di
DANILO CARUSO
Franz
Kafka (1883-1924) è il famoso scrittore praghese che ha involontariamente dato
vita a un fortunato aggettivo: “kafkiano”. Proveniva da una famiglia ebraica
benestante; il padre Hermann (1852-1931), commerciante, rappresentò una figura
dispotica, un autoritario vessatore, il quale ne condizionò irreparabilmente l’esistenza.
La conseguenza fu l’assunzione da parte di Franz di un personale radicale
sentimento di insicurezza e di inferiorità al cospetto dell’immagine paterna e
altresì del resto dell’ambiente sociale in cui si trovò a crescere. Nella sua vita
ebbe instabili legami amorosi con più donne, e fu costretto de facto a
laurearsi in giurisprudenza. Dopo la laurea prestò all’interno di un tribunale
un anno di praticantato gratuito e poi passò a svolgere la mansione di
impiegato presso istituti assicurativi. Questi spunti biografici personali si
possono rintracciare trasposti nel telaio narrativo di uno dei suoi celebri
romanzi: “Il processo”. Kafka ne iniziò a mettere su carta il testo nella prima
metà degli anni ’10. Nel periodo antecedente alla redazione l’autore prestò la
sua attenzione alla cultura ebraica e alla psicanalisi, altri poli concettuali
presenti nella suddetta opera. Venne pubblicata postuma, subito dopo la morte.
Il manoscritto lasciò alcuni problemi: poiché i capitoli non recano annotazione
dell’autore circa l’esatto ordine di presentazione (è possibile infatti
ipotizzare sequenze diverse da quella canonica diffusa); e perché esistono
abbozzi testuali di inserimenti rimasti fuori in quanto ancora in uno stadio di
elaborazione incompleto. Protagonista del testo kafkiano è il trentenne Josef
K., un dirigente di banca, residente in un appartamento dove tiene una camera
in affitto. Qui, una mattina, senza nessuna spiegazione dell’atto, viene
dichiarato in arresto da alcuni agenti di polizia. L’assurdità (kafkiana) della
situazione si spinge sino al punto che, benché quel provvedimento, egli abbia
la facoltà immediatamente dopo di potersi recare al suo consueto luogo di
lavoro. La contorsione illogica di queste vicende iniziali rinvia allo stato
psichico del redattore del romanzo. Kafka, come accennato, visse in maniera
traumatica la sua formazione in famiglia e in particolare il rapporto col
padre, un uomo dedito all’attività/attivismo commerciale. L’attivismo
costituisce la chiave fondante della prassi nell’Ebraismo (volto, al pari di
quello posteriore protestante, da esso generato, alla ricerca del segno mondano
dell’elezione divina, la quale si appaleserebbe nel premio della ricchezza
materiale, in simili ottiche). In “Der prozess” rivive tutta la cupezza
medievale e l’inaccettabilità logica (cioè scaturente da nevrosi) di un
procedimento inquisitoriale. Kafka tratteggia, sebbene ciò sia vissuto in
maniera soprattutto individuale, una dimensione di assurdità nevrotica non
estranea alla tradizione giudeocristiana. Il Dio veterotestamentario esige una
totale devozione che non fa sconti: questo è il valore pedagogico del (mancato)
sacrificio di Isacco da parte di Abramo. La figlia di Iefte, perché donna
(vittima di una cultura misogina), non sarà così fortunata (gli uomini erano
importanti in Israele poiché potenziali soldati). Tali connotazioni sono
transitate oltre che nel Cristianesimo anche nella mentalità di Hermann Kafka,
il quale si comportava imitando questi esempi. Josef K., accanto a Isacco, può
paragonarsi a una strega, accusata e condannata a morte di non si capisce quale
comprensibile logica mancanza. Il protagonista de “Il processo” raffigura un
alter ego dello scrittore praghese, e la vicenda esposta spinge sino
all’estremo limite possibile il modello di Isacco. Vale a dire che nella psiche
kafkiana l’Io dell’autore si sente offerto in olocausto a opera del padre alla
tradizione attivistica ebraica (la quale condizionò quest’ultimo nel tenerlo in
contrasto con il figlio). Isacco / Josef K. / Franz Kafka attraversa questa
situazione: il protagonista a modo proprio nel testo, ma chiaramente espressivo
sotto questo profilo. Il giovane Franz nella sua vita si sentì trattato dal
padre a guisa di un Isacco, e lui nella sua sindrome depressiva trasformò
letterariamente ne “Il processo” siffatta prospettiva in un orizzonte del tutto
negativo, come quello della figlia di Iefte o di una strega nelle mani di un
mostruoso inquisitore. Possiamo parlare, nell’operazione creativa letteraria
del caso, di una “funzione trascendente negativa”. Kafka ha cioè realizzato
nella sua costruzione narrativa il proprio incubo finale: il che è sintomo
evidente di una patologia depressiva. Mi pare di rintracciare altresì nella
scelta del nome del protagonista, Josef, un’allusione al biblico Giuseppe
figlio prediletto di Giacobbe. Qui il nome verrebbe usato in modo antitetico, a
denotare la condizione su descritta. Giuseppe K. (ossia Kafka, cioè lo
scrittore medesimo calato nell’incubo del romanzo) si trova al centro di una di
quelle situazioni che sono ormai note e definite quali “kafkiane”. L’aggettivo
“kafkiano” denota una realtà (finta o reale che sia) dove emerge un particolare
carattere del “distopico”, del non-luogo-negativo che si concretizza1.
