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mercoledì 23 dicembre 2020

L’IRRAZIONALISMO NEVROTICO DI KIERKEGAARD

di DANILO CARUSO

Sören Kierkegaard viene di solito indicato quale il padre della corrente filosofica esistenzialistica. Tuttavia a mio avviso non compare tutta questa grandezza speculativa in questo intellettuale danese della prima metà dell’Ottocento. Se si guardano la sua personalità e i suoi elaborati con un metro psicanalitico emerge il profilo di un soggetto affetto in modo pesante da nevrosi (ossessiva e compulsiva). Le cause si rintracciano nella sua formazione e nel suo ambiente di crescita. All’interno di una benestante famiglia, egli ebbe genitori parecchio in là negli anni; e di sette figli che nacquero – Sören (1813-1855) l’ultimo – costui ne vide morire entro i suoi vent’anni cinque. L’idea di una maledizione divina familiare provenutagli dal padre, un pietista osservante (vale a dire un integralista religioso), lo segnò in maniera indelebile. Kierkegaard, affetto da evidente depressione sin dalla prima gioventù, finì col porsi nella sua vita in disaccordo col credo protestante istituzionale della propria società a causa della personale rigoristica forma mentis, la quale lo spinse alla volta di un atteggiamento nevrotico di sostanza religiosa. Questo scrittore danese fu poco aperto a relazioni e dialoghi sereni, e visse la sua dimensione di fede secondo uno spirito negativo e autolesionistico. Il Cristianesimo pensato da Kierkegaard costituisce infatti qualcosa di patologico, come spiegherò nella mia analisi. E in tale prospettiva si può scoprire qualcosa di rilevante nell’opera di lui. A tal proposito debbo introdurre qui chiarimenti concettuali nel mio esame. In relazione al grado di maturità mentale di un individuo, io distinguo fra: tipi freudiani e tipi junghiani. La mia distinzione deriva dalla rilevazione della qualità libidica operante nel singolo. Puntualizzo dunque che non vedo un’inconciliabilità tra libido freudiana e libido junghiana. Freud ha spiegato modalità di una categoria di gente la quale non si eleva a un grado superiore di libido junghiana. Per “libido junghiana”, che sussume quella freudiana, intendo quella di un soggetto operante in quella che il fondatore della psicologia analitica ha definito “fase culturale”. Vale a dire la possibile fase seguente quella “naturale”. La fase naturale di cui tratta Jung rappresenta per me una modalità esistenziale improntata a topoi libidici freudiani nel suo esplicitarsi: primeggiano comportamenti di stampo animale dove cibo e sesso sono gli ideali anche in soggetti connotati da interessi intellettuali, interessi i quali però si strutturano verosimilmente sulla base di una libido deviata (sublimazione). Detto ciò, da junghiano posso dunque sostenere che Kierkegaard fu una persona immatura, perché non seppe liberarsi delle “catene freudiane” allo scopo di entrare nella “fase culturale” dentro la quale poter rivedere la sua vita pregressa in funzione catartica e correttiva: non seppe rovesciare il suo carattere introverso con inclinazione pessimistica. I tipi “freudiani”, la stragrande maggioranza, non sono “culturali” (e molto spesso nemmeno intellettuali) e si mimetizzano grazie alla loro mediocrità nella ritenuta comune sanità. In tutta questa faccenda, in generale, molto dipende dall’educazione (famiglia e scuola). Ritornando alla nostra personalità danese in esame, ho notato che egli ha precorso la dicotomia “Es / Super Ego”, vale a dire quel meccanismo che ad avviso di Freud imbriglia la libido nelle regole sociali. Quando Kierkegaard parla di uno “stadio estetico” dell’esistenza contrapposto a uno “etico”, non fa altro che anticipare Freud. Il piacere viene inquadrato in norme etiche: questo è il succo della riflessione kierkegaardiana intitolata “Aut-aut”. Da simile contrasto freudiano si origina e si rileva la patologia psichica del giovane Sören. Fu fidanzato per un periodo con una ragazza da cui si separò di sua iniziativa giacché  la propensione nevrotica lo aveva votato all’autodistruzione. Egli risolse il conflitto “Es / Super Ego” sprofondando in una sindrome mentale più grave (la quale trasparisce dai suoi scritti). Rifiutò in partenza di vivere un’esistenza normale e si imprigionò in un kafkiano edificio mentale di evidente materia nevrotica. A Kierkegaard apparve importante vivere soltanto il proprio Cristianesimo. Il quale alla fine non era ormai la teologia protestante dai possibili risvolti edonistici. Il Cristianesimo kierkegaardiano, come ha ben rilevato Cornelio Fabro, è “cattolicizzante”. Riguardo a tale dettaglio sono formalmente d’accordo, rimango in disaccordo sul fatto di giudicare Kierkegaard un filosofo, e per giunta pieno di contenuti apprezzabili. In questo Danese, prematuramente scomparso, intravedo soprattutto aspetti psicopatologici. Kierkegaard non compie un salto di qualità esistenziale “junghiano”, non riesce a comprendere i personali letali limiti, muore nel carcere che lui stesso ha edificato (uno psicoterapeuta moderno probabilmente gli sarebbe stato d’aiuto). Allorché lui nota di essere sotto scacco a causa dell’opposizione fra “estetico” ed “etico” non inizia una nuova partita, ma rinunzia del tutto a giocare a vantaggio del cantare le sue lamentazioni. Uscire dallo scacco significava finire tra le braccia di Regine Olsen, però la nevrosi gli indicò una strada malata.
