di DANILO CARUSO
Dopo prolungata titubanza ho deciso di mettere per iscritto e
rendere note le mie forti perplessità sul femminismo di Charlotte Perkins
Gilman (1860-1935), scrittrice e attivista americana nel campo dei diritti
delle donne. La mia ritrosia a disvelare il mio parere critico è derivata dal
fatto che essendo pure io un sostenitore del femminismo, e non avendo simpatia
per la tragica tradizione misogina giudaicocristiana (tanto per rendere l’idea:
si pensi alla gamma che va dalla figlia di Iefte e dalla regina Gezabele a
Ipazia di Alessandria e al “Malleus maleficarum”, e oltre) non volevo essere
frainteso a vantaggio di una non voluta presa di posizione maschilista. Questa
de facto non c’è, e chi leggerà senza pregiudiziali non ne vedrà nemmeno
l’ombra. Perché – premetto a monte – il femminismo gilmaniano, pur nel suo
formale porsi su un binario doveroso e giusto, mi pare strutturato con uno
spirito estremistico che rovescia la avita misoginia di ascendenza religiosa in
qualcosa di speculare, il quale anima le donne secondo una vocazione
attivistica individualistica modellata sull’etica protestante. In parole povere
la Perkins Gilman – a mio avviso – ha trasposto il canone weberiano (che era
maschile) sopra l’universo femminile, equiparando un difetto mediante un
sistema analogo e riflesso. Giacché nell’attivismo protestante si cela una
matrice nevrotica1, non è difficile comprendere come nel femminismo
di tale autrice statunitense si riproponga un criterio viziato ab ovo:
applicare alle donne l’attivismo protestante non rappresenta una autentica
rivendicazione di diritti naturali. Trasformando le donne in lavoratrici libere
si allarga solo il mercato del lavoro con una conseguente diminuzione del costo
della manodopera: non mi sembra una cosa tanto intelligente. Già badare a una
casa rappresenta un lavoro socialmente rilevante, il quale in ambito
matrimoniale meriterebbe un riconoscimento giuridico a fini retributivi. La
Perkins Gilman invece proponeva di mandare le casalinghe a lavorare in massa
fuori, così disgregando il complesso familiare: chi curerebbe la casa in tutti
i suoi dettagli nella gestione di una famiglia? Ovviamente ciò non vuol dire
che la popolazione femminile debba rimanere casalinga: anche gli uomini possono
occuparsi della casa e le mogli lavorare fuori. Ma almeno una persona che se ne
occupa ci vuole. I vestiti non si lavano da soli, i cibi non si cucinano da soli,
gli eventuali figli non possono essere lasciati alla deriva. L’autrice
americana invece ci propone un modello femminile proiettato sulla società
esterna. Mi viene di pensare all’antifemminismo hegeliano. Per il filosofo
tedesco, in relazione al nucleo familiare il “maschile” è centrifugo, il
“femminile” è centripeto. La Perkins Gilman ci fa l’apologia al femminile di
difetti maschili. E anche se formalmente rivendica diritti a beneficio delle
donne non credo che la sostanza sia molto apprezzabile. Lasciare casa,
famiglia, figli allo sbando allo scopo di coltivare le personali vocazioni,
senza prendersi grande preoccupazione (come fece lei) dei primi non è un
esempio da imitare. Un simile modello pedagogico non può offrire prospettive
benefiche alla società. L’equilibrio costituisce fonte di benessere, in un
regime di solidarietà e di collaborazione fra i generi. L’anarchia attivistica,
maschile o femminile che sia, porta alla deriva e al malfunzionamento sociale.
Oppure a una immaginaria realtà distopica quale quella del romanzo, risalente
al 1915, citato nel titolo, il quale è variamente reso dai traduttori: “Terra
di lei”, “La terra delle donne”. Tale testo, comunemente ritenuto un’utopia femminile,
rappresenta per me una distopia. Proseguendo l’esposizione della mia critica
farò presenti contenuti di quest’opera i quali obiettivamente sanno di realtà
distopica. Viene descritta una società scoperta da tre giovani uomini in una
nascosta parte del nostro pianeta, composta da sole donne dotate del privilegio
(da due millenni) di spontanea partenogenesi (dai 25 anni). Ovviamente nascono
solo e sempre femmine. In questo mondo siffatto «everything was beauty, order, perfect cleanness».
