rei di gravissima misoginia e di aver frenato il progresso paritario per eccessivo tempo, ci sta. L’autrice francese stessa è però la prima a puntualizzare che si tratta di misandria non violenta: la stessa cosa non si può dire della misoginia cristiana e post-cristiana (questa seconda non porta il disprezzo teologico, porta questo disprezzo, come ho spiegato, nella forma laicizzata intramondana smemorata; chiamiamola altresì una forma di potenza nietzschiana). Chi è rimasto disorientato di fronte allo spirito di “Moi les hommes, je le déteste” pensi alla poesia di Primo Levi “Se questo è un uomo” e voglia comprendere, in virtù di un pertinente paragone, un animo mortalmente ferito. Il libro della scrittrice francese denuncia secoli e secoli di sadica misoginia. Capirlo, in verità, per il lettore impreparato e superficiale non è facile: Pauline Harmange non ci parla direttamente del passato, ci parla dei suoi frutti nel presente, ci paga gli interessi e non ci offre il capitale. Il lettore a cui questo manca non comprenderà l’intero e la verità. Questo libro mi è piaciuto molto: non istiga all’odio, sollecita alla riflessione. Ed è chiaro che, secondo il mio modestissimo valutare, nelle teste in cui non ci sono una gamma di idee pertinenti alla misurazione e una parallela abilità di metro dialettico, la riflessione profonda (femminista) auspicata, nella mia impressione, dall’autrice francese non potrà trovare casa. Ci sono dei dettagli in tale testo che mi hanno colpito: il primo è l’esergo plathiano; io ho dedicato due miei saggi a quella grandissima poetessa e scrittrice che è stata Sylvia Plath10. Mi sono sentito subito in sintonia ideale con Pauline Harmange. È costei a rammentarci che il varo di un manifesto misandrico non sarebbe potuto accadere al di là della precedente ampia e nefasta misoginia. Tale opera contiene una considerevole profondità psicanalitica, la quale la rende una costruzione filosofica di sprone non all’odio. La misandria rappresenta una base di partenza nel ragionamento, non il punto di approdo. Nel mezzo sta l’auspicio di cambiamento: gli uomini possono liberarsi dalle suggestioni maschiliste e dalle orrende edificazioni concettuali in merito? Esiste una pesante non trascurabile letteratura misogina dai Padri della Chiesa in poi (la quale si riallaccia alla Bibbia) nei cui confronti “Moi les hommes, je le déteste” costituisce un’inezia. Pauline Harmange ha scritto, secondo me, cose vere; la sua analisi prosegue idealmente quella della mia prima parte qui. La forma mentis stoico-cristiana agisce tutt’oggi ancora su vasta scala: c’è un polo maschile che predomina praticamente su tutto e un altro femminile il quale si rivela passivo. Le politiche sulle pari opportunità sono sì giuste, e sono meglio di niente, però a me sembrano tirate per i capelli, figlie di una da me interpretata quale necessità di facciata. La sostanza mi sembra quella evidenziata dall’autrice francese, dove per giunta primeggiano (a dir di lei che condivido) uomini senza alte qualità. Nel mondo odierno, costei osserva pure che i responsabili di violenza sulle donne sono quasi sempre di sesso maschile, e che quando sono le donne a essere autrici di crimini a danno del sesso opposto tra le prime una fetta è stata in precedenza vittima di violenze subite da uomini. Pauline Harmange rammenta il forte squilibrio storico nel rapporto sociale fra i due sessi tiranneggiato dalla comunità maschile (dai teorici espliciti della misoginia ai conniventi verso le banalità del male). Un femminile sentimento di rancore può produrre la misandria, risultato di una plurisecolare repressione. C’è un brano in questa pubblicazione della scrittrice francese il quale ho giudicato molto rilevante in relazione alle mie idee junghiane circa la formazione nevrotica del maschilismo misogino cristiano. Prima dell’uscita di “Moi les hommes, je le déteste” ho spiegato11 che l’asse delle facoltà razionali (“ragione” e “sentimento”), presentato nella psicologia analitica di Jung, è stato spezzato nel Cristianesimo dove il “maschile” viene associato alla “razionalità” stricto sensu e indebitamente contrapposto al “sentimentale” a sua volta associato al “femminile”. Cosicché in seguito a simile arrocco nevrotico il maschile-razionale è stato proclamato il polo del Bene, e il femminile-sentimentale (formato da potenziali streghe, porte dell’inferno) il polo del Male. Pauline Harmange ha intuito questa radice profonda dicotomica: ne ha parlato in salsa contemporanea. Allorché ella dice che se nel corso di uno scontro di coppia l’uomo si appella alla ragione contro l’emotività femminile (magari disarticolata) non fa altro che riproporre la cliché dello schema nevrotico maschile da me proposto. L’analogia formale è perfetta. In più l’autrice francese, che si è unicamente concentrata sulla contemporaneità, nella sua opera ha chiarito il modo in cui la pressione emotiva familiare e/o di coppia ricada quasi esclusivamente sulle donne, creando così un sovraccarico psichico, mentre gli uomini generalmente si smarchino in direzione di un disimpegno emotivo essendo gli pseudocampioni della ragionevolezza (dal loro comune medio punto di vista). Tale modello possiede un retaggio hegeliano, giacché per Hegel in relazione alla casa e alla famiglia nella coppia il femminile è centripeto e il maschile è centrifugo: la razionalità hegeliana conduce fuori-di-casa. Possiamo notare come certi schemi repressivi misogini siano stati ben teorizzati, sino a perdurare ai nostri tempi. Pauline Harmange ha trattato del presente obiettivamente, sta al suo lettore afferrare il senso corretto (pedagogico, filosofico, psicanalitico) di quelle parole, le quali non meritano di essere fraintese né squalificate.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive rinnovate”
 
