Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

mercoledì 11 novembre 2020

L’APOCALITTICA PANDEMIA DI MARY SHELLEY

di DANILO CARUSO 
 
“The last man” è un romanzo apocalittico meno noto, rispetto al famosissimo capolavoro, della scrittrice Mary Shelley (1797-1851). Il testo rielabora in maniera evidente da un punto di vista soggettivo un’articolata serie di vicende vissute dall’autrice inglese. Il lato che prenderò in esame è tuttavia quello generale, della situazione esteriore all’interno del narrato. Vale a dire tutto quanto abbia una rilevanza non esclusivamente personale nella redazione shelleyana, e rivesta un interesse oggettivo. Ad esempio all’inizio pare udire una eco del pessimismo cosmico schopenhaueriano laddove si definisce la vita un cieco e penoso susseguirsi libidico. E della condizione umana la Shelley preconizza il concetto heideggeriano della “gettatezza”. Nonostante l’amarezza, teorica e concreta, l’autrice mostra una vocazione idealistica romantica grazie a cui trovare un appiglio di salvezza da offrire a tutti: l’amore in tutte le sue forme darebbe senso e sostanza alla vita umana. Ella, uscita dalla formazione mentale progressista donatale dal padre filosofo, auspica uno sviluppo scientifico e tecnologico tale da emancipare l’umanità dai suoi mali. A questo riguardo è da notare che sebbene il romanzo sia ambientato alla fine del XXI secolo non compaia niente di diverso in confronto alla situazione di inizio ’800. Non c’è niente di fantascientifico in relazione a un testo edito nel 1826. E anzi riguardo al su citato pessimismo si toccano concetti leopardiani: un “cupio dissolvi” e l’idea di essere figli di una realtà matrigna. Oscilla qui l’archetipo di Grande Madre tra il suo lato oscuro negativo, e l’altro benevolo e positivo. L’umana ricerca della felicità è discriminante. Mary Shelley, come ho sottolineato in un mio precedente studio1, possiede una struttura intellettuale molto junghiana. In un passaggio de “L’ultimo uomo” evoca, e non poi così tanto nebulosamente, l’assetto psichico “Io / controparte sessuale interna (anima o animus)”. Nella redazione di quest’opera shelleyana appare altresì, come già ricordato in apertura, il ruolo nevralgico di motivi personali esistenziali processati da una creativa “funzione trascendente”: in tal guisa essi perdono la loro carica interiore oppressiva e si traspongono dal piano dell’estetica della creazione al piano dell’estetica della fruizione, livello sopra cui ho indagato ciò che possiede un legame con schemi e riferimenti di carattere universale. Nel romanzo protagonista negativa è un’epidemia mondiale di peste, la quale alla lunga stermina la popolazione terrestre: una personificazione simbolica della Grande Madre negativa. Prima del dilagare su vasta scala del contagio, il romanzo registra un singolare riferimento alla chiesa di santa Sofia a Istanbul, la cui cupola in un contesto bellico viene distrutta. La peste causa nello scenario descritto enorme disagio e preoccupazione obbligando a misure restrittive e di protezione sanitaria: blocco della libera mobilità e isolamento delle persone ritenute veicolo di contagio. La pandemia si manifesta attiva sulla base di ondate stagionali, quindi consentendo temporanei (ma inutili) margini di contenimento. Un aspetto sociologico che Mary Shelley focalizza con precisione riguardo agli effetti pandemici inerisce all’economia. In pratica il sistema produttivo e commerciale capitalistico crolla sotto il peso degli effetti diretti e derivati collegati alla pestilenza. Impoverimento e disoccupazione accompagnano la pandemia. Al contagio non si riesce a trovare nessun rimedio efficace. Un