Non che una simile cosa dispiaccia. Il fatto è che la cornice panlogistica
zamjatiniana2 creata dalla Perkins Gilman possiede uno sfondo
distopico richiamante una radice nevrotica legata alla junghiana funzione
caratteriale razionale (“il maschile” archetipico). La pensatrice statunitense
ha – in senso lato junghiano – mascolinizzato il femminile, da cui l’autonomia
biologica (assurda, perciò distopica) partenogenetica. Nel romanzo l’autrice
critica la peculiarità femminile dei lunghi capelli, giudicandola un topos
privo di senso.
Veronica Lake |
Le donne di Herland sono di indole razionalizzante stoica. Ora, dopo aver puntualizzato che la razionalità non è prerogativa di genere (e che anzi la maggioranza dei maschi è mediamente più insensato delle donne: sennò non si sarebbero da sempre ammazzati a vicenda in guerre), si mostra corretto quanto dice uno dei protagonisti maschili, Terry: «These women aren’t WOMANLY [il maiuscolo è della Perkins Gilman, n.d.r.]». Nella gilmaniana Terra delle donne la libido è morta, e parlo da razionalista. Tuttavia, a dimostrazione della mia obiettività di giudizio, da junghiano, debbo dire che quel mondo dipinto non è umano. La maternità scaturente da partenogenesi assume molto di nevrotico protestante. Tutte le donne diventano come la Madonna della tomista “Summa theologiae”3. La maternità in Terradilei non ha niente di biologia naturale, e non basta a giustificarla quell’assetto sociale pacifico, collaborativo, produttivo. Avere un figlio non è una deroga, più o meno miracolosa, all’ordine di Natura. Un tale schema sistematico non è utopia, è distopia. Non si può sopprimere la componente libidica individuale, in nessun genere. E non ha senso perciò presentare modelli femminili (ma la cosa rimane valida universalmente) iperrazionalistici sulla falsariga dello Stato unico di Zamjatin. In Herland non esistono più famiglie particolari, bensì una sola grande famiglia collettiva: e qui si deve dire, obiettando, che Stato e nucleo familiare sono due cose differenti, aristotelicamente naturali e necessari nella loro specificità sociale. Non si possono normalmente affidare i figli a fini educativi all’esterno del perimetro familiare se non per quelle esigenze scolastiche superiori previste in ottica del bene individuale e generale. L’auspicio dell’autrice americana di liberare tempo con l’affidamento ad altri dei figli fuoriesce da un sano concetto di “famiglia (naturale biologica)”. Le donne di Terradilei traducono distopicamente l’attivismo protestante in un nevrotico sforzo razionalistico e in un costante agire nell’applicazione di ciò che pare consono. Nella distopia gilmaniana non esiste sessualità né tanto meno forma alcuna di congresso carnale. Se da un lato la cieca libido freudiana si rivela una energia animale, dall’altro non si può cancellarla dallo statuto naturale. Altrove ho chiarito la mia distinzione fra tipi umani freudiani (quelli prossimi all’animale) e junghiani (quelli che hanno acquisito una superiore maturità intellettuale)4. Non è lecito fare discriminazioni di genere, la discriminante deriva – in assenza di anomalie fisiologiche – dalla maturità psicointellettuale e dal quoziente intellettivo. Non è attraverso l’abolizione della libido che si costruiscono persone socialmente impeccabili, come nella Terra delle donne. Qui si giunge addirittura a postulare nelle parole di Ellador l’innaturalità di un consueto approccio sessuale allo scopo di avere figli: «It seems so against nature!». Si mostra lampante la maniera in cui lo pseudofemminismo della Perkins Gilman, nonostante possa avere validi spunti di rivendicazione, sia condizionato da radicale stortura la quale ha invaso diversi aspetti del pensiero della scrittrice statunitense. Ella infatti prospettava altresì il suprematismo bianco, la discriminazione sociale, la xenofobia. Simili dettagli accanto a tutte le altre pecche delineate non possono ornare un genuino manifesto femminista. La mia conclusione è che il femminismo gilmaniano sia uno pseudofemminismo capitalistico, ossia un modello non equilibrato ma edificato sopra esigenze e prospettive nevrotiche.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Letteratura e psicostoria”
1 Per approfondimenti si veda il mio saggio Critica dell’irrazionalismo occidentale
(2016).
2 Chi vorrà approfondire potrà trovare spunti critici in un mio
lavoro del 2015: L’antipanlogismo di
Evgenij Zamjatin.
3 A tal riguardo chiarimenti nella sezione della mia opera Teologia analitica (2020) dal titolo L’irrazionale misoginia tomista.
4 Approfondimenti possibili nella mia pubblicazione Filosofie sadiche (2021) alla sezione L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard.