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È giusto, conforme a un principio di diritto razionale (naturale), consentire alle coppie gay la facoltà di ottenere “maternità surrogate” o semplici adozioni di “figli”? Dal mio canto etero ritengo che l’orientamento sessuale non debba mai comportare motivo di discriminazione, e che a persone ritenute dalla Legge maggiorenni sia lecito accoppiarsi in maniera libera nel rispetto della sanità del partner. Non giudico l’omosessualità né un reato (giurisprudenza laica) né un peccato (morale religiosa), però reputo che “matrimonio (stricto sensu semantico-concettuale)” sia quello alla base della “famiglia biologica”. Una “unione omosessuale” non ha la potenza (possibilità) procreativa naturale, e pur parificando questo legame nei diritti/doveri dei “congiunti” a quello (cosa che non respingo, ma auspico), ritengo che nel seno di una ufficiale unione omosex non possa entrare in forma organica un minore (da qualsiasi provenienza) in quanto il modello biologico non lo indica ammissibile. Una coppia omosessuale rispetta un “modello spirituale” (lecito) e non quello biologico ricordato, perciò i due non si possono sovrapporre riguardo al dettaglio dell’inserimento di figli: tale facoltà è “naturalmente” prerogativa di una coppia uomo/donna. Tutti gli artifici medici (e non) che coinvolgono terzi in maternità surrogate mi appaiono non rispettosi di un chiaro meccanismo “naturale”. Nel mio pensiero vincolo anche l’adozione di minori abbandonati alla famiglia biologica, non escludendo tuttavia l’ipotesi di affidamenti di minorenni a coppie di gay congiunti, nel tentativo di togliere quelli dalla precarietà in cui possano persistere, ma a condizione che la crescita ne sia monitorata sino all’eventuale maggiore età. Parlo di matrimonio nella sua veste di istituto soprattutto pedagogico in relazione alle figure genitoriali, le quali si presentano in Natura nelle forme fisiche del vir e della femina. Ciò che può sembrare discriminazione non rappresenta altro che una semplice constatazione della realtà: i figli nascono solo dal concorso (diretto o mediato) di tali suddetti poli. La coppia biologica è il modello progettuale naturale, ideale: con ciò senza sminuire le coppie omosessuali. Esiste una differenza ontologica fra i due schemi: dall’eterosessualità possono nascere i figli (physei), dall’omosessualità invece no (me physei). L’omosessualità è parà physin. Se l’ordine di Natura impedisce ai gay di procreare, credo che si debba prendere atto in modo semplice che tutto quanto sia ingresso di minori, in termini di maternità, in una coppia omosex non trovi un appoggio concettuale. Ho distinto un generico affidamento a carico di chiunque (il quale non equiparo a maternità). È vero che ci possono essere casi di coppie etero che non possono o non vogliono avere figli, tuttavia il modello genitoriale vir/femina permane nella sua costante validità. Nel matrimonio i coniugi sono liberi di tenere congressi carnali per puro piacere senza scopo procreativo, ma hanno normalmente pro tempore la potenza procreativa e sempre la validità di modello pedagogico naturale. In parole povere, non negando che una coppia omosessuale sia benissimo in grado di crescere e educare un bambino nella sua evoluzione, reputo che costui si troverebbe meglio a vedere davanti a sé la forma genitoriale canonica. E discuto da un punto di vista psicologico, io sono di orientamento junghiano. Con termini filosofici sopra, presi da Platone1, ho chiarito la distinzione, che non è discriminazione, di piani differenti, i quali, scaturiti da una riflessione razionale, producono risvolti giurisprudenziali, che ritengo obiettivi. Non li ho pilotati io, li ho solo seguiti: per me ciò che opera su livelli ontologicamente diversi non potrebbe essere commisto. La domanda non è: che cosa impedisce ai gay di tenere dei figli (in qualsiasi modo)? Ma: quale ragionamento universalmente valido dà la facoltà, da riconoscere sul versante giuridico, agli omosessuali di avere con sé dei bambini nella veste di figli? Distinguo la circostanza dell’affidamento, come detto, e prescindo da presunte buonissime intenzioni. Sottolineo soltanto che la Natura concede i figli allo schema femina/vir, al di fuori di esso mi è concettualmente, razionalmente, impossibile