1 Per approfondimenti vedasi nel mio saggio Considerazioni letterarie (2014) lo studio intitolato Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi.
 
2 A chi volesse approfondire indico una mia analisi dal titolo L’irrazionale misoginia tomista presente nella mia monografia Teologia analitica (2020).
 
3 Su tale tema un mio lavoro: I protopatristici Aristofane e Giovenale, nella mia pubblicazione Percorsi Critici (2020).
 
4 A proposito dell’epicureismo consiglio di leggere un mio scritto nella mia pubblicazione Analisi letterarie e filosofiche (2023): Riflessioni sopra il “De rerum natura” lucreziano.
 
5 Per approfondimenti indico nella mia opera Filosofie sadiche (2021) la sezione dal titolo L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard.
 
6 A tale romanzo distopico ho dedicato una analisi: La caverna bradburiana dei libri prohibiti, nel mio saggio menzionato nella nota 3.
 
7 A questo riguardo reputo interessante segnalare una mia monografia: Il Medioevo futuro di George Orwell (2015).
 
8 Un approfondimento sul sadismo è possibile mediante un mio studio contenuto nella mia pubblicazione indicata nella nota 5: La tanatolatria di De Sade.
 
9 Ai rapporti tra Cristianesimo e stoicismo ho dedicato parte di una mia analisi intitolata Gesù stoico e dionisiaco presente nel mio saggio Partita a scacchi (2022) e un altro lavoro intitolato Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo all’interno della mia opera Prospettive rinnovate (2023).
 
10 Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016), Sulla poesia di Sylvia Plath (2016).
 