Mentre la distopia convenzionale presenta un contesto fondato su una logica
malata del ragionamento (nevrosi), e che quindi poggia sulla junghiana funzione
personale caratteriale della ragione, il “kafkiano” si edifica sull’altro polo
della coppia delle facoltà razionali (in senso lato): il sentimento.
L’aggettivo indica una distopia sentimentale junghiana, un
non-luogo-totale-della-razionalità-in-assoluto, dove dominano l’angosciosa sensazione
di una indefinita colpa e il realizzarsi della sua distopica pena. Questo
estremismo della distopia, vissuta quale esperienza di ideale negativo, trae
origine nella vicenda esistenziale di Franz Kafka, animata nel sottofondo da una
vocazione al cupio dissolvi.
E
da detto contesto individuale l’aggettivo è passato a qualificare cose
analoghe, giacché la base formale è stata generalizzata. Josef K., al termine
di quell’insolita giornata in cui era stato dichiarato in arresto, la quale era
peraltro quella del suo trentesimo compleanno, fa ritorno alla sua camera,
nella speranza che tutto possa rientrare nella normalità consuetudinaria del
suo stile di vita. Il colloquio fra il protagonista e Frau Grubach mette in
scena la spiegazione della valenza semantica dell’aggettivo “kafkiano”: «qualcosa
per studiosi, certamente che io non comprendo, la quale però non si deve
comprendere [Frau Grubach: … etwas Gelehrtes vor, das ich zwar nicht verstehe,
das man aber auch nicht verstehen muß]». Il fatto che il protagonista del
romanzo sia un bancario non si rivela per niente casuale. Al di là del figurato
riferimento biografico, l’attività di speculazione sul denaro e sul commercio
sono state tipiche degli Ebrei sparsi nel mondo dopo la loro dispersione in
epoca romana. Lo scrittore praghese nel ripresentarsi nelle vesti letterarie di
un impiegato di banca non fa altro che raffigurarsi inserito in un’allegorica
ortodossia esistenziale (auspicata dal padre), una situazione messa in crisi
dal suo reale disadattamento in relazione a ciò: da qui l’accusa e la colpa
profonda, indicibile. Che nel concetto di “kafkiano” ci sia un quid di torbido
libidico sentimentale lo dimostra pure la chiusura del primo capitolo del
romanzo dove il protagonista desidera incontrare Fräulein Bürstner al fine di
raccontarle della mattinata. Ma quell’incontro con la coinquilina si tramuta
alla fine in un tentativo di approccio sessuale (il che testimonia lo stato di
disagio in materia di Kafka). Convocato per la prima udienza del procedimento a
suo carico, Josef si reca presso la sede d’esame seguendo una modalità
schiettamente onirica la quale niente ha a che condividere con dinamiche reali.