avvalorare come lecito un parallelismo in un altro campo. Ai miei occhi la questione è ontologica, con i relativi effetti in ambito pedagogico e giurisprudenziale. Ci sono due piani, uno spirituale e uno biologico. Eros e amicizia fanno parte del primo: dunque nessuna preclusione al costituirsi di unioni gay, parificate anche al matrimonio. Ma procreare è un fenomeno biologico: se non c’è un’accoppiata di fattori maschile e femminile non nasce nessuno. A mio avviso la dimensione spirituale gay, la quale nel campo delle sue proprietà non possiede una possibilità procreativa, non può invadere il piano biologico (per il semplice fatto che la Natura non l’ha previsto). Sottolineo questa dicotomia spirituale/biologico del mio ragionare, e mi fermo davanti ai meccanismi naturali. Può avere figli, adottati o surrogati, solo quello schema legittimato dalla Natura. La parità fra etero e omosessuali in ambito di unioni riguarda solo il piano affettivo, spirituale: per il resto la differenza biologica costituisce un elemento di forte dissonanza. Pretendere di avere dei figli da parte dei gay mi pare ragionamento in sé contraddittorio, equivalente al chiedere qualcosa senza possederne requisiti. Non sempre è lecito tutto ciò che piace, si potrebbe dire. Quanto dico scaturisce dall’osservazione dell’ordine fisiologico di Natura. Non ho per niente simpatia per le posizioni omofobiche, che ho sempre criticato, però non seguire una coerenza di analisi razionale non mi pare opportuno.
Valentina Nappi è una
pornostar, la quale coltiva interessi intellettuali, come ricordato da Paolo
Dai Prà, youtuber filosofico, nel video riportato. Il tema affrontato riguarda
il rapporto tra l’Io e il corpo nella società capitalistica odierna mediante la
sessualità. Dai Prà rileva come la Nappi intraveda uno strato ideologico
sovrastrutturale nell’agire umano a tal punto, nella di esso sostanza
moralistica e politica, di configurarsi “naturale”. Sorge a proposito una serie
di spunti che ho voluto portare un po’ più in là rispetto a quanto viene detto.
Ho trovato interessante l’accostamento della Nappi al monachesimo orientale per
quanto concerne il rifiuto della sovrastruttura sociale nel tentativo di
raggiungere qualcosa in seno alla Natura di autentico e puro. Nel mio fare un
passo aggiuntivo a simile riflessione, mi è venuto in mente un aspetto che ho
evidenziato nel mio saggio su “Brave New World” di Aldous Huxley1,
dove ho parlato dell’esercizio della sessualità in quella distopica società, la
quale rappresenta le estreme conseguenze del capitalismo (visto alla maniera di
Weber). Ho spiegato il fatto che venga là apprezzata la varietà di partner
sessuali come una forma agapica portata al limite massimo: il dono gratuito di
sé a tutti, di cui d’altro canto la Nappi (in particolare evocata in
conclusione del video) dice della prostituta (porne); una donna la quale dovrebbe
concedersi gratuitamente. Vale a dire come le donne osservanti della “nuova
morale” dello huxleyano Mondo Nuovo: nella visione della Nappi l’etichetta di
“distopico” al discorso penso possa apparire un dettaglio irrilevante in una
teorica (futura) fase emancipatrice non ancora totale, ma anzi ancora legata a
vincoli di controllo e manipolazione sociali. Dai Prà e la Nappi presentano
l’argomento in termini di una libido freudiana, con l’ES che svolge il ruolo
non tanto di forza coercitiva nell’ambito sessuale quanto invece di strumento
volto a scardinare un “naturale sovrastrutturale”. Io sono junghiano e riguardo
a ciò cerco di vedere le cose in un modo che non abbia uno sbocco ideale
anarchico. Ritengo, pur condividendo le critiche all’ipocrisia dell’apparato
sociale imperniato sui consumi segnalati dall’ES, che la meta sia elevarsi a
un’idea di libido junghiana. Jung nella sua psicologia analitica auspica,
attraverso la dinamica formativa degli archetipi, l’adozione di comportamenti
non dettati da anarchia. A differenza di Valentina Nappi, di cui apprezzo nella
lettura di Dai Prà il pensiero, io inserirei (ma è ovviamente il mio personale
punto di vista) il tema del legame intercorrente fra corpo e mondo sotto il
profilo della sessualità in un contesto non freudiano, bensì junghiano. Sono
consapevole che quanto suggerisco apra una prospettiva alquanto differente.
