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mercoledì 11 novembre 2020

L’APOCALITTICA PANDEMIA DI MARY SHELLEY

di DANILO CARUSO 
 
“The last man” è un romanzo apocalittico meno noto, rispetto al famosissimo capolavoro, della scrittrice Mary Shelley (1797-1851). Il testo rielabora in maniera evidente da un punto di vista soggettivo un’articolata serie di vicende vissute dall’autrice inglese. Il lato che prenderò in esame è tuttavia quello generale, della situazione esteriore all’interno del narrato. Vale a dire tutto quanto abbia una rilevanza non esclusivamente personale nella redazione shelleyana, e rivesta un interesse oggettivo. Ad esempio all’inizio pare udire una eco del pessimismo cosmico schopenhaueriano laddove si definisce la vita un cieco e penoso susseguirsi libidico. E della condizione umana la Shelley preconizza il concetto heideggeriano della “gettatezza”. Nonostante l’amarezza, teorica e concreta, l’autrice mostra una vocazione idealistica romantica grazie a cui trovare un appiglio di salvezza da offrire a tutti: l’amore in tutte le sue forme darebbe senso e sostanza alla vita umana. Ella, uscita dalla formazione mentale progressista donatale dal padre filosofo, auspica uno sviluppo scientifico e tecnologico tale da emancipare l’umanità dai suoi mali. A questo riguardo è da notare che sebbene il romanzo sia ambientato alla fine del XXI secolo non compaia niente di diverso in confronto alla situazione di inizio ’800. Non c’è niente di fantascientifico in relazione a un testo edito nel 1826. E anzi riguardo al su citato pessimismo si toccano concetti leopardiani: un “cupio dissolvi” e l’idea di essere figli di una realtà matrigna. Oscilla qui l’archetipo di Grande Madre tra il suo lato oscuro negativo, e l’altro benevolo e positivo. L’umana ricerca della felicità è discriminante. Mary Shelley, come ho sottolineato in un mio precedente studio1, possiede una struttura intellettuale molto junghiana. In un passaggio de “L’ultimo uomo” evoca, e non poi così tanto nebulosamente, l’assetto psichico “Io / controparte sessuale interna (anima o animus)”. Nella redazione di quest’opera shelleyana appare altresì, come già ricordato in apertura, il ruolo nevralgico di motivi personali esistenziali processati da una creativa “funzione trascendente”: in tal guisa essi perdono la loro carica interiore oppressiva e si traspongono dal piano dell’estetica della creazione al piano dell’estetica della fruizione, livello sopra cui ho indagato ciò che possiede un legame con schemi e riferimenti di carattere universale. Nel romanzo protagonista negativa è un’epidemia mondiale di peste, la quale alla lunga stermina la popolazione terrestre: una personificazione simbolica della Grande Madre negativa. Prima del dilagare su vasta scala del contagio, il romanzo registra un singolare riferimento alla chiesa di santa Sofia a Istanbul, la cui cupola in un contesto bellico viene distrutta. La peste causa nello scenario descritto enorme disagio e preoccupazione obbligando a misure restrittive e di protezione sanitaria: blocco della libera mobilità e isolamento delle persone ritenute veicolo di contagio. La pandemia si manifesta attiva sulla base di ondate stagionali, quindi consentendo temporanei (ma inutili) margini di contenimento. Un aspetto sociologico che Mary Shelley focalizza con precisione riguardo agli effetti pandemici inerisce all’economia. In pratica il sistema produttivo e commerciale capitalistico crolla sotto il peso degli effetti diretti e derivati collegati alla pestilenza. Impoverimento e disoccupazione accompagnano la pandemia. Al contagio non si riesce a trovare nessun rimedio efficace. Un ulteriore singolare dettaglio narrativo ci mostra un fenomeno astronomico. La mattina del 21 giugno 2093 un corpo celeste si interpone fra la Terra e il Sole provocando uno stato di oscuramento pro tempore in alcune aree del pianeta. L’evento cagiona maggiore turbamento fra chi vi assiste, e induce costoro al ripiego sul versante fideistico-religioso in cerca di qualcosa di rassicurante nei confronti di quell’esperienza di oscurità interpretata quale funesto segnale. Il disordine della Natura colpisce variamente, al di là della peste, il continente americano provocando ondate migratorie di disperati in direzione del Vecchio Continente. In simile precipitare delle cose si cerca di salvare il salvabile della struttura socioproduttiva capitalistica. Circa gli elementi leopardiani presenti nel testo l’autrice inglese evoca “il piacere della rimembranza” a beneficio del suo alter ego narrante. Tutti i superstiti della pandemia vengono sottoposti a un regime di vita all’interno del quale si mira alla sopravvivenza. Questo travaglio collettivo psicologico viene ben intravisto in simile prospettiva dalla scrittrice, la quale coglie anche se alla superficie, ma in modo nitido, il valore di archetipi junghiani chiave in simili situazioni.
Così possiamo ben vedere: “il vecchio saggio”, “Madre Natura”. Su un palcoscenico dove una manzoniana Provvidenza agli occhi dei più pare fare giustizia di ogni sorta di iniquità umana trascorsa, emerge la necessità di simboliche figure di sostegno. Lo scopo è quello di evitare la degenerazione del disordine. Pure questo viene colto dalla Shelley nella sua valenza distruttiva, e di conseguenza tratteggiato. La ricerca del divertissement come palliativo verso la mancata maturità personale e l’attacco alle generazioni precedenti nella funzione di capro espiatorio rappresentano dei temi inseriti in modo profondo e intelligente nel romanzo. Nel testo si legge come allo scopo di garantire una qualche tenuta sociale sia stato necessario mantenere forme di distrazione; e d’altro canto come il concetto cardine della società capitalistica, la proprietà (strumento e segno della felicità), non venga toccato nonostante lo sfacelo generale richieda un ordinamento di emergenza a vantaggio di ciascuno. Un secondo inquietante fenomeno celeste si verifica in “The last man” nel finale. Al principio del 2098 tre corpi luminosi all’imbrunire si rivelano nel cielo, e poi accorpatisi si gettano nella nuova unità in mare. Un passaggio del testo, in prossimità della chiusura, mi ha alquanto colpito: «Immagini di distruzione, ritratti di disperazione, il corteo dell’ultimo trionfo di morte saranno disegnati di fronte a te [Images of destruction, pictures of despair, the procession of the last triumph of death, shall be drawn before thee]». Un altro brano, non poco distante mi ha per così dire disorientato e deluso: Mary Shelley riflette la propria insicurezza femminile in un’espressione misogina. E lei misogina e/o maschilista non lo è affatto. In tale neo nel romanzo comprendiamo l’universo sociale civilizzato della sua epoca dove un’inveterata tradizione antifemminista di ispirazione cristiana pesava quanto un enorme macigno su ogni donna. Ne “L’ultimo uomo” la pandemia dura sette anni (2092-2099), e all’ultimo lascia in vita (almeno in apparenza) una sola persona: l’alter ego narrante di Mary Shelley, nel quale e mediante il quale lei ha trasposto e operato la catarsi delle proprie luttuose esperienze. In simile operazione creativa letteraria l’autrice ha saputo raggiungere qualcosa che va oltre il suo personale vissuto e ci ha consegnato un quadro di grandissima significanza collettiva.
 
 


NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Percorsi critici”