E altrettanto surreali si mostrano questo tribunale e la sua collocazione: la
sensazione è che il protagonista entri in qualcosa che sia una via di mezzo tra
un formale palazzo di giustizia e una sinagoga (la quale forse nell’immaginario
kafkiano è possibile abbia fornito suggestione riguardo al contesto in cui quel
giudizio ha iniziato a tenersi). Il protagonista del romanzo accetta la
procedura sopra di lui benché appaia qualcosa di irreale, nell’impressione che
la sua colpa sia “originaria”, e che perciò il tribunale e il processo siano
soltanto una conseguenza e non la causa della sua condizione di indagato. È il
tribunale della nevrosi quello che Kafka accoglie in “Der prozess”, di quel
modello nevrotico predominante nel suo ambito familiare e sociale di vita, e
poiché dominante e diffuso non potrà fare a meno di spingere il suo alter ego
letterario ad affrontarlo. La puntuale segnalazione di Josef in quell’assemblea
dei torti subiti il giorno della dichiarazione d’arresto non ottiene appunto
efficacia: il mostro nevrotico kafkiano contro cui si scaglia è un gigante che
lo costringe ad abbandonare la prima sessione di giudizio, e senza liberarsi.
Rimane inevitabile nella coscienza di Franz Kafka l’andare sino in fondo in
questi termini traslati narrativi della sua prospettiva psichica posta sotto
negativo giudizio. Il capitolo terzo del romanzo conferma la validità di una
lettura psicanalitica del testo. La visita che Josef compie della sede del suo
(nevrotico) palazzo di giustizia rappresenta un’ispezione dell’Ombra junghiana.
La surrealistica rappresentazione che lo scrittore praghese attua attraverso
quelle immagini ci pone davanti a simboli psicologici. Il cancelliere, sua
moglie e lo studente che l’insidia, il giudice istruttore sono figurazioni
immerse in un inconscio dal lato dell’Ombra. Rappresentano rispettivamente, in
modo patologico, facoltà della psiche individuale andate in balia di una forte
nevrosi a sfondo depressivo: la razionalità, il sentimento degenerato, l’Ombra
(da conoscere, tuttavia da tenere alla larga dopo la catarsi potenziale).
L’interiore conflittualità della psiche kafkiana viene testimoniata nella
conclusione del suddetto capitolo dove il protagonista è combattuto fra una
malsana volontà di essere giudicato, di rimanere all’interno del tribunale, e
il desiderio di uscire fuori di tutto ciò, idest della nevrosi. Indice di tale
intimo contrasto si trova nel riferimento a uno stato di malessere del
personaggio principale de “Il processo”: la manifestazione di una
sintomatologia psicosomatica è allusiva di quanto testé spiegato. Tornato pro
tempore alla vita di bancario, Josef cerca di incontrare in modo infruttuoso
Fräulein Bürstner mirando a far chiarezza sull’episodio relativo al loro ultimo
incontro: questi segmenti rievocano il problematico rapporto di Kafka con le
donne. Egli, nevrotico, poi mette in scena i “pensieri disturbanti” nel
capitolo quinto; di nuovo, in questa grande allegoria patologica che è “Der prozess”,
essi sono rappresentati dalle guardie che si recarono all’inizio da Josef allo
scopo di dichiararlo in arresto: vale a dire in realtà a notificargli la
nevrosi kafkiana. Costoro, il cui operato il protagonista stesso lamentò in
precedenza, ne sono simboli superficiali. E ora il bastonatore-della-Ragione
prendendoli di mira per punirli crea disagio nella psiche di Kafka, in bilico
tra lucida comprensione e atteggiamento nevrotico (il quale si sublima in una “funzione
trascendente negativa” mediante la creazione letteraria). Il protagonista del
romanzo vorrebbe dar seguito alle richieste d’aiuto di quelli, quasi fossero
omeriche sirene, però il bastonatore (la sana razionalità) non concede sconti.
Il fatto che la punizione figurata dei “pensieri disturbanti” avvenga nella
banca dove lavora Josef denota l’incapacità dello scrittore praghese di uscire
all’esterno del suo recinto nevrotico: egli si porta tutta la sua ossessione
appresso, senza trovare la forza di staccarsene.