Non appaia esagerato detto termine perché le cose che ha teorizzato Kierkegaard non mi pare possano sembrare patologiche solo a me. L’intellettuale danese si riaggancia a un Cristianesimo cupo. Il “singolo” di cui lui tratta non è il soggetto caricato dell’esistenza umana, bensì la descrizione di un nevrotico (complemento di specificazione oggettiva). E in ciò io non scorgo la fondazione dell’esistenzialismo, semmai precursioni di elementi poi specifici della psicanalisi di Freud. Posto tra l’incudine dell’“etico” e il martello dell’“estetico” il Danese ritaglia una zona di pseudosicurezza kafkiana: lo “stadio religioso”. Ma là si celebra il gran ballo della nevrosi. Il Dio kierkegaardiano annichilisce e mortifica tutto e tutti: il progresso scientifico e gli esseri umani. Lui li affronta a uno a uno e ne rende la vita qualcosa di distopico. Agli occhi di Kierkegaard l’ansia (angoscia) rappresenta la chiave che aprirebbe la porta in direzione di un Dio a cui mai dire di no a guisa di Abramo. In parole povere l’intellettuale danese ci spiega che l’esistenza umana è aperta a tutte le possibilità e che noi dovremmo scegliere di stare volentieri male sennò non vivremmo in modo autentico la fede. In tutta sincerità questo mi sembra più patologia che esistenzialismo. Kierkegaard è un pensatore religioso (come da lui stesso puntualizzato), un teologo, però non un filosofo. Di filosofico – se così si può dire – possiede unicamente il prendere di mira il razionalismo e il progresso scientifico quali elementi di diminutio capitis del credo cristiano. In tale atteggiarsi ha parecchio in comune con gli aspetti peggiori della Chiesa cattolica medievale e rinascimentale. Lo a tu per tu kierkegaardiano dell’individuo con Dio costituisce un a tu per tu con una nevrosi, secondo me. E di proposito da essa, nella prospettiva auspicataci, dovrebbe scaturire malessere. È orwelliano sostenere che se vogliamo star bene dobbiamo star male. Il Dio cristiano, così concepito anche da personalità della Chiesa cattolica, rappresenta un motivo masochistico. È da sottolineare il modo in cui Kierkegaard è stato veterocattolicizzante e che la sua situazione clinica mentale non ha coinvolto molte persone prima della sua morte. Dopo è stato considerato un grande filosofo, nonostante ciò mi sia lecito dissentire: Kierkegaard si comprende molto meglio nelle vesti di paziente che come pensatore razionale (?). E forse sarebbe ancora una volta lui il primo a chiedere oggigiorno di nuovo di non essere ritenuto un filosofo, ma uno scrittore di altra natura (prettamente religiosa e non filorazionalistica). Egli dichiarò ciò, di non volere discepoli e di sostenere un pensiero a favore di un Dio portato fuori della speculazione filosofica. Il teologo danese nella sua giovinezza si trovò di fronte a un bivio: Regine Olsen / Dio. Egli scelse quest’ultimo, che nella sua testa rappresentava un complesso nevrotico, qualcosa che rafforzava la pressione del Super Ego. Lo “stadio religioso” teorizzato da Kierkegaard recupera le istanze pulsionali del grado “estetico” in funzione di motore di malessere. L’inquietudine e il disagio dove dovrebbe vivere un autentico cristiano sono gli stessi di sempre di determinato Cristianesimo il quale ha prediletto masochistico e patologico comportamento. Privazioni, autopunizioni, autodegradazione non alimentano condotte sane, in modo particolare se all’ultimo si trova una precoce morte in seguito a tutto questo: ciò non va a beneficio di una definizione di santità accettabile, né ha senso lecito parlare di imitazione o partecipazione nei confronti della passione di Cristo. Comportamenti insani rappresentano deviazioni dall’equilibrio mentale. Kierkegaard scomparve senza nuocere a nessuno fuorché a se stesso. Tuttavia c’è da ipotizzare che la sua vis rigoristica, se avesse potuto, avrebbe riportato il Cristianesimo moderno meno integralista a