Comunque, a sostegno della Nappi, debbo ricordare come la sessualità sia in
effetti inquadrata in cornici ideologiche (la consumistica, la religiosa) le
quali riducono il congresso carnale al solo fine procreativo, e come il
femminile fenomeno fisiologico dello squirting, per niente legato a una
meccanica riproduttiva della specie (infatti non è necessario), sia la
dimostrazione dell’insussistenza di una veduta circoscritta. Secondo la
dottrina della Chiesa cattolica il congresso carnale ha il principale obiettivo
di contribuire alla nascita di nuovi esseri umani, così imitando il potere
creativo di Dio stesso. Nelle dinamiche fisiologiche connesse, tuttavia, sotto
il profilo teologico esiste qualcosa che non viene preso in considerazione:
l’orgasmo femminile. Mentre l’eiaculazione maschile procede sempre mantenendo
quella possibilità procreativa, a prescindere da come e con chi avvenga, lo
squirting (il quale è parimenti una possibilità naturale), è del tutto
sconnesso dalla funzione riproduttiva: giacché opera in maniera non inerente
alla fecondazione di uno o più ovuli (provenienti dalle ovaie). L’orgasmo
femminile, dunque, non è necessario alla riproduzione umana, ma d’altro canto
rimane fisiologico e possibile. Se Dio ha inserito lo squirting, allora,
significa che un amoroso convegno non abbia l’esclusivo fine procreativo, ma
anche uno parallelo, e non secondario, di natura edonistica per tutti i
partecipanti. Ad esempio, in un congresso omoerotico femminile la facoltà
procreativa rimane del tutto tra parentesi, l’orgasmo no: il fatto che questo
possa accadere o meno (in qualsiasi tipo di rapporto) contraddice
l’insegnamento della Chiesa. Se lo scopo procreativo non si mette in atto,
neanche dovrebbe sorgere il problema: tra le cose previste dalla dottrina
cattolica c’è la castità. Cioè non celebrare convegni amorosi, e quindi non
avere figli. Però nella fisiologia umana è possibile non concepire (in vari
modi), pur attuando un congresso carnale. Se Dio ha previsto lo squirting in
una dimensione edonistica indipendente e accidentale, vuol dire che l’esercizio
della sessualità in generale non è legato in maniera totalitaria alla
riproduzione: a quasi tutti i religiosi cattolici è vietato avere figli, però
imporgli un innaturale divieto antiedonistico non è coerente. Dovrebbero
proibire, per coerenza, di avere polluzioni e mestruazioni; tuttavia la natura
fa il suo corso. Perché l’orgasmo femminile dovrebbe essere ritenuto in ambito
teologico così preoccupante da non essere tematizzato e contestualizzato, se
non per ragioni tradizionalmente sessuofobiche e antifemministe? L’antica idea
della “porta del diavolo” si rivela una nevrosi maschilista e misogina. Che la
repressione sessuale presso i religiosi poi si converta in patologia pare
allora non sia un fenomeno molto legato ai singoli, bensì dipenda da simile
sistema di ingabbiare la libido. Alla fine, sembra di poter raggiungere in
maniera ragionata (filosofica) la naturale (fisiologica) smentita di un
nevrotico castello teologico: lo squirting è, e non può essere che non sia (al
pari di mestruazioni, e polluzioni). Naturalmente, come in qualsiasi cosa, la
ricerca dell’eccesso e dell’uso di forme violente non è pertinente al
benessere, così come d’altro canto la proposta di restrizione della libertà
personale sulla base di motivazioni religiose che non rispettano la liceità di
normali possibilità naturali compiute nel rispetto della sanità psichica e corporale
dei soggetti convenuti.
