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lunedì 28 marzo 2011

IPAZIA, UNA DONNA MODERNA

di DANILO CARUSO

È uscito nelle sale cinematografiche italiane il film Agorà dedicato alla storia di Ipazia (figlia del matematico Teone), filosofa neoplatonica e scienziata (inventò l’aerometro, l’astrolabio, l’idroscopio, il planisfero), ignominiosamente uccisa a 45 anni da integralisti sedicenti cristiani nel 415 d.C. ad Alessandria d’Egitto all’interno di una chiesa dopo avercela portata a forza: «tantum malorum potuit suadere religio». La religiosità, che è umana vocazione naturale, nel momento in cui si converte in nevrosi (ossessiva) diviene peggiore dell’«oppio dei popoli», diventa un veleno che distrugge pure chi vuol servirsene. L’Impero romano dei tempi di Ipazia era in avanzata e forte crisi (demografica e spirituale). I Romani intuirono a suo tempo la “pericolosità” sociale del Cristianesimo: le persecuzioni dei cristiani vanno viste nell’ottica della guerra preventiva (a loro già nota). Ipazia rimane vittima ingiustificata – ricorda l’Ifigenia lucreziana – dell’integralismo che si opponeva al “liberalismo politeista” pagano. Nemmeno gli Ebrei attirarono su di loro un’azione repressiva quale quella subita dai seguaci di Cristo: accadde che il Vangelo si radicò e diffuse come lo stoicismo e l’epicureismo durante l’Ellenismo. Il volerlo imporre a tutti, costi quel che costi, non fu opera di evangelizzazione: convertire poi con la forza e per mezzo di leggi significò solo usare una forma di violenza. La crisi spirituale più che a un risanamento portò alla radicalizzazione dello scontro cristiani-pagani: il Cristianesimo fagocitò la filosofia, che non aveva ucciso nessuno, dando un colpo mortale all’impero che si era poggiato su un sistema sociale più libero. La colpa di tutto ciò non sta naturalmente nel Messaggio evangelico (che è un messaggio universale d’amore e di pace), risiede nel progetto – non condivisibile – di voler accompagnare qualsiasi monoteismo con un impianto totalitario. Piegare il Vangelo a questa logica produsse un ulteriore elemento di disgregazione. La difesa preventiva dei Romani non era di natura religiosa: si può parlare di “repressione di culti socialmente pericolosi”. Il Cristianesimo vinse, ma dalla filosofia prese solo gli strumenti concettuali (nella filosofia ebraica alessandrina si ritrovano i prodromi della teologia cattolica). Gesù Cristo non avrebbe voluto tutto questo, se fosse rimasto personalmente in terra, e del resto anche lui fu vittima di quello stesso integralismo, stavolta all’interno dell’Ebraismo. Bisogna distinguere nella storia della Chiesa, così come in qualsiasi storia, aspetti positivi e aspetti negativi: tutto quello che va da Ipazia a Giordano Bruno e oltre non può che essere condannato. Le persecuzioni dell’inquisizione – qualcuno stima le vittime in dieci milioni, di cui nove solamente le streghe – si configurano come “crimini contro l’umanità”: non importa l’estensione, è questione di qualità del reato. Queste cose non si possono cancellare, ma in questa storia ci sono pure particolari e splendide figure di santi, e non dobbiamo accantonare soprattutto Gesù Cristo che è morto, come Ipazia, per testimoniare la verità. Gli integralisti di allora erano solo integralisti, non meritano di essere chiamati cristiani. La Chiesa medievale garantì la prosecuzione della civiltà occidentale e in primis del Cristianesimo “positivo”, e produsse la conservazione del sapere di quel mondo antico che aveva contribuito a demolire. Nessuno è perfetto. L’importante è correggersi. Ipazia è indubbiamente “donna moderna” rispetto ai suoi tempi: definirla donna d’oggi pare riduttivo. Va ben al di là di un’ideale collocazione cronologica a posteriori: la sua virtù, il suo valore, le sue eccezionali capacità la trasfigurano nel patrimonio di crescita dell’umanità. Ella crede nella ragione, il linguaggio universale che Dio ha dato agli uomini, e non viene meno alla sua missione di “amore-per-il-sapere”. Cade, martire, tra quelli che hanno difeso la pacifica convivenza nelle diversità, a causa dell’odio, del settarismo, dell’invidia, mali che pretendevano di distruggere con la loro irrazionale avversione persino i libri delle biblioteche, e dunque la cultura, la civiltà, il progresso. Ispiratore del delitto il vescovo antisemita Cirillo (successivamente canonizzato); un altro vescovo, invece, Sinesio, rimase devoto e riconoscente ex allievo ipaziano. Come non accostarla d’altro canto, per instaurare un nuovo paragone, a Padre Pino Puglisi. La grazia di Dio, che agisce ovunque e in modi misteriosi, li avrà accolti entrambi nel paradiso dei beati: con parole cariche di pathos, nella rappresentazione scenica Il sogno di Ipazia (pregevole opera di Massimo Vincenzi), ella – interpretata magistralmente da Francesca Bianco (con l’ottima regia di Carlo Emilio Lerici) – ci dice: «E non voltatevi mai indietro a vedere il mio corpo che brucia. Il pensiero non brucia. Io adesso voglio solo salire sul tetto della mia casa a guardare le stelle. Mio padre è lassù che mi aspetta. Lo so.»; nessuno potrà mai cancellare l’immagine divina dal creato: arde sempre la fiamma della verità. Ipazia merita, più che per nemesi, quell’espressione agostiniana delle Confessiones: «bellezza così antica e così nuova».