livello di violenta e sanguinosa contesa teologica. Il Danese viene mediante nevrosi forzato da Dio a rinunziare a Regine Olsen. Kierkegaard non potendo ridimensionare a proprio gusto lei nella realtà finisce col distruggersi de facto da sé. Dal suo diario personale si evince che Regine le era rimasta fissata in testa. La società ottocentesca cristiana, cattolica e protestante, non avrebbe più ammesso la misogina caccia alle streghe (svoltasi in precedenza con torture ed esecuzioni capitali). Kierkegaard è il primo, grazie ai suoi spunti freudiani, a elaborare una velata (e parziale, in quanto freudiana) spiegazione scientifica della misoginia cristiana. All’interno di un contesto teorico laico più o meno gestibile il Super Ego ha imposto un freno alla libido, ma una dinamica nevrotica religiosa emerge a creare uno scompiglio irrazionalistico. Le pulsioni verso cibo e sesso in questa ulteriore circostanza nei soggetti molto deviati non vengono né contenute né cancellate. Un nuovo gradino psicologico, il quale sta sul medesimo piano di quello kierkegaardiano “religioso”, le mantiene vive, compresse e represse, cambiandogli polarità: da sorgente di positivo piacere ne fa “peccati”. Non appare casuale che il pensatore danese insista su un concetto radicale di “peccato originale” (provenutogli dal pietismo). Egli ha imparato a vedere tutto marcio, e quel marciume deve avere una causa. Kierkegaard non ha perseguitato (per fortuna non ha avuto la possibilità, se anche avesse voluto) nessuno al di là di sé, però la Chiesa del passato sì. I cristiani, cattolici e protestanti, si sono accaniti sulle donne per vari motivi. Uno di questi inerisce a una spiegazione freudiana. Torturare con apposite tecniche e bruciare le streghe ha rappresentato un surrogato erotico. Le donne erano porte del Demonio, tuttavia la pulsione libidica dell’Es (la libido di un livello animale) era così forte che si doveva mettere mano sul corpo femminile: da qui la patologica prassi della tortura, una chiara forma di sadismo sessuale, culminante col rogo, l’apice di un patologico piacere erotico (un iter orgasmico surrogato). Kierkegaard si è dal canto suo trovato in difficoltà su di sé: ha parlato di un proprio interiore contrasto. Nel momento in cui la nevrosi lo ha spinto a separarsi dalla fidanzata non aveva gli strumenti inquisitoriali, gli rimaneva soltanto scrivere, poiché viveva ormai in un mondo abbastanza moderno. Lui, perseguitato dallo spettro mentale di Regine Olsen, fece di tutto al fine di isolarsi e distruggersi mirando ad attuare una fuga dal mondo, il quale costui non riuscì a modificare in base alla sua prospettiva. La scrittura compulsiva kierkegaardiana mostra un sintomo nevrotico, non esiste una junghiana “funzione trascendente” a suo beneficio. Il Danese teorizza attraverso un patologico scrivere il proprio distopico universo. In “Timore e tremore” propone la sospensione del buonsenso e dell’ordine costituito (sfera dell’eticità razionale) a vantaggio di un pensare religiosamente dove l’adeguamento alla volontà divina dev’essere incondizionato. Fonda tutto sull’esempio di Abramo e sull’episodio del sacrificio di Isacco: quando Dio chiede l’uomo non deve guardare niente, ma solo obbedire secondo lo spirito di un’etica del dovere (la quale rivela orwelliani toni irrazionalistici e dimostra l’assenza di una dimensione caritatevole). Regine Olsen costituiva il sacrificio chiesto da Dio a Kierkegaard, il quale sospetto che se avesse avuto campo libero avrebbe potuto trattarla al pari della figlia di Iefte, se la fede di lui avesse avuto opportunità di agire con eccezione autorizzata nel modo in cui lui ha auspicato. Non è fuori luogo rammentare che simili nevrotici e irrazionali spunti stiano alla base del terrorismo religioso di cui il kamikaze Sansone rappresenta il campione veterotestamentario. L’ideale di fede costruito dal teologo danese