11 Ne ho parlato trattando di Pascal nella mia opera Letture critiche (2019) a pag. 11.

LA COMPLESSA DISTOPIA DI NAOMI ALDERMAN

di DANILO CARUSO

Quando si scrive un romanzo distopico il sistema dipinto nella narrazione costituisce l’utopia negativa, pertanto si tende a esaltare (indirettamente) la situazione di segno opposto, la quale assumerebbe il valore di utopia (positiva) nel comune inteso senso del termine. Un lettore superficiale di “The power”, testo di altezza letteraria pregevole e opera del 2016 di Naomi Alderman, autrice di eccellenti abilità e capacità in materia di creazione narrativa, potrebbe rimanere disorientato non poco riguardo a quanto testé premesso. Quello che potrebbe disorientare il lettore sprovveduto inerisce agli aspetti ideologici fondanti di suddetto romanzo. In esso il gentil sesso si carica molto pesantemente del ruolo distopico. Donne e ragazze in un’epoca paragonabile alla nostra all’improvviso sviluppano un potere elettrico (il quale dà il titolo alla traduzione italiana: “Ragazze elettriche”). Come in una nemesi radicale vengono ribaltati nel giro di pochissimo tempo i rapporti di forza (fisica, direi in senso lato) con gli uomini. La distopia di “The power”, scritta da una donna femminista, potrebbe dare l’impressione di calcare troppo la mano nel mettere in cattiva luce il gentil sesso. Naomi Alderman si è formata da piccola dentro un ambiente familiare improntato all’ortodossia giudaica, maturò poi subito da giovane uno spirito e una vocazione attivistica femminista. Il suo primo romanzo “Disobedience” (2006) segnò il suo allontanamento dall’Ebraismo ortodosso. Se la capacità femminile in “The power” di gestire a proprio piacimento l’elettricità emanata dal proprio corpo, grazie a un nuovo organo sviluppatosi lungo le clavicole, ha rovesciato il precedente storico confronto uomo/donna, dove era stato il primo a detenere la maggiore forza muscolare, ora lo strapotere speculare distopico rappresentato dalla scrittrice inglese a beneficio delle donne rende il potere elettrico femminile (gli uomini sono costitutivamente esclusi dalla novità naturale) qualcosa appunto che potrebbe turbare ex abrupto il lettore e l’immaginario endogeno spettatore. La facoltà di gestire simile capacità personale basata sull’elettricità in virtù di cui si può anche facilmente fulminare chiunque stia a pochi metri porta le donne del romanzo a eccessi sadici. Sarebbe perlopiù spontanea la difficoltà ad accogliere una siffatta ipotizzata radice concettuale, e non condividerla, nel suo equivocato apparire quale costituente ideologica dell’opera. Non si può facilmente apprezzare detto ribaltamento ideale così perfetto nella rotazione simmetrica dei ruoli storicamente assunti in precedenza: la misoginia giudaicocristiana1, la persecuzione con le conseguenti torture e uccisioni di streghe2 non dovrebbero naturalmente legittimare per contrasto e compenso femminile misandria sadica e omicida in una seconda superficialmente ritenuta in nemetica fase. Imboccando una simile via di esame disattenta si potrebbe ritenere che nel sostrato profondo del romanzo di Naomi Alderman possano risiedere input e motivazioni in sé e per sé non femministi. Chi legge la mia produzione intellettuale conosce bene la mia avita posizione femminista. In passato mi era capitato di leggere “Herland” di Charlotte Perkins Gilman, nota attivista americana in difesa dei diritti delle donne, e di aver trovato quel testo nella sostanza più distopico che motivo di sprone nella corretta e utile maniera all’ottenimento di risultati veramente “femminili”3. Come ho rammentato Naomi Alderman è cresciuta e si è formata in una famiglia di elevata cultura umanistica e religiosa. “The power”, prodotto di una donna femminista, che in apparenza potrebbe sembrare di non compiacere direttamente il femminismo pacifico merita accurata attenzione. L’analisi in interiore opera evidenzia l’inversione delle parti storiche in detta creazione letteraria: agli uomini è toccata la sorte delle femmine storicamente perseguitate (specialmente nella forma pregiudiziale psicopatologica di streghe), alle donne il compito dei vecchi storici persecutori (in ispecial modo inquisitori cattolici e protestanti). In simile meccanismo che scambia i ruoli storici a vantaggio di quelli distopici si nota un dettaglio nevralgico in funzione della mia analisi: nel romanzo di Naomi Alderman le donne sono state rese virtualmente maschi. Gesù Cristo in un vangelo apocrifo afferma che nessuna donna entrerà nel Regno dei cieli se prima non sarà resa maschio. L’autrice inglese ha prestato molta attenzione alla figura di Gesù come testimonia il suo romanzo del 2012 “The liars gospel”. Oltre a questo dettaglio ho rilevato un altro particolare il quale si rivela molto significativo. Il potere elettrico attribuito alle donne mascolinizzate rappresenta il potere di Zeus, il quale costituisce l’equivalente concettuale dinamico del Dio Veterotestamentario. La radice del nome Zeus si riallaccia direttamente alla semantica e all’etimologia indoeuropea dove il concetto di riferimento è quello della “luce-del-giorno-proveniente-dal-cielo”. Tra Giudei e Greci antichi mutava soltanto la simbologia statica. Zeus ha i fulmini e fulmina, le donne di “The power” idem. Il Dio del Tanak rappresenta una divinità uranica solare derivante da Aton. Il kabôd del Dio biblico (la gloria divina) costituisce la manifestazione della sua potenza solare, ed è analogo al fulmine di Zeus: i fulmini (l’elettricità uranica) sono il kabôd di costui. Aton, il Dio biblico e Zeus raffigurano personaggi simbolici di una medesima gamma dinamica concettuale. Vediamo in “The power” che il kabôd è stato acquisito con la sottostante potenza dalle donne, rese alla fine formalmente maschi: tutto quanto operano le donne del romanzo di Naomi Alderman in possesso del potere di Zeus lo attuano perché sono state mascolinizzate. Non sono più donne, sono state snaturate. Qualcosa di analogo, con tutt’altre dinamiche, accadeva in “Herland”. Il mascolinizzare il femminile non aggiusta niente. È questo il senso della distopia di “The power”, non la complementare esaltazione del “maschile”. La dicotomia cardine è un’altra riguardante l’assunzione di pregressi atteggiamenti negativi dell’altro sesso: la mascolinizzazione delle donne rappresenta distopia, costoro non