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giovedì 17 marzo 2011

LERCARA FRIDDI E LE GUERRE D’ITALIA

di DANILO CARUSO


  • L’impresa dei Mille (1860)

Nel 1859 si concluse vittoriosamente la seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria. Il 4 aprile 1860 Palermo insorse contro i Borboni. L’insurrezione nel capoluogo venne sedata dall’esercito, ma divampò nell’entroterra. Tra i primi ad aderirvi un gruppo di Lercaresi guidati dall’abate Agostino Rotolo (spretatosi, a guerra finita, esercitò il mestiere di commerciante abbiente in piazza Marina a Palermo). L’undici maggio Garibaldi sbarcò a Marsala, puntando su Palermo. I picciotti lercaresi si congiunsero con le truppe dell’eroe dei due mondi sulle montagne di Gibilrossa, la mattina del 25 maggio dopo essere stati raccolti nei giorni precedenti da Giuseppe La Masa (intervenuto personalmente a Lercara per restaurare l’ordine) che reclutava squadre, in tempo per partecipare alla presa di Palermo (27-30 maggio). Di loro in quella circostanza ne morirono circa cinque. I Lercaresi che diedero il loro contributo all’unità d’Italia vestendo la camicia rossa furono complessivamente una trentina, alcuni ricevendo in seguito anche delle onorificenze militari. Nobile gesto sarà quello del Rotolo di disporre dopo la sua morte, avvenuta nel 1908, un lascito per la comunità lercarese con il vincolo di depositare la rendita patrimoniale «sino a quando rendita e capitale depositati potessero far fronte alla erezione di un ospedale». Venti reduci lercaresi dell’impresa dei Mille costituirono nel 1910 un circolo, ed un paio di loro arrivò pure a vestire la camicia nera.


  • La prima guerra italo-etiopica (1894-1896)

Nel 1894 l’Italia crispina cercò di ampliare i propri territori coloniali nel corno d’Africa iniziando l’occupazione dell’Abissinia: la guerra si concluse con un fallimento dopo le sconfitte di Amba Alagi (1895), Macallé ed Adua (1896). A questa avventura coloniale presero parte pochi militi lercaresi, ed in memoria di uno di essi, Gioacchino Miceli, morto in battaglia ad Adua, il Comune, che in sede di dibattito consiliare aveva prestato vigile attenzione per gli sviluppi delle sconfitte di Amba Alagi ed Adua, fece apporre nel 1903 una lapide marmorea sulla parte destra della facciata del Plesso Sartorio, tra la seconda e la terza finestra del pianterreno, in posizione simmetrica rispetto ad altra lapide posta contemporaneamente che commemora i garibaldini lercaresi.


  • La guerra italo-turca (1911-1912)

Nel 1911 l’Italia giolittiana, al canto di “Tripoli”, riprese il sogno colonialista, stavolta con pieno successo, strappando la Libia ed il Dodecaneso all’Impero Ottomano. Nello stesso anno il torpediniere lercarese Giuseppe Francesco Serra cadde all’età di 20 anni in Marmarica il 24 novembre, quasi un mese dopo lo sbarco a Tripoli: una lapide posta alla fine del 1914 nella saletta d’ingresso del Plesso Sartorio, sul muro a destra, lo ricorda ai posteri.


  • La prima guerra mondiale (1915-1918)

Nel 1914 scoppiò il primo conflitto mondiale: l’Italia stette alla finestra per dieci mesi; alla fine, cedendo alle sirene dell’Intesa, lasciò la Triplice Alleanza e dichiarò guerra all’Austria (che era disposta a cedere il Trentino all’Italia in cambio della sua neutralità). Al completamento del processo di riunificazione nazionale parteciparono alcune centinaia di Lercaresi: 260 caddero al fronte, i loro nomi furono incisi ad imperitura memoria sul marmo del monumento a loro dedicato nel 1922; 33 fra i superstiti furono decorati. Il punto in cui questo è collocato è piazza Abate Romano (accanto al Plesso Sartorio, alle spalle Palazzo Palagonia). La scultura in bronzo  (v. foto) è opera di Cosmo Sorgi (1892-1979; studiò tra l’altro a New York, perciò questa assomiglia alla famosa statua della libertà).
Il Lercarese Antonino Granatelli (1889-1977) nella sua carriera nell’esercito, durata più di quattro decenni (combatté nella guerra italo-turca e nelle due guerre mondiali), e nella quale giunse ad essere colonnello, ottenne nel ’15-’18, da tenente, la medaglia di bronzo al valor militare (in seguito ad un’avanscoperta, condotta sul monte Grappa, in cui fu esposto ai colpi dell’artiglieria austriaca).


