di DANILO CARUSO
“The last man” è un
romanzo apocalittico meno noto, rispetto al famosissimo capolavoro, della
scrittrice Mary Shelley (1797-1851). Il testo rielabora in maniera evidente da
un punto di vista soggettivo un’articolata serie di vicende vissute
dall’autrice inglese. Il lato che prenderò in esame è tuttavia quello generale,
della situazione esteriore all’interno del narrato. Vale a dire tutto quanto
abbia una rilevanza non esclusivamente personale nella redazione shelleyana, e
rivesta un interesse oggettivo. Ad esempio all’inizio pare udire una eco del
pessimismo cosmico schopenhaueriano laddove si definisce la vita un cieco e
penoso susseguirsi libidico. E della condizione umana la Shelley preconizza il
concetto heideggeriano della “gettatezza”. Nonostante l’amarezza, teorica e
concreta, l’autrice mostra una vocazione idealistica romantica grazie a cui
trovare un appiglio di salvezza da offrire a tutti: l’amore in tutte le sue
forme darebbe senso e sostanza alla vita umana. Ella, uscita dalla formazione
mentale progressista donatale dal padre filosofo, auspica uno sviluppo
scientifico e tecnologico tale da emancipare l’umanità dai suoi mali. A questo
riguardo è da notare che sebbene il romanzo sia ambientato alla fine del XXI
secolo non compaia niente di diverso in confronto alla situazione di inizio
’800. Non c’è niente di fantascientifico in relazione a un testo edito nel
1826. E anzi riguardo al su citato pessimismo si toccano concetti leopardiani:
un “cupio dissolvi” e l’idea di essere figli di una realtà matrigna. Oscilla qui
l’archetipo di Grande Madre tra il suo lato oscuro negativo, e l’altro benevolo
e positivo. L’umana ricerca della felicità è discriminante. Mary Shelley, come ho
sottolineato in un mio precedente studio1, possiede una struttura
intellettuale molto junghiana. In un passaggio de “L’ultimo uomo” evoca, e non
poi così tanto nebulosamente, l’assetto psichico “Io / controparte sessuale
interna (anima o animus)”. Nella redazione di quest’opera shelleyana appare
altresì, come già ricordato in apertura, il ruolo nevralgico di motivi
personali esistenziali processati da una creativa “funzione trascendente”: in
tal guisa essi perdono la loro carica interiore oppressiva e si traspongono dal
piano dell’estetica della creazione al piano dell’estetica della fruizione,
livello sopra cui ho indagato ciò che possiede un legame con schemi e
riferimenti di carattere universale. Nel romanzo protagonista negativa è
un’epidemia mondiale di peste, la quale alla lunga stermina la popolazione
terrestre: una personificazione simbolica della Grande Madre negativa. Prima
del dilagare su vasta scala del contagio, il romanzo registra un singolare
riferimento alla chiesa di santa Sofia a Istanbul, la cui cupola in un contesto
bellico viene distrutta. La peste causa nello scenario descritto enorme disagio
e preoccupazione obbligando a misure restrittive e di protezione sanitaria:
blocco della libera mobilità e isolamento delle persone ritenute veicolo di
contagio. La pandemia si manifesta attiva sulla base di ondate stagionali,
quindi consentendo temporanei (ma inutili) margini di contenimento. Un aspetto
sociologico che Mary Shelley focalizza con precisione riguardo agli effetti
pandemici inerisce all’economia. In pratica il sistema produttivo e
commerciale capitalistico crolla sotto il peso degli effetti diretti e derivati
collegati alla pestilenza. Impoverimento e disoccupazione accompagnano la
pandemia. Al contagio non si riesce a trovare nessun rimedio efficace. Un
ulteriore singolare dettaglio narrativo ci mostra un fenomeno astronomico. La
mattina del 21 giugno 2093 un corpo celeste si interpone fra la Terra e il Sole
provocando uno stato di oscuramento pro tempore in alcune aree del pianeta.
L’evento cagiona maggiore turbamento fra chi vi assiste, e induce costoro al
ripiego sul versante fideistico-religioso in cerca di qualcosa di rassicurante
nei confronti di quell’esperienza di oscurità interpretata quale funesto
segnale. Il disordine della Natura colpisce variamente, al di là della peste,
il continente americano provocando ondate migratorie di disperati in direzione
del Vecchio Continente. In simile precipitare delle cose si cerca di salvare il
salvabile della struttura socioproduttiva capitalistica. Circa gli elementi
leopardiani presenti nel testo l’autrice inglese evoca “il piacere della
rimembranza” a beneficio del suo alter ego narrante. Tutti i superstiti della
pandemia vengono sottoposti a un regime di vita all’interno del quale si mira
alla sopravvivenza. Questo travaglio collettivo psicologico viene ben
intravisto in simile prospettiva dalla scrittrice, la quale coglie anche se
alla superficie, ma in modo nitido, il valore di archetipi junghiani chiave in
simili situazioni.
Così possiamo ben vedere: “il vecchio
saggio”, “Madre Natura”. Su un palcoscenico dove una manzoniana Provvidenza
agli occhi dei più pare fare giustizia di ogni sorta di iniquità umana
trascorsa, emerge la necessità di simboliche figure di sostegno. Lo scopo è
quello di evitare la degenerazione del disordine. Pure questo viene colto dalla
Shelley nella sua valenza distruttiva, e di conseguenza tratteggiato. La
ricerca del divertissement come palliativo verso la mancata maturità personale
e l’attacco alle generazioni precedenti nella funzione di capro espiatorio
rappresentano dei temi inseriti in modo profondo e intelligente nel romanzo.
Nel testo si legge come allo scopo di garantire una qualche tenuta sociale sia
stato necessario mantenere forme di distrazione; e d’altro canto come il
concetto cardine della società capitalistica, la proprietà (strumento e segno
della felicità), non venga toccato nonostante lo sfacelo generale richieda un
ordinamento di emergenza a vantaggio di ciascuno. Un secondo inquietante
fenomeno celeste si verifica in “The last man” nel finale. Al principio del
2098 tre corpi luminosi all’imbrunire si rivelano nel cielo, e poi accorpatisi
si gettano nella nuova unità in mare. Un passaggio del testo, in prossimità
della chiusura, mi ha alquanto colpito: «Immagini di distruzione, ritratti di
disperazione, il corteo dell’ultimo trionfo di morte saranno disegnati di
fronte a te [Images of destruction, pictures of despair, the procession of the
last triumph of death, shall be drawn before thee]». Un altro brano, non poco
distante mi ha per così dire disorientato e deluso: Mary Shelley riflette la
propria insicurezza femminile in un’espressione misogina. E lei misogina e/o
maschilista non lo è affatto. In tale neo nel romanzo comprendiamo l’universo
sociale civilizzato della sua epoca dove un’inveterata tradizione
antifemminista di ispirazione cristiana pesava quanto un enorme macigno su ogni
donna. Ne “L’ultimo uomo” la pandemia dura sette anni (2092-2099), e all’ultimo
lascia in vita (almeno in apparenza) una sola persona: l’alter ego narrante di
Mary Shelley, nel quale e mediante il quale lei ha trasposto e operato la
catarsi delle proprie luttuose esperienze. In simile operazione creativa
letteraria l’autrice ha saputo raggiungere qualcosa che va oltre il suo
personale vissuto e ci ha consegnato un quadro di grandissima significanza
collettiva.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio
intitolato “Percorsi critici”