devono trasformarsi in sedie elettriche, in artefici di pseudonemetiche sofferenze e morte. Il lettore accorto dunque si rende conto, pensando profondamente, di quale sia la reale chiave di lettura data al romanzo da Naomi Alderman e di quale perciò sia la vera chiave dicotomica da usare. Una lettura superficiale potrebbe fuorviare chiunque. L’analisi critica di un testo necessita di acutezza, profondità, pensiero. “The power” è un romanzo di pregio e di ottima ideologia di cui cogliere e apprezzare i dettagli. Nel mio discorso ne voglio segnalare un altro: a carico degli uomini in Bessapara (distopico Stato femminista moldavo) si trova riversato il misogino antico diritto attico di famiglia attinente alle donne, ovviamente in salsa misandrica. Il gioco rotante della specularità che inverte maschile e femminile, dalla storia alla distopia, dà il senso di “The power”: bisogna evitare simile perfetta conversione e non trasferire il sadismo a una nuova categoria dominante femminile. Si sbaglierebbe a leggere tale opera di Naomi Alderman nella direzione di un recupero valorizzatore del “maschile” che fu sadico a fronte di una complessa distopia del “femminile”. In “The power” sono le donne a diventare persecutrici dei maschi. Quanto potrebbe non riuscire a ben capire un lettore poco attento e poco riflessivo immediatamente è perché ciò avvenga. E costui potrebbe immaginare possibili sbagliate interpretazioni: 1) l’autrice attua un meccanismo puramente scenico letterario di rovesciamento della storia passata (soprattutto di ambienti cristianizzati) o 2) la scrittrice inglese in modo inconsapevole mette le donne in distopica luce nell’inconscio ossequio della misoginia veterotestamentaria precedentemente metabolizzata. Nel momento in cui si ricordasse il contenitore culturale formativo ebraico-umanistico dell’autrice inglese ovviamente occorre da parte di tutti una maniera pulita. Dal mio canto in tutta la mia produzione intellettuale, ogni volta che ho trovato spazio pertinente, ho sempre condannato il deprecabile antisemitismo, assieme ad altri nefandi e nefasti crimini contro l’umanità. Allorché si parla di misoginia veterotestamentaria il commentatore serio mira a non essere equivocato. Io ad esempio ho studiato, analizzato e parlato a lungo nei miei scritti della tradizione giudaicocristiana e l’ho sempre compiuto, come si deve e come si addice a persona votata all’onestà intellettuale, sotto il profilo concettuale, cioè riferendomi agli elaborati di pensiero altrui inerenti a teologia e ad antropologia. Io ho esaminato, e continuo ad analizzare, idee. Se ce ne sono di non conformi a una, secondo me, sana razionalità le evidenzio e le discuto nella qualità di prodotti culturali. Chi si avventurasse su posizioni dell’erronea via 2) deve rammentare che i concetti teologici e antropologici antifemministi veterotestamentari sono pregressi ed esterni rispetto a “The power”, elaborato meritevole nel suo genere. Rammentare la misoginia del Tanak in guisa inappropriata non è conveniente. Studio scientifico ha luogo quando si conduce l’indagine sui binari sopra evocati: allora si può parlare di tutto, avendo grazia intellettuale e precisione. A chi sembrasse che Naomi Alderman possa aver metabolizzato nella sua prima giovinezza l’idea ortodossa ebraica della donna espressa nel Tanak, e che tale cosa possa aver lasciato comunque degli schemi archetipici nella sua forma mentis anche dopo “Disobedience”, e che ciò possa essere alla base di contraddizioni, sappia che si sbaglia, come già visto nella prima parte della mia analisi. E sto parlando proprio sotto un profilo psicanalitico, la cui prospettiva si offre all’analisi letteraria (io poi nei miei lavori in generale ho applicato la psicologia analitica di Jung ad autori e a opere esaminate). Lo spirito di “The power” contesta correttamente l’idea di subordinazione e di colpevolizzazione della donna in quanto genere che compare in “Genesi” (non dimentichiamo che furono simili pregiudizi, uniti a quelli greci e romani4, ad alimentare la Patristica e quindi la caccia alle streghe): simile antifemminismo veterotestamentario non rappresenta un mistero ignoto. Si può condividere o no il pensiero degli altri, ma la cosa deve sempre rimanere ancorata al consono piano (idest quello dei concetti) e vincolata ai giusti canoni di pacifico dialogo e educato, senza trascendimenti: la violenza appartiene agli animali e non agli esseri umani, l’offesa costituisce la risorsa di chi non ha idee nella testa e non di chi esprime ragionamenti onesti. Le epoche nelle quali si perseguitavano gli Ebrei, le streghe, i dissidenti sono state degli eventi reali su scala considerevole, e potrebbero tornare a ripetersi. È possibile criticare le idee di chiunque nello scientifico modo, tuttavia non è, fu e sarà lecito convertire una qualsiasi osservazione (per giusta che possa manifestarsi) in una generalizzazione razzista. Risale al 24 novembre 2018 un articolo su THE GUARDIAN dove Naomi Alderman parla del suo disagio di crescita e di formazione all’interno di schemi familiari e sociali improntati all’Ebraismo ortodosso. E rammenta come avesse iniziato a lavorare al suo primo romanzo “Disobedience” sin dal 2001. Ci racconta della maniera in cui il rigore religioso fosse una faccia della medaglia di quella vita contraddittoria. Gli attentati alle Twin Towers dell’undici settembre misero in crisi il suo equilibrio precedente. Da ciò emerge ad esempio il rifiuto dell’omofobia biblica (la quale non appartiene soltanto a Giudei ortodossi ma pure al Cristianesimo radicale) da parte della scrittrice inglese: “Disobedience” narra di una lesbica figlia di un rabbino. In un altro articolo, sempre sulla testata inglese menzionata, del 28 ottobre 2016 Naomi Alderman espresse apprezzamento verso i suoi genitori per averle trasmesso lo spirito della curiosità intellettuale nonostante loro agissero nei confini di una cornice culturale conservatrice. In quella sede espresse altresì il suo dispiacere a causa del fenomeno storico dell’antisemitismo cristiano5. THE GUARDIAN in questo secondo articolo l’ha definita “Atwoodian” giacché Margaret Atwood, celeberrima autrice tra l’altro di “The handmaid's tale”, è stata sua mentore.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive rinnovate
https://www.academia.edu/105610295/Prospettive_rinnovate
 