è patologico, costituisce nevrosi: se davanti a lui fede è uscire fuori della razionalità e agire al pari di Abramo, reputo sia meglio restare senza fede e alterum non laedere. Ammazzare qualcuno in nome di un credo religioso è una cosa assurda, altrettanto il prenderne in considerazione positiva l’idea. La storia del Cristianesimo registra vittime a causa dell’emarginazione della Ragione. Non si può edificare niente di buono sopra un imprevedibile magma irrazionale. A dimostrazione dello squilibrio mentale di Kierkegaard è il caso di ricordare che egli fece di tutto allo scopo di ottenere la rottura del fidanzamento, che non gradiva il fatto che Regine Olsen (nel frattempo felicemente sposatasi con un altro) leggesse le sue pubblicazioni edite, e che tuttavia una volta cercò infruttuosamente presso il marito di lei di contattarla, e che alla morte del teologo i suoi beni furono lasciati in eredità all’ex fidanzata (Regine e il consorte si allontanarono alla vigilia della scomparsa di lui per qualche anno da Copenaghen). Cornelio Fabro ha capito benissimo che la cifra della personalità kierkegaardiana stia in una interna dialettica psichica dove si scontrano e si confrontano tensioni opposte: lo studioso italiano ha infatti definito il Danese un “Giano bifronte”. “Aut-aut”, “Timore e tremore”, le opere di Kierkegaard che ho citato sinora, risalgono al periodo immediatamente seguente la separazione da Regine; sono opere, assieme ad altre di quella prima metà degli anni ’40 dell’Ottocento, elaborate con il fantasma dell’ex fidanzata molto attivo nella mente di lui (le testimonianze del diario risultano significative). Sotto il profilo dell’esposizione argomentativa la tecnica kierkegaardiana generale rievoca il nichilismo gorgiano e la teoria retorica dell’esclusione di entrambe le alternative. Né l’una né l’altra delle cose ipotizzate sono valide e buone (stadio estetico, stadio etico). Egli cade in una forma misticheggiante dove l’io nega la propria razionalità di fronte alla dimensione divina, trovando fuga dalla contraddizione dell’agire empirico (in relazione a cui il fare e il non fare sarebbero comunque e sempre sbagliati). In una forma di eternità (proveniente dallo “stadio religioso”), nello scappare dal concreto decidere, il pensatore danese indica la via di sicurezza: da aut aut a supra. Però in questo salvifico, in apparenza, “supra” germogliano le anomalie sulla base di sottostanti conflittuali radici mai rimosse. La nevrosi kierkegaardiana risiede in tale circuito irrisolto dove Es e Super Ego si urtano dando origine a una sindrome psichica che conduce Kierkegaard dallo scacco all’abbandono della partita. Egli si è distaccato dalla realtà per giocare da solo: qui inizia il delirio scritturale iniziato a seguito di depressione e imperniatosi sul concetto di colpa. Dalla maledizione familiare il teologo danese passa e generalizza al peccato originale biblico. L’inderogabile rovina mondana non graverebbe soltanto su di lui ma sopra tutti i discendenti di Adamo ed Eva: non ci sarebbe scampo per nessuno se non si aderisse a un Cristianesimo radicale. Questo mi sembra delirio religioso, non filosofia. “Il concetto dell’angoscia” è altra opera kierkegaardiana iscritta nell’arco temporale più sopra richiamato. Essa prospetta una sorta di manifesto di malessere da nevrosi ossessiva. Kierkegaard, che è sessuofobico come i Padri della Chiesa, afferma che la pulsione sessuale deriva quale conseguenza del peccato originale (concupiscenza). Dal peccato originale l’umanità, a suo avviso, ha tratto la ragione della perdita dello stato di grazia. Privatasi di questo vive nell’ansia (angoscia) dovuta all’allontanamento da Dio. obiettivo dell’uomo sarebbe l’acquistare consapevolezza lucida del peccato originale, e stare ancora più in ansia a causa di simile tremenda scoperta. Un senso di colpa ontologica è la croce che ognuno dovrebbe