Lo
zio Karl, di Josef K., il quale un giorno si reca dal nipote in banca allo
scopo di offrirgli il proprio aiuto per uscire pulito da quell’inusuale
procedimento giudiziario di cui è oggetto, non costituisce altro che una
simbolica figura patriarcale, una sorta di genio familiare, trasposizione dell’immagine
paterna che Kafka conservava nella sua mente, un’imago richiamante all’ordine e
al rispetto della tradizione attivistica ebraica. Lo zio, come se fosse una
distopica personificazione delle leggi di Atene davanti a Socrate condannato,
dice appunto al nipote che la di lui persona da motivo di vanto rischia di
trasformarsi per i parenti in occasione di indelebile disonore. La risposta che
Kafka fa dare al suo alter ego Josef è altamente significativa: il nipote dice
allo zio di essere perfettamente consapevole dell’obbligo familiare di fornire
una spiegazione. Lo zio, dipinto da Kafka animato nella sua esistenza da grande
slancio attivistico, porta allora Josef da un suo amico avvocato cercando di
trovare una soluzione “ortodossa” a beneficio del nipote “eretico”. I rimanenti
due terzi di questo capitolo sesto ripropongono la forma del terzo: ritorna quel
frullato nevrotico con altre maschere a rappresentare le tendenze verso cui
cade in soggezione la psiche kafkiana (senso di colpa, difficoltà a
liberarsene, vocazione a mantenere la nevrosi; problemi nei rapporti amorosi
con le donne, forse anche per suggestione dei pregiudizi antifemministi ebraici).
Il capitolo settimo de “Il processo” offre una prospettiva più profonda
rispetto al precedente. Infatti emerge al suo inizio il chiaro ruolo di
analista terapeuta assunto dal personaggio dell’avvocato che assiste Josef,
ruolo di terapista naturalmente nei confronti di Kafka. Viene qui adombrata nei
simboli qualcosa di paragonabile a una procedura di assistenza psicanalitica:
il processo al protagonista del romanzo rappresenta una nevrosi freudiana, ma
altresì un vero e proprio, però fallimentare, processo di individuazione
junghiano. Si allude nelle parole kafkiane alla profondità dell’inconscio
personale, inaccessibile all’analista (avvocato). I funzionari del tribunale che
tiene Josef a giudizio sono i simboli di sintomi nevrotici di superficie. La
segretezza in cui opera questo tribunale imita il remoto agire di un contenuto
di nevrosi celato dal velo dell’inconscio individuale. Pertanto appare
comprensibile laddove lo scrittore praghese afferma che la “causa” possa
sfuggire di mano dal controllo dell’“avvocato”: il trattamento terapeutico non
necessariamente riesce a scavare fino alla radice nella ricerca del movente
nevrotico remoto, dietro a quel livello che nel nostro caso Kafka definisce
esplicitamente quello dei «pensieri di una possibile colpa [Gedanken an eine
mögliche Schuld]». Il capitolo settimo è anomalo giacché stabilisce una natura
positiva riguardo al possibile operato dell’avvocato, tuttavia messo in gioco
dallo zio attivista, simbolo del richiamo familiare kafkiano. Tutto ciò testimonia
lo status mentale dell’autore praghese, il quale, a ben vedere, non riesce a
distinguere atteggiamenti dannosi alla sua psiche da altri spunti di recupero.
Si potrebbe concludere che egli vaghi confuso, privo di una bussola
(razionale), nelle nebbie nevrotiche e nell’oscurità dell’Ombra junghiana (di
cui rappresentanti sono tutti i funzionari del tribunale di Josef). La
particolare conformazione del lungo capitolo settimo prosegue con la
ripetizione del contraddittorio cliché che accoppia un campione dell’attivismo
(prima lo zio Karl, adesso un industriale) e una figura che di fatto svolge il
ruolo di psicanalista (in precedenza l’avvocato di Josef e ora il pittore
Titorelli). Il protagonista del romanzo kafkiano viene sollecitato a recarsi da
un sui generis artista da parte di un imprenditore industriale al corrente
della sua condizione di “imputato”. Titorelli, mediante un linguaggio
simbolico, spiega lucidamente a Josef K. (alias Franz Kafka) la triplice
prospettiva futura del procedimento giudiziario, ossia della nevrosi ossessiva
al centro di “Der prozess”: una soluzione completa, cioè la guarigione totale
con la ripresa di un più equilibrato ordine mentale; una soluzione finta, la
quale non risolve al cuore il problema ma ne rimuove gli effetti superficiali,
vale a dire una nevrosi congelata nelle sue cause prossime, però non in quella