1 A tal riguardo suggerisco di leggere un mio lavoro intitolato Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi contenuto nella mia pubblicazione Considerazioni letterarie (2014).
https://danilocaruso.blogspot.com/2014/06/antropogonia-e-androginia-nel-simposio.html
 
2 A quest’altro proposito il consiglio di lettura di un mio scritto riguarda: Guido Guinizelli e la nascita della sistematica caccia alle streghe dentro la mia opera recante il titolo Radici occidentali (2021).
http://danilocaruso.blogspot.com/2021/07/guido-guinizelli-e-la-nascita-della.html
 
3 Per approfondimenti rinvio al mio relativo studio: Il femminismo distopico di “Herland” nella mia monografia del 2022 Letteratura e psicostoria.
https://danilocaruso.blogspot.com/2022/01/il-femminismo-distopico-di-herland.html
 
4 Allo scopo di approfondire indico un mio lavoro: I protopatristici Aristofane e Giovenale presente all’interno del mio saggio del 2020 Percorsi critici.
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/08/i-protopatristici-aristofane-e-giovenale.html
 
5 In relazione a questo tema reputo interessante segnalare un mio scritto in cui ne parlo: Nevrosi e irrazionalismo in Agostino d’Ippona nella mia pubblicazione Teologia analitica (2020).
http://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/nevrosi-e-irrazionalismo-in-agostino.html