Simone
Weil (1909-1943) è la dimostrazione del fatto che il Cristianesimo sia una
costruzione pseudosincretistica neopagana. Nel suo pensiero ella manifesta in
modo molto chiaro questo dettaglio della “nuova religione”, la quale non fa
altro che recuperare categorie concettuali e filosofiche greche mediate
attraverso l’Ebraismo alessandrino alla volta dell’edificazione di un credo che
però in termini sociologici e psicologici fa un passo indietro rispetto al
cosiddetto Paganesimo ufficiale. In questo non sono esistiti i problemi di
deviazione nevrotica vissuti dal Cristianesimo nei suoi quindici secoli di
auge: intolleranza religiosa e pretesa di esclusività (con la materiale e
ideale distruzione degli avversari); misoginia cronica (sino al punto di
inventare la categoria radicale della “strega”); violenza esercitata su coloro
che sono stati intravisti quali nemici (barbare torture e cruente esecuzioni
sono state attuate a scapito di streghe, eretici, non cristiani, omosessuali).
Se si confrontano Paganesimo e Cristianesimo seriamente emerge che il primo era
espressione di una società più liberale: la Grecia antica ha creato il modello
democratico (non ha patrocinato qualcosa di paragonabile allo schema teocratico
cristiano); la misoginia greca al confronto di quella giudeocristiana sembra
qualcosa di più lieve nella sua incidenza comportamentale (c’erano sacerdotesse
pagane: un’istituzione aberrante per i cristiani); il mondo culturale antico
grecoromano pagano non creò mai dal suo interno l’equivalenza
femminile=demoniaco. Nel pensiero teologico weiliano possiamo notare un
tentativo di riedizione ideale del Cristianesimo, rivissuto da una donna nei
termini più autentici mancati alla storia di esso. L’universalismo religioso
della Weil rappresenta quell’ambizione fallita alla fine dell’Impero romano di
dare un collante sociale rigenerativo: la decadenza della più grande
costruzione politica dell’antichità europea necessitò di un rimedio il quale
purtroppo nella sua concretizzazione ne accelerò il crollo. Il Medioevo inizia
con l’Editto di Costantino, e dall’Editto di Teodosio in poi l’Europa piombò in
una società orwelliana in stile “1984”. L’avere eretto un castello teologico,
peraltro saccheggiando la filosofia greca, non è bastato ai cristiani per dare
una facciata accettabile a quello che de facto è stato un “totalitarismo
cristiano” ovunque questa religione abbia messo e consolidato radici. La Weil
non ha mancato di sottolineare simile aspetto nell’esperienza storica della
Chiesa. L’antisemitismo, così come lo conosciamo oggi, ha avuto una genesi
religiosa cristiana, ed è finito per generalizzarsi in forma, per così dire,
laica pseudorazionalizzata. Ai cristiani sono addebitabili crimini contro l’umanità:
l’insieme degli punti negativi sopra delineati nelle loro attuazioni pratiche.