radicale remota; il rinvio, ossia il blocco di un confronto diretto col
problema giudiziario, e quindi l’“evitamento” a tempo indeterminato, in termini
patologici, di una risoluzione intervenendo sulle cause psichiche. Josef si
reca dal suo avvocato, Huld, dopo aver preso la decisione di togliergli
l’incarico della sua difesa, a sottolineare la volontà di Kafka di rifiutare un
aiuto terapeutico nella personale nevrosi. E nello studio di Huld, il quale
altro non raffigurerebbe se non quello di uno psicoterapeuta, incontra un
commerciante (ennesimo rappresentante dell’attivismo nevrotico) il quale fuori
della letterale esposizione kafkiana è un depresso a causa della scomparsa
della moglie. Costui ha fatto ricorso a più psicanalisti e sembra inoltre
alludere nelle sue parole alla divisione fra correnti di studio diverse
(freudiani, junghiani, et ceteri). Il personaggio di Leni (assistente dell’avvocato),
che torna più volte nell’opera, costituisce l’abbozzo figurato dell’“anima
junghiana”, idest la controparte psichica individuale sessuale di Kafka; la
connessione con la quale porterebbe avanti il “processo di individuazione
junghiano”, cioè il percorso volto alla pacifica assunzione di un equilibrio
interiore. Non è da trascurare che Leni sia associata all’avvocato, e che
quindi abbia un simbolico ruolo terapeutico specifico. Però la coscienza
individuale kafkiana rimane assediata da una patologia nevrotica, e l’autore praghese
si rivela incapace di superarla e di portare a livello di consapevolezza il suo
universo interiore nonostante gli svariati spunti offerti e ben rilevabili
dalla lettura del testo. Kafka rifiuta di essere aiutato da chiunque, si chiude
nella propria scrittura in un modo involutivo dove materializza il peggio della
sua realtà (funzione trascendente negativa). La seconda metà dell’incompiuto
capitolo settimo presenta la grottesca rappresentazione nella logica di questo
romanzo esaminato del rapporto psicoterapeuta/paziente.
Il
penultimo capitolo di “Der prozess” porta tutti i nodi simbolici e concettuali
kafkiani al pettine. Il Duomo al cui interno si reca Josef simboleggia la
sinagoga, a sua volta immagine del principio attivistico che anima l’Ebraismo. Il
sacerdote che richiama l’attenzione del protagonista e che rivela la propria
organicità col sistema giudiziario opprimente Josef simboleggia l’origine della
patologia nevrotica di Kafka. Una sindrome ulteriormente, ed esplicitamente,
chiarita dalle parole di tale religioso. Costui dopo un accenno di
antifemminismo, che nel caso di Kafka è da tradursi in un nevrotico monito a
non seguire il richiamo dell’“anima junghiana” e a non dar luogo a un concreto
“processo di individuazione” (previsto come auspicio dalla psicologia
analitica), fa un diretto richiamo della Torah per mezzo dell’aneddoto del
guardiano posto a protezione della Legge e dell’uomo che vorrebbe superare
l’ingresso di conoscenza di essa medesima, accesso che viene impedito al
secondo dal primo. Le spiegazioni che il sacerdote fornisce al protagonista del
romanzo costituiscono una lucida illustrazione allegorica della nevrosi
attivistica alla base dell’Ebraismo, la quale nel successo mondano intravede il
segno della predilezione divina (si pensi ad esempio a Giacobbe e a Giobbe).
L’analisi esposta dal religioso incontrato da Josef sebbene il primo sia
organico al campo della nevrosi, è obiettiva perché puntualizza che se da un
lato l’uomo può essere vittima di una nevrotica pulsione attivistica,
dall’altro gode di una libertà che potrebbe smarcarlo dalla tirannia
patologica. Simile pensiero viene ricapitolato e ribadito nel discorso del
religioso proprio nella conclusione del capitolo nono. In tali ultimissime
righe egli dice di essere un simbolo narrativo della nevrosi kafkiana, la quale
tuttavia non è inderogabile, né incurabile: tutto resta nelle mani del
portatore di essa. Qui Josef, il quale all’inizio del capitolo viene avvisato
da Leni (anima junghiana) del fatto di essere in pericolo, dopo che costui si è
allontanato dall’avvocato/terapista, giacché ricercato: ormai la nevrosi ha
preso il sopravvento e non ha più argini di trattamento. L’ultimo capitolo del
romanzo offre in occasione della sua chiusura la scena di un olocausto
veterotestamentario sulla falsariga dell’episodio di Isacco. Due sinistri