ulteriore singolare dettaglio narrativo ci mostra un fenomeno astronomico. La mattina del 21 giugno 2093 un corpo celeste si interpone fra la Terra e il Sole provocando uno stato di oscuramento pro tempore in alcune aree del pianeta. L’evento cagiona maggiore turbamento fra chi vi assiste, e induce costoro al ripiego sul versante fideistico-religioso in cerca di qualcosa di rassicurante nei confronti di quell’esperienza di oscurità interpretata quale funesto segnale. Il disordine della Natura colpisce variamente, al di là della peste, il continente americano provocando ondate migratorie di disperati in direzione del Vecchio Continente. In simile precipitare delle cose si cerca di salvare il salvabile della struttura socioproduttiva capitalistica. Circa gli elementi leopardiani presenti nel testo l’autrice inglese evoca “il piacere della rimembranza” a beneficio del suo alter ego narrante. Tutti i superstiti della pandemia vengono sottoposti a un regime di vita all’interno del quale si mira alla sopravvivenza. Questo travaglio collettivo psicologico viene ben intravisto in simile prospettiva dalla scrittrice, la quale coglie anche se alla superficie, ma in modo nitido, il valore di archetipi junghiani chiave in simili situazioni.
Così possiamo ben vedere: “il vecchio saggio”, “Madre Natura”. Su un palcoscenico dove una manzoniana Provvidenza agli occhi dei più pare fare giustizia di ogni sorta di iniquità umana trascorsa, emerge la necessità di simboliche figure di sostegno. Lo scopo è quello di evitare la degenerazione del disordine. Pure questo viene colto dalla Shelley nella sua valenza distruttiva, e di conseguenza tratteggiato. La ricerca del divertissement come palliativo verso la mancata maturità personale e l’attacco alle generazioni precedenti nella funzione di capro espiatorio rappresentano dei temi inseriti in modo profondo e intelligente nel romanzo. Nel testo si legge come allo scopo di garantire una qualche tenuta sociale sia stato necessario mantenere forme di distrazione; e d’altro canto come il concetto cardine della società capitalistica, la proprietà (strumento e segno della felicità), non venga toccato nonostante lo sfacelo generale richieda un ordinamento di emergenza a vantaggio di ciascuno. Un secondo inquietante fenomeno celeste si verifica in “The last man” nel finale. Al principio del 2098 tre corpi luminosi all’imbrunire si rivelano nel cielo, e poi accorpatisi si gettano nella nuova unità in mare. Un passaggio del testo, in prossimità della chiusura, mi ha alquanto colpito: «Immagini di distruzione, ritratti di disperazione, il corteo dell’ultimo trionfo di morte saranno disegnati di fronte a te [Images of destruction, pictures of despair, the procession of the last triumph of death, shall be drawn before thee]». Un altro brano, non poco distante mi ha per così dire disorientato e deluso: Mary Shelley riflette la propria insicurezza femminile in un’espressione misogina. E lei misogina e/o maschilista non lo è affatto. In tale neo nel romanzo comprendiamo l’universo sociale civilizzato della sua epoca dove un’inveterata tradizione antifemminista di ispirazione cristiana pesava quanto un enorme macigno su ogni donna. Ne “L’ultimo uomo” la pandemia dura sette anni (2092-2099), e all’ultimo lascia in vita (almeno in apparenza) una sola persona: l’alter ego narrante di Mary Shelley, nel quale e mediante il quale lei ha trasposto e operato la catarsi delle proprie luttuose esperienze. In simile operazione creativa letteraria l’autrice ha saputo raggiungere qualcosa che va oltre il suo personale vissuto e ci ha consegnato un quadro di grandissima significanza collettiva.
 