IL PIANETA MADRE? E LA PRIMA INVASIONE…

di DANILO CARUSO
 
Nel 2016 è salito all’onore delle cronache scientifiche la scoperta di un esopianeta all’interno della Costellazione del Centauro, e più in particolare nel trinitario sistema di soli di Alfa Centauri, avente ESI (Earth similarity index) 0,87. Queste tre stelle sono così disposte: Alfa Centauri A e B possiedono una vita di coppia giacché un punto di massa in comunione le ha rese orbitanti rispetto a sé secondo un analogo arco temporale (non sono orbite coincidenti); Proxima Centauri ha preso quale riferimento della propria orbita il superiore sistema doppio. Tale terzo sole costituisce la stella più vicina al nostro sistema solare. L’esopianeta di cui ho accennato in apertura ruota attorno a detta terza stella: è stato denominato Proxima Centauri b. Le ulteriori scoperte scientifiche su Proxima b mi hanno condotto a delle particolari riflessioni sulla scia della mia idea di una passata emigrazione interplanetaria1. Come ho già puntualizzato in origine dei miei ipotetici discorsi (in attesa di eventuali solidi riscontri di archeologia extraterrestre) non ho preso le mosse dalle teorie di Zecharia Sitchin, perciò ho scartato ab ovo l’dea di una manipolazione genetica di alieni sopra ominidi terrestri. Per me, come dissi, è giunta sulla Terra la razza umana da altrove, in un piano di colonizzazione dei pianeti abitabili allora del nostro sistema solare (in aggiunta alla Terra credo Venere, Marte e Fetonte). L’obiettivo di quest’analisi non è quello di essere ripetitivo al di là della necessaria rievocazione nell’impianto analitico, bensì quello di esporre le novità nella mia costruzione e di concentrarmi dunque sull’evocato Proxima b. Proprio in esordio della mia teoria migratoria semplice sostenni la possibilità che le terrestri manifestazioni documentali di pensiero più antiche possano contenere, a mo’ di fossili, tracce nascoste di quegli eventi extraterrestri legati comunque alla memoria umana. Sul nostro pianeta esiste una cesura fra “preistoria” e “storia”, non sappiamo praticamente gran che di ciò che non ha con sé documenti scritti. Simile assenza non può automaticamente portare a cestinare l’ipotesi di un’antica, per noi preistorica, civiltà sulla Terra in possesso di altissima tecnologia. Non è detto che dovesse essere sparsa sul territorio a 360°. I livelli demografici noti del passato ci parlano di quattro gatti in rapporto alla crescita degli ultimi secoli. Quindi è possibile che stessero concentrati particolarmente in una sola area. Qua e là non è stato trovato nessuno strumento di tecnologia avanzata, vistosi prodotti però sì (nessuno ad esempio ancora ha una certezza sulle modalità costruttive delle grandi piramidi egizie). Condivido l’interesse di chi indica l’Antartide quale zona da sottoporre ad attenzione archeologica. Parecchio tempo fa ho sentito l’idea per cui l’asse terrestre si sia inclinato spostando il continente antartico da una posizione, per così dire, australiana, a quella di Polo Sud attuale: è possibile che sotto quei ghiacci ci sia una preistoria diversa? Solo l’archeologia ce lo potrà dire. Per il momento torno a quella che, al mio uopo, avevo definito “archeologia letteraria”. Esistono narrazioni che possono disvelare l’immagine originaria, grattando il mito superficiale, e restituirci una verità la quale si era persa dentro la sovrastruttura mitologica? Debbo aggiungere che una tale operazione possiede uno spirito junghiano, e pertanto mi trovo a mio agio. Illustrerò alcune caratteristiche note nel pubblico mondiale dominio di Proxima b2, e poi le collegherò alla mia ottica. Va innanzitutto rammentato che ci si chiede se tuttora ci possa essere (stata) vita intelligente su tale pianeta che avrebbe (avuto) un’atmosfera somigliante alla nostra. La situazione attuale comporta per Proxima b un blocco di un suo possibile originario moto rotatorio attorno al proprio asse per via del campo di gravitazione molto ravvicinato della sua stella: in parole povere quanto accade alla Luna con la Terra, un emisfero è fisso sempre da un lato e l’altro dal suo nel tragitto rivoluzionario. Su Proxima b c’è dunque una facciata non illuminata e fredda, e un’altra con connotazioni opposte. In tale regime la vita potrebbe essere (stata) più favorita nella fascia anulare intermedia dove l’acqua né ghiaccerebbe né evaporerebbe. Suddetto stadio troverebbe il pianeta nelle seguenti condizioni. La luce che vi si avvicina dalla sua stella non è molta (il giorno è paragonabile a una nostra sera rossastra là dopo il tramonto), tuttavia Proxima Centauri produce ogni tanto distruttive ondate di bagliore (brillamenti). I brillamenti occasionali e le forti radiazioni solari non rappresentano fattori ideali canonici a pro della sopravvivenza di vita sulla superficie poiché particolarmente i primi bucano l’atmosfera. Si pensa altresì che l’esopianeta possa essere un pianeta in toto sommerso dalle acque: non si sa se alla fine si sia ridotto in condizioni analoghe al nostro Marte. L’idea di sfruttamento agricolo della superficie di Proxima b, sic rebus stantibus, non è fra le più facili a immaginarsi. Se in passato i brillamenti e le emissioni di massa coronale sono stati presumibilmente di entità minore è possibile immaginare un’agricoltura più ortodossa. La scarsezza della luce e i brillamenti della fase in atto esigerebbero adeguamenti tecnologici agricoli avanzati, con colture al chiuso e ambienti consoni creati artificialmente. Non che una cosa del genere non sia (stata) possibile a un’eventuale civiltà molto progredita. A questo punto dell’analisi, dopo aver prodotto la premessa a beneficio di un ragionamento psicanalitico di archeologia letteraria, debbo esporre i dettagli di letteratura i quali secondo me celano possibilmente notizie di fatti reali il cui ricordo si è indebolito, andato perso e distorto, riadattato allo scenario terrestre dai discendenti dei migranti spaziali, e riproposti in forma di mito in seguito a tale ancestrale offuscata indicazione tramandata. Una delle prima cose che dissi nel mio discorso sull’emigrazione interplanetaria è che la vicenda dell’arca di Noè potesse adombrare la migrazione da un esopianeta alla Terra. Sappiamo che per le antiche culture del Vicino Oriente la letterale zona iperuranica era piena d’acqua, pertanto un viaggio spaziale sarebbe stato pensato come una navigazione nell’acqua. Proxima b è l’esopianeta più vicino alla Terra, posso perciò ipotizzare esso, in virtù delle sue caratteristiche presunte (vecchie e nuove), quale stazione di partenza della razza umana alla volta del nostro sistema solare. L’inondazione globale di Proxima b potrebbe essere alla base del mito terrestre del diluvio universale, dal momento che di generazione in generazione per noi reputate preistoriche si sarebbe persa una diffusa corretta memoria degli accadimenti a causa di trasmissioni orali via via deviate verso una logica mitica ambientata sulla terra poiché la possibile verità originaria si rendeva incomprensibile a generazioni meno istruite scientificamente. Nella Bibbia potrebbe stare memoria figurata dell’inondazione di Proxima b e dell’emigrazione spaziale (da là). Abbiamo notato un’altra situazione critica nel nostro presunto pianeta madre: la difficoltà dell’agricoltura di fronte a un sistema possibilmente tramutatosi da ottimale a ostile. La stella Proxima Centauri ha compiuto nella sua evoluzione presumibilmente un sacco di danni al punto di rendere ovunque impossibile le teoriche colture. Cosa troviamo nella Bibbia a tal riguardo? La dicotomia Abele/Caino, la quale costituisce una dicotomia di natura produttiva ed economica: sembra che il Dio biblico veterotestamentario prediliga una produzione non legata alla terra, perché l’ecosistema può essere suscettibile di criticità più o meno gravi. A Noè un comando divino ha imposto di salvare solo il patrimonio faunistico, non v’era preoccupazione a proposito delle colture agricole. È possibile che lo scarso apprezzamento dato all’agricoltura, espresso in modo allegorico in particolar modo, nella vicenda di Caino abbia origine nei disastri ambientali di Proxima b causati da Proxima Centauri? In parole povere quello shock esistenziale subito dagli umani centauriani avrebbe viaggiato con loro, e sarebbe poi stato all’interno di meccanismi di trasmissione del sapere, sempre meno efficaci, rielaborato in allegorie mitologiche da decostruire psicanaliticamente ad hoc. Quanto vado dicendo non rappresenta un ragionamento fantascientifico, costituisce un caso particolare di ermeneutica contestuale, con la circostanza che il contesto principale non si mostra la Terra bensì Proxima b: altri aggiuntivi elementi in futuro, con certezze ancorate, potrebbero rafforzare la mia ipotesi o smentirla. Nel momento in cui ho scritto non viene da me giudicata impossibile, né d’altro lato vera nel pieno senso di un accertamento (come ci suggerisce Vico). La reputo plausibile in attesa di una verifica migliore. Il suddetto shock è stato tale che io credo, nella mia visione analitica, che l’insistente idea generale di culto solare terrestre provenga da Proxima b, ma non quale culto propiziatorio: l’ingenua adorazione del Sole, qua sulla Terra, avrebbe lo scopo di scongiurare l’azione distruttiva della divinità (sperimentata su Proxima b). Ipotizzo un simile schema psichico non più consapevole nei fedeli e nei sacerdoti terrestri devoti di divinità solari. Dalla Bibbia a ritroso possiamo percorrere il cammino in direzione dell’atonismo (il quale è l’anima dell’Antico Testamento)3. Akhenaton ha manifestato una mitica nevrotica concezione radicale di culto al Sole. Il Sole sarebbe la divinità più importante, sino al punto di giungere a forme di esclusività (enoteismo e monoteismo), giacché Proxima b ci insegnerebbe che la interpretata indisposizione di Proxima Centauri può distruggere completamente un mondo. La tradizione atonista-giudaico-cristiana potrebbe contenere un sottilissimo impercettibile ancestrale filo nevrotico extraterrestre legato all’originario Dio sole Proxima Centauri. Non sto sostenendo che i Centauriani adorassero la loro stella, ma che gli effetti di Proxima Centauri siano rimasti nell’avita memoria dei viaggiatori giunti sulla Terra, e che