personaggi prelevano Josef dalla sua residenza la sera del giorno precedente il
suo compleanno. È trascorso esattamente un anno dalla mattina della sua
dichiarazione in stato di imputazione. Viene prelevato con la forza ma senza
che egli opponga una rilevante resistenza o manifesti l’intenzione di essere
aiutato da persone viste in strada (una donna, simbolo dell’“anima junghiana”;
un poliziotto, simbolo della razionalità), e, finiti fuori del centro abitato
presso una cava, viene ucciso a guisa di una vittima sacrificale sopra un
altare. Josef riceve il destino di un Isacco però sacrificato al pari della
figlia di Iefte. In questa finale negativa allegoria il padre di Franz Kafka,
promotore della nevrosi di questo, nevrosi che lo ha posto in disagio,
nell’insicurezza, reso impotente a liberarsi dall’opprimente presenza, ha
offerto il figlio in olocausto al principio attivistico ebraico. Degni di nota
a questo punto sono un paio di dettagli biografici. Un primo non indifferente
riguarda il nonno paterno dello scrittore praghese: costui era stato un
macellaio con autorizzazione religiosa, cioè qualificato nel rispetto delle
norme tradizionali ebraiche in materia. Un secondo altro riguarda lui stesso,
il quale nella sua breve vita divenne vegetariano. Per quanto concerne le
sezioni del romanzo che Max Brod (1884-1968), amico fraterno e curatore postumo
della produzione letteraria di Franz Kafka, escluse è il momento di formulare le
riflessioni pertinenti. I cinque capitoli incompleti, e il cui contenuto è
stato in parte fatto oggetto di soppressione nei manoscritti kafkiani, mi hanno
particolarmente colpito per via del positivo valore della sostanza contenuta
rispetto a tutto il resto del progetto narrativo così come è stato pubblicato.
Questi testi accantonati sembrano far parte di un’altra linea concettuale
creativa, dove Kafka intraveda la possibilità di un’uscita dalla sua nevrosi.
Possibile il fatto che abbia tentato uno sforzo in tal senso, il quale sia
andato frustrato, causando l’accantonamento di simili segmenti a vantaggio di
un telaio che possiede un segno fortemente negativo e involutivo. La volontà di
Kafka era che post mortem i suoi elaborati intellettuali fossero del tutto
distrutti. In parte, prima di morire prematuramente di tubercolosi, realizzò da
sé questa intenzione. Brod non eseguì la richiesta kafkiana e diede alle stampe
manoscritti di diverse opere inedite. Sembra che all’autore de “Il processo”
interessasse liberarsi della sua persecuzione nevrotica e che la prospettiva
della morte realizzasse tale suo cupio dissolvi. Perciò la sopravvivenza delle
sue opere apparirebbe in palese contrasto con la sua volontà di non lasciar
traccia alcuna di sé e dei suoi problemi. Creare un vuoto assoluto, dominato
dal silenzio e dall’oblio, tra sé e il padre (col mondo collegato) sembra la
mira strutturale dello scrittore. È mia impressione che l’attività creativa
letteraria di Franz Kafka facesse parte organica della sua nevrosi, fosse cioè
nata come prosecuzione di questa al fine di produrre quel mancante luogo reale
dove portarla a pieno compimento. Mi è possibile dunque parlare di “distopico”
in relazione al “kafkiano”. Come ho già chiarito ho inteso questo come la
distopia della funzione personale junghiana “sentimentale” del carattere, un
luogo di turbamento, angoscia, senza alcuna spiegazione razionale, se non si va
a scavare nel profondo della psiche, nella dimensione dell’inconscio. Quindi,
quando Kafka chiese a Brod di annientare tutti i propri scritti, gli chiese di
cancellare la memoria della sua patologia in segno di rispetto. L’amico non
assecondò la sua ultima volontà, e nel far ciò è chiaro che la decisione gli
sia pesata tantissimo: ha voluto onorare lo scomparso Kafka nel tentativo di
presentarlo in primis quale scrittore. Franz Kafka è indubbiamente un grande
autore, però non dobbiamo sottovalutare l’ordine dei fattori nella sua
circostanza: senza il suo disagio nevrotico non avrebbe scritto forse niente di
rilevante, o anche in assoluto, vivendo la sua vita da comune borghese. Queste
cose a Brod probabilmente non saranno sfuggite, e non gli sarà stato facile
elaborare una giustificazione della sua condotta in contrasto con la
disposizione autodistruttiva dell’amico: a Kafka non interessava una sua gloria
letteraria nel futuro.
NOTE
Questo
scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”