  • La seconda guerra mondiale (1940-1945)

Lercara fu durante il secondo conflitto mondiale, dall’aprile del ’43, in seguito al bombardamento di Palermo, sede del Distretto militare presso il Plesso Sartorio, che si rivela in definitiva oggi anche un museo delle guerre. Il paese fu preso di mira dagli aerei degli Alleati (che partendo da Malta nella prima metà del ’43 bombardarono la Sicilia) causando alcuni morti. Nell’estate del ’43 vi transitarono i soldati americani della VII armata, entrando nel paese nella prima mattinata del 21 luglio con alla testa un soldato con bandiera e mitra spianato, provenienti dall’agrigentino e diretti a Palermo. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio, nell’Italia occupata dai Tedeschi nacque la RSI contrapposta al regno del sud occupato dagli Angloamericani. I caduti lercaresi in questa guerra furono 60, tre le medaglie al valore:
-  Ermando Decio Maciocio (Lercara Friddi, 25-9-1923 – Cengio, 2-11-1944), partigiano, ucciso in uno scontro con un gruppo di fascisti in provincia di Savona (oro, 1950);
-  Filippo Vicari (Lercara Friddi, 28-11-1904 – Mediterraneo centrale, 14-11-1942), sergente maggiore, morto durante un’operazione di salvataggio (argento, prima dell’armistizio);
-  Gioacchino Catalano (Lercara Friddi, 22-2-1915 – Nanthannan, 21-4-1945), aiutante di batteria (bronzo, prima dell’armistizio).
Lercara ospitò nell’ultimo periodo di guerra (1944-45) anche un centro di accoglienza degli sfollati da aree di guerra provenienti dall’Italia continentale e dall’Africa: ne furono concentrati circa duecento.




1861 - 17 marzo - 2011
ANNIVERSARIO DELL’UNITÀ D’ITALIA





IL MONUMENTO AI CADUTI LERCARESI NELLA GRANDE GUERRA 


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venerdì 4 marzo 2011

LA REPUBBLICA DEGLI ASINI

favola scritta da DANILO CARUSO

In un tempo antichissimo non vigeva l’attuale ordine naturale, l’uomo non aveva affermato il suo dominio sugli animali e sulle forze della natura, anzi era l’asino (oggi simbolo d’ignoranza), dotato persino di parola e della capacità di scrivere, ad aver instaurato il primo ordine sociale.
Gli uomini erano litigiosi fra di loro e diffidenti: ne approfittarono gli asini che coalizzandosi istituirono una dittatura.
Da questa alleanza nacque il famoso detto asinus asinum fricat (l’asino si “strica” con l’asino), che conserva nel linguaggio la memoria di quel primordiale evento.
Gli asini capirono che nella loro società l’unico collante poteva essere la solidarietà (di specie) e non ebbero difficoltà a nominare un Senato.
Farne parte era per ognuno di loro un sogno; tant’è che uno disse: «È più facile che un uomo voli che entrarvi!».
Infatti chi aspirava alla suprema magistratura doveva essere un asino con tutti i sacramenti: una scelta sbagliata poteva dar adito ad un sovvertimento sociale e portare l’uomo al potere qualora avesse messo da parte il suo istinto egoistico.
Ma gli asini impararono dagli uomini solo i peggiori difetti: l’uno voleva predominare sull’altro.
Scoppiò la guerra civile (bellum asininum) combattuta da due fazioni.
Nessuno badava più alla pulizia ed all’ordine.
Tutto era un immondezzaio, non si ebbe rispetto neanche per l’Asineo, vecchia sede della dittatura.
Qualche asino pensò di spostare rifiuti e macerie della guerra nella zona degli uomini, nella speranza anche di intossicarli e sterminarli per sempre.
Gli uomini però capirono che se avessero solidarizzato come gli asini ne avrebbero preso il posto, e così fecero.
Si unirono, diedero fuoco ai rifiuti ed il fumo tossico bruciò la facoltà di quelli di parlare, rimasero in grado di emettere solo un raglio.
Non potendo più comprendersi rimasero disuniti.
La società precedente fu sostituita da quella degli uomini, ma per una questione di accortezza questi non riportarono mai nei codici ed in altri scritti la storia della tirannia degli asini, che il Signore aveva creato per portare i pesi.
Da allora si dice che i ragli degli asini non giungono in cielo…