simili effetti siano restati a mo’ di inconoscibile junghiana immagine archetipica primordiale nei confronti di quelle smemorate generazioni di terrestri che hanno elaborato culti solari incentrati sul nostro Sole e con le modalità di generazione che sopra ho illustrato. Esiste un dettaglio a proposito di simile discorso che mi è parso pertinente: è quello del “kabôd” veterotestamentario, comunemente tradotto con “gloria (di Dio)”. Il kabôd è, nel quadro delle mie analisi bibliche, qualcosa che esprime e mostra la potenza solare del Dio veterotestamentario. Quindi su tale base, sviluppando il modello di ascendenza da Proxima b, lo ricollego ai brillamenti di Proxima Centauri e in maniera particolare alle sue emissioni di massa coronale (le quali mi appaiono la sorgente del simbolo, anche a voler ridurre la fenomenologia di suggestione ai nostri paraggi terrestri col Sole). Ecco un altro dettaglio possibilmente riallacciato alla matrice concreta. Il Dio biblico, il quale sarebbe Aton nella sua essenza d’origine, potrebbe essere scaturito dall’immagine reale di Proxima Centauri. Il contesto letterario veterotestamentario mi ha fornito un ulteriore elemento a corredo della mia ipotesi generale di migrazione interplanetaria: si tratta dei famosi personaggi antidiluviani di lunghissima vita. Com’è che costoro fino a Noè vivessero persino alcuni secoli? Il periodo di rivoluzione su Proxima b è di poco più di undici giorni: rispetto a noi si rivela inferiore di circa trentadue volte. Tre anni là sarebbero poco più di un mese da noi. I molto longevi antidiluviani (idest, prima dell’emigrazione interplanetaria) sono persone il cui computo terrestre degli anni di vita cerca un raccordo tra misure dell’anno (rivoluzione rispetto alla propria stella) differenti? Quella terrestre e quella di Proxima b? Il nesso testé indicato se inserito in un sistema analitico più ampio, come ho fatto, non pare isolatamente peregrino. V’è pure nel Nuovo Testamento un cenno dell’apostolo Pietro dove si afferma che un giorno di Dio equivale a mille anni: si sta involontariamente rifacendo, in guisa letteraria retorica, a Proxima centauri e all’anno di Proxima b in relazione al nostro anno terrestre molto più lungo? Ritengo tutti i possibili collegamenti biblici creati in modo inconscio per quanto concernerebbe Proxima Centauri e Proxima b da parte degli autori di quei testi depositari di antiche tradizioni di culto solare, la cui eventuale origine terrestre ho spiegato. Ci sono d’altro canto sul nostro pianeta alcune cose che nella falsariga di questa mia analisi mi hanno colpito. La prima riguarda le tre piramidi di Cheope, Chefren, Micerino. La loro disposizione reale in ordine di mole e le loro misure esterne, in relazione ad approssimativi indicativi canoni di proporzione, possono essere collegate ai diametri di Alfa centauri A e B, e Proxima Centauri. Le tre piramidi simboleggiano queste tre stelle? Platone associa simbolicamente la forma piramidale al fuoco. Non si sa con precisione il chi, il come e il quando della loro edificazione: potrebbero essere una sorta di segnale, di icona, indicante un contenuto di provenienza extraterrestre? Queste piramidi si vedono dallo spazio: è possibile che costituissero l’indicazione di una precisa informazione? Come dire: i Centauriani sono qua sul pianeta Terra. D’altro canto cosa la quale mi ha colpito non soltanto adesso è rappresentata dalle pietre di Nazca. Tutti quei disegni nel merito di questa mia analisi mi sembrano una specie di catalogo del contenuto dell’arca di Noè fuori e all’interno del figurato mitico. A mio modesto avviso è come se all’osservatore dall’alto del cielo si volesse dire che la Terra è il pianeta che ha accolto quell’insieme faunistico disegnato. E quindi in ossequio al mio ragionamento una fauna possibilmente provenuta da Proxima b a sostituire o soppiantare quella preistorica. Il sistema faunistico terrestre della preistoria è di fatto scomparso, e io non credo alla teoria darwiniana evoluzionistica sulla Terra. Per me la cesura inerente alla fauna terrestre è troppo radicale, più che a un’evoluzione do credito a un nuovo innesto dall’esterno, nella maniera in cui ho chiarito nella mia ottica.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive rinnovate”
 
1 A proposito di tale filone di miei studi segnalo in particolar modo dei miei scritti contenuti in miei saggi:
1) Teoria sull’origine aliena dell’umanità in Critica dell’irrazionalismo occidentale (2016)
2) Lotta tra gli Dei in Studi critici (2019)
3) Radici sumere di Ebraismo e capitalismo in Note di critica (2017)
 
2 Rinvio il lettore all’Enciclopedia Wikipedia per altri approfondimenti.
 
3 Tale gamma concettuale appena citata è stata in generale oggetto di mie diverse analisi i cui risultati ho esposto in miei vari lavori. A beneficio del lettore desideroso di approfondire, menziono gli ultimi miei due scritti fino a ora pubblicati riguardanti l’ampio tema. Nella mia opera Prospettive rinnovate (2023) le sezioni intitolate Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo e Dalle parole di Gesù Cristo a quelle di Pauline Harmange.