La distruzione di tutte le civiltà precolombiane, la cristianizzazione forzata
e violenta del Nuovo Mondo costituiscono temi di riflessione. Se Simone Weil
non ebbe un rapporto idilliaco con la Chiesa c’è un motivo evidente: che
proprio una donna “incarnasse” la nemesi di secoli poco evangelici nei fatti
era una situazione inaccettabile. La pensatrice francese ha vissuto sopra la
sua persona il travaglio di tutte quelle contraddizioni nell’auspicio di
portarle a soluzione positiva. È morta, di tubercolosi aggravata da anoressia,
vivendo una “passione” come le sante anoressiche di moda in un periodo del
passato. Viene bandita dai manuali di storia della filosofia quasi fosse una
pietra di scandalo, quando invece dal suo pensiero scaturisce un giudizio
storiografico inappellabile e severo a carico del Cristianesimo nella più ampia
parte di questo. Simone Weil è stata, forse, l’unica che possa definirsi “cristiana”,
una donna che ha compiuto una scelta di fede profonda, ma portandola alle
estreme conseguenze. Sino al punto di smascherare la radice di provenienza di
tutto l’apparato ideologico cristiano: nient’altro che neopaganesimo. E ciò non
è motivo di stupore all’occhio dello storico privo di una distorcente lente di
fede. Nel Cristianesimo parlano, con voce manipolata, schemi concettuali presi
dalla Grecità, a cui si è dato un abito stretto e fastidioso. La filosofa
francese nella sua sincera visione ha preteso di vedere in tale fenomeno la
preesistenza di elementi cristiani, però la verità storica è il contrario,
corrispondente alla dinamica su evocata. Il Cristianesimo ideale weiliano, un
po’ cupo, pessimistico, porta dentro di sé un rifiuto del mondo. Reca quella
percezione di decadenza mondana dell’Impero romano nei suoi ultimi tempi. Come
allora, nell’animo della Weil rivive la crisi dello spirito che attraversa
alcune epoche storiche. Il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali,
capitalistiche manifestazioni di una intestina e unica lotta (paragonabile alla
Guerra del Peloponneso nella forma). Simone Weil ha colto il disagio di un
animo genuino di fronte all’affermarsi del dominio del capitalismo su scala
pressoché globale: non è stata comunque l’unica ad avvertire il problema, il
tema del predominio della tecnica sull’autenticità umana è un esempio connesso
dibattuto da varia filosofia. Ella prima rispose alla chiamata spirituale
libertaria con un’adesione all’anarchismo, cioè proprio
liberazione-da-un-dominio. Poi si volse in direzione più mistica, alla volta di
un Cristianesimo rigenerato dai suoi deficit ideologici e storici. E nel far
questo ella attuò una versione ideale della “nuova fede” di antica memoria. Lei
riprende mattoni greci idealizzandoli in forma cristiana: è una grande madre
del Cristianesimo. Si può dire che faccia una rifondazione teologica, e ciò è
lampante segnale non solo della crisi a lei contemporanea nel mondo, ma anche
del fallimento storico-ideologico del Cristianesimo ufficiale nella sua
plurisecolare vita. Non si può di certo additare lo Stato pontificio quale
modello evangelico o di Regno di Dio in terra. E se non persiste qualcosa di
positivo proprio là, non si può addurre la scusante degli errori umani. Tutti
sbagliano: non è accettabile sostenere che alcuni lo facciano in buona fede e
altri in mala fede, soprattutto nel momento in cui questi ultimi non godono
dell’assistenza divina. Allora i crimini contro l’umanità del Cristianesimo
sarebbero peggiori se compiuti contro la volontà di Dio; e se alcuni reclamano
misericordia si nota poi d’altro canto la difficoltà a essere comprensivi
altresì con i secondi (meritevoli di analogo riguardo). Perché l’antisemitismo
cristiano che ha provocato persecuzioni e vittime dovrebbe essere ascritto a
“errore umano”, e l’antisemitismo nazista (di irrazionalistica matrice
sociopolitica luterana) dovrebbe invece essere un crimine contro l’umanità?