 


NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Percorsi critici”
 

mercoledì 4 novembre 2020

PER UN NUOVO UMANESIMO

di DANILO CARUSO
  
La letteratura assume uno dei ruoli di primo piano, al pari delle altre arti, nell’esprimere il grado di civiltà di un gruppo sociale o di un singolo individuo. In alcuni film il grande comico Totò si chiedeva se siamo uomini o caporali. Aristotele, invece, sempre da un punto di vista psicologico, si chiede se siamo uomini o animali. La società dovrebbe educare al gusto delle cose buone e raffinate. Tuttavia sembra che la sua stragrande maggioranza sia composta da strani soggetti di bassi profili (intellettuale e culturale), peggiori di semplici analfabeti funzionali: soggetti polarizzati in maniera intensa sulla funzione caratteriale junghiana del senso, a scapito della razionalità. A prescindere da un’attribuzione di colpa, la quale non sta mai in toto da una parte, ciò lascia dubbiosi sul prosieguo positivo della vita sociale. Questa considerevole fetta di esseri antropomorfi valuta quanto si discosta dalla loro mediocritas quasi come un’anomalia. Mentre la realtà è che “umana” si rivela l’eccellenza, inscritta nelle potenzialità del genere non quale optional. Chi abdica alle prerogative di coltivare ed esprimere la nobiltà del pensiero (nelle sue sfaccettature) di spontanea volontà, decade alla volta di una mediocrità (a metà strada fra l’uomo autentico e l’animale). In virtù di ciò, chi appare superiore ai mediocri assume per loro consistenza reale di un demone o un semidio. Se ci sono uomini che preferiscono la comodità – se comodità si può definire – animale, non stupisce il fatto che nelle religioni diverse siano state le divinità teriomorfe. La propensione comune tende a farsi dei a propria somiglianza. Spiace l’aristotelica constatazione che per far parte del genere umano non basta camminare su due gambe. Nei contesti sociali ricchi dove lo studio ricopre attrattiva minore, il destino è l’imbarbarimento. Le aree della terra ancora sottosviluppate dietro diversi profili hanno una speranza di crescita e una giustificazione del loro status davanti all’inadeguato sostegno dei Paesi cosiddetti più evoluti. Alla povera gente del Terzo Mondo (la quale non ha scuole, ospedali, istituzioni efficienti) non si può rimproverare niente. Nessuno può, ad esempio, declassare i neri, come accaduto nella storia, a una sorta di gruppo animale da sfruttare a fini produttivi economici. Filoanimale è l’essere posto fuori del logos (il protagonista della psicologia comportamentista). Ogni pregiudizio etnico-somatico è infondato. Se agli occhi della manovalanza dei mediocri del benessere il superiore è un oltreuomo, al cospetto di quest’ultimo si palesa a sua volta la verità obiettiva di una schiera subumana, amputata di funzioni specifiche del genere umano. Un soggetto che ha rigettato la prospettiva dell’istruzione ha un piede fuori dell’umanità. Una testa in cui alberga povertà semantica, ignoranza grammaticale, per scelta propria, è inferiore nei confronti di chi realizza dimensioni di riflessione più complesse. Chi parla il newspeak di “1984” non vale più dei proles. Costui versa in uno stato di minorità mentale, una condizione che dovrebbe essere rimossa nell’esercizio dei diritti politici. Non capire gran che di politica, di economia, della storia umana e dei suoi prodotti, non è il requisito richiesto allorché si contribuisce a determinare l’indirizzo della cosa pubblica. Mi piace ricordare l’odio di Gramsci per gli indifferenti (gli ignavi danteschi) e la sua comprensione del valore degli studi classici al fine di una opportuna maturazione individuale. Il diritto allo studio rappresenta anche un dovere sociale. La democrazia ben funzionante dà il governo nelle mani di persone capaci; viceversa laddove c’è malcontento, forse, non si sono preparati cittadini all’altezza. Quale sarà l’impavido nuovo mondo di domani? Lo spazio linguistico (e letterario) nella società globalizzata è uno dei meno curati. Non pochi, pensando che sia la tipografia a fare un libro, e che la medesima elevi al rango di letterato e scrittore, prendono una penna (o un computer) e si mettono a scrivere ignorando la retorica, e incapaci di condurre una completa analisi grammaticale o logica di quanto hanno scritto. Ciò è singolare, grottesco. Ho sempre ritenuto che la redazione di un testo sia la stesura di una musica concettuale in forma verbale. Può capitare di leggere, a bassi livelli, stampati dove non solo latita la bellezza formale ma anche il contenuto sia frutto di poveri concetti in stato di anarchia. Questo è il prodotto dell’assenza di studio, intelligenza, talento. La scuola può essere utile nel percorso formativo, però, in ogni caso, chi è intelligente