Simone Weil è scomparsa nel 1943, prima che la barbarie dell’Olocausto venisse
alla luce, ma lei non si sarebbe arroccata dietro giustificazioni scusanti nel
fare paragoni: avrebbe intravisto nei fatti storici di ogni tempo l’obiettività
di fondo. Sino all’ultimo Concilio ecumenico cattolico, chiusosi nel 1965, la
liturgia del venerdì santo proclamava: Oremus pro perfidis Iudaeis. Vale a dire
una manifestazione, se non vogliamo definirla apologia, di antisemitismo a
quasi trent’anni dalle Leggi razziali di epoca fascista, che a paragone delle
direttive della Chiesa contro gli Ebrei nel corso dei secoli hanno avuto
un’applicazione circoscritta nello spazio e nel tempo, e prima della caduta del
fascismo non hanno causato vittime (contrariamente alle persecuzioni dei
cristiani nei secoli precedenti). In materia di antisemitismo Chiesa e nazismo
raramente vengono accostati. La Weil nel dopoguerra, probabilmente, avrebbe
affrontato questo problema non soltanto storiografico. Ella fu persona di
estremo rigore nella sua indole personale, molto sensibile in generale e nei
confronti di quanto accadeva e accadde nel mondo prima di lei. Il peso delle
contraddizioni attorno a lei finì per schiacciarla, però ella visse sempre in
maniera coerente, senza rifugiarsi in zone di sicurezza create ad hoc
dall’umana ipocrisia. Amò gli ideali di solidarietà e fratellanza maturati nell’umanesimo
greco antico. Tanto idealistica fu la sua filosofia di vita religiosa che perse
il contatto col verso realistico degli eventi. Lei infatti invertì l’ordine
storico causa-effetto in qualcos’altro di ideale: le prefigurazioni pagane del
Cristianesimo. Indubbiamente una bella operazione concettuale, prova di una
mente raffinata nel produrre filosofia. Tuttavia in questa weiliana dicotomia
storia/religione risulta non facile stare con obiettività logica (e ciò lascia
spazio là alla fede) nel secondo polo. Con metro scientifico, lontano da
condizionamenti fideistici, non possiamo fare a meno di notare come nei Vangeli
ci sia un recupero, e non l’attuazione ideale di una potenza passata, di
immagini e contenuti teologici pregressi. Gesù Cristo è una riproposizione di
Osiride. La Maddalena lo vede per prima risorto perché è Iside a ritrovare il
marito. La croce cristiana deriva da quella egizia. Il Cristo vi è crocifisso
in perizoma giacché di Osiride, ucciso e fatto a pezzi, non si trovò il membrum
virile: il perizoma è allusivo. Questo membrum nella mitologia pagana finì in
cielo a fare la cometa, quella dei re magi (ma sarebbe meglio dire maghi con
chiarezza, senza acrobazie retoriche, poiché erano astrologi). Simone Weil non
ha torto sostanziale nei suoi collegamenti teologici diacronici: è stata
filosofa, non storica, costruttrice dunque di una prospettiva metafisica che ha
contemplato l’inversione logico-storica di causa-effetto. Nessuno può
biasimarla per ciò: la strada è quella giusta, lei ha voluto percorrerla in
direzione opposta. Qui sta la grandezza di lei: trovare la forza di compiere
quel cammino, vedere quella luce che gli altri non vedevano. E dunque grazie a
lei riscoprire tutto un mondo antico, occidentale e orientale, che il
Cristianesimo totalitario e ufficiale, al contrario del Paganesimo, volle
confinare nell’angolo della falsità e della bugiarderia. Riscoprire le radici,
soffocate, della civiltà occidentale. Sembra paradossale dirlo, ma a livello di
idee, la pensatrice francese pare aver fatto un’azione di proiezione del
presente sul passato nello stile di “1984”, derivando la sua escatologia di
conseguenza. Storicamente la Chiesa ha preteso proiettarsi in tal guisa sul
mondo antico. La Weil è stata soltanto formalmente analoga, in lei albergava
una tensione mistica: lei cercava, non imponeva una Verità a ritroso. La Verità
di Simone Weil è metafisica, non sociopolitica.