può studiare da autodidatta. Nessuno nasce ottuso, ci può diventare. Se all’abilità intellettuale si unisce poi il talento, non è necessario andare appresso a istituzioni mediocri. L’intelligenza è una capacità elaborativa mentale sveglia, rapida, efficace. È paragonabile a un calcio di punizione centrando lo specchio della porta. Il talento non è congenito in tutti: è un dono divino, genetico. Equivale a calciare la punizione di prima alla Maradona. La conoscenza scaturisce da un’attività di studio; l’intelligenza può perdersi, può migliorarsi. Il talento non s’impara: è Frida Kahlo, è Saffo, Sylvia Plath… Un elaborato scarso potrà bastare a suscitare l’ammirazione di moderni semianalfabeti, tuttavia non resisterà all’urto di una qualità d’esame migliore. Il mondo è fatto a strati di gente la quale, in contesti di relativo benessere, rimane contenta della propria condizione avendone scansata una peggiore. Pochi guardano oltre le loro vicinanze spaziali e temporali, giacché hanno una mente menomata dalla televisione (contenitore diffuso di stupidi programmi distraenti). Non migliore il rimpiazzo con un parallelo uso di internet. Se individui simili si mettono a scrivere, purtroppo l’esito non è gradevole. Rispetto ai loro inferiori saranno un eccelso modello, tuttavia la piramide intellettuale non si ferma da costoro. L’eccellenza sta in cima, alla volta della quale guardare. Accogliere il basso tronco piramidale a mo’ di consolazione esclusiva non rappresenta un nobile guadagno. Chi non mira alla vetta, non vale molto. In diversi stanno a sprecare il tempo libero in cose insignificanti. Se al loro sguardo il giorno è una quotidiana sfida alla noia, il tempo a chi coltiva interessi intellettuali, artistici e filantropici non basta mai. Non c’è amore più grande verso l’umanità del suo studio (complemento di specificazione sia oggettiva che soggettiva: l’umanità che attraverso i suoi singoli conosce e apprezza la sua parte più buona). La vita eterna serve dunque a conoscere l’interminabile produzione umana, raffigura un tendere in direzione della perfezione divina (dove la conoscenza eterna è già in atto). A chi, libero di far un adeguato uso umano della sua vita, ne ha fatto uno pessimo, credo tocchi la sorte della reincarnazione: non c’è inferno migliore della distopia reale. Le scuole sembrano decadute, non ovunque, a parziali fabbriche di diplomi e lauree ottenuti come nella vecchia raccolta dei punti nei fustini e pacchi di detersivo. Dato che manca una selezione più raffinata ci sono degli impreparati a svolgere bene le loro mansioni future. Perché uno dovrebbe andare all’inferno quando può soffrire, a causa dei suoi simili, in maniera tranquilla qui? C’è inoltre, ad esempio, qualcosa di peggiore della ingiustificabile barbarie nazista della Shoah o degli altri crimini contro l’umanità compiuti dalle inquisizioni cattolica e protestante. La meta di ogni essere umano è la felicità, non la sofferenza. L’anima che ritorna non è condannata al malessere e al dolore; pare destinato a pagare chi non agisce secondo giustizia e provoca queste deviazioni. Studiare serve a contribuire alla coesione sociale e alla solidarietà fra i popoli. La gestione politica a partire dal livello meno alto non può essere demandata ad arrivisti e soggetti di approssimativo sapere. Non è una questione di titoli accademici. Benedetto Croce, uno dei pilastri della cultura italiana novecentesca, è stato un eminente filosofo non laureato. Il suo titolo di studio ufficiale era la maturità classica. Eppure, continuando nell’exemplum, fu senatore, ministro, autorevole rappresentante del liberalismo e dell’idealismo. Fatti salvi i meritevoli e i talentuosi, nessun laureato coi punti del detersivo vale quanto un Benedetto Croce, o altri non laureati quali Grazia Deledda (che ottenne il premio Nobel per la letteratura), Gabriele D’Annunzio, et ceteri, se un pezzo di carta, quello dato oggigiorno, abilita perlopiù a essere un ingranaggio della macchina distopica. La specializzazione, tra l’altro, valida o scadente che sia, se impantana costituisce un limite. Platone ha ben detto che l’unico a essere filosofo (studioso nell’accezione più completa) è colui che ha come oggetto di studio il tutto. Non è un caso che Aristotele fosse un suo discepolo. Frazionare il sapere in compartimenti, a guisa di una catena di montaggio, rappresenta un divide et impera. La filosofia è l’unica disciplina ad avere dimensione universale: tutte le scienze occidentali sono nate da essa. Nel vestire i panni di filosofi, esseri umani cui spetta il governo della repubblica, non ci vuole per forza una laurea. Né le università, né le tipografie sono sempre esistite; sono sempre esistiti invece lo studio, l’intelligenza, il talento.