portare nella propria esistenza. Il pensatore danese teme il pericolo dell’azione demoniaca sulla condotta umana e non biasima, ma anzi giustifica, le passate persecuzioni e uccisioni di eretici. Egli crede possibili soggetti umani demoniaci e disprezza la scienza medica. Il peccato rappresenta riduzione in schiavitù, la libertà starebbe nell’orientarsi verso il Dio cristiano con fede incondizionata: là l’unico spazio di ricovero efficace al malessere, in attesa di un premio ultraterreno. La mentalità kierkegaardiana abita completamente fuori della propria epoca, la quale è stata di emancipazione sociale e intellettuale. Il Danese sembra uscito dal Basso Medioevo agostiniano: Kierkegaard è reazionario, fa discriminazioni di genere pensando che le donne possano essere meno intelligenti e più crudeli rispetto agli uomini. Della fine di quegli anni ’40 è “La malattia mortale”. In tale testo l’intellettuale ci spiega che a ragione del peccato originale ciascun essere vivente dovrebbe sentirsi come il kafkiano protagonista de “Il processo”: un perseguitato da un’oscura colpa in preda alla disperazione. L’insano antiedonismo kierkegaardiano propone la disperazione quale chiave di apertura della porta di salvezza. Solo dopo aver compreso che il mondo costituisce un carcere e che la vita rappresenta individualmente un kafkiano processo, si può abbandonare il regno mondano del peccato. Il martirio psicologico di sé prelude alla catarsi dello “stadio religioso” mediante la fede cristiana. Ne “La malattia mortale” Kierkegaard spara alcune assurdità antifemministe. Sarebbe grazie alla mediazione dell’uomo che la donna potrebbe trovare il contatto col divino. Caratteristica femminile infatti sarebbe il donarsi, e in simile slancio d’abbandono le donne possono alienare il proprio io, il quale costituisce per il teologo danese il canale mediante cui l’individuo può collegarsi in quanto “singolo” con Dio. La singolarità femminile ha dunque bisogno della stampella maschile poiché è abituata a perdere la bussola: l’uomo sarebbe più legato al suo io e dotato di una capacità intellettiva superiore. Tali ragionamenti kierkegaardiani non rappresentano filosofia, bensì misoginia patristica. Chi vede nel maschilista pensatore danese il fondatore dell’esistenzialismo deve quantomeno concludere che questo sia un esistenzialismo perlopiù per soli uomini. Il Danese, a mio avviso, è un fanatico nevrotico. La disperazione rappresenta per lui il culmine del suo patologico manifesto religioso integralista e pessimista. In primis ci sarebbe un’assenza di speranza nel non cogliere la propria persona quale singolarità, cosa che precluderebbe l’ascesa verso Dio. Poi è possibile che si sia attaccati troppo al proprio io (uomini) o che lo si alieni (donne). La disperazione a questi livelli si mostra spiritualmente letale: Kierkegaard la chiama appunto malattia mortale. Essa colpisce tutti, in quanto ognuno ha motivo per stare male dato che il mondo è uno spazio perlopiù satanico. Angoscia e disperazione costituiscono la molla che potrebbe far scattare lo stadio religioso dove offrirsi a Dio senza condizioni. Al cospetto della divinità cristiana può insorgere una nuova mancanza di speranza: quella derivante dalla consapevolezza del peccato. Kierkegaard puntualizza che esiste un inferno con punizioni eterne per i peccatori. Disperati e angosciati gli uomini dovrebbero attendere il giudizio divino post mortem. Questo mondo rappresenta il regno dal peccato, e solo la fede potrebbe salvare facendo meritare un premio ultraterreno. Rimango molto perplesso sul modo in cui un esponente dell’antifilosofia, uno che separava nettamente fede cristiana e filosofia, possa essere annoverato fra i protagonisti della ricerca razionale, soprattutto nel momento in cui lui stesso smentiva di essere ascrivibile al novero dei filosofi tradizionalmente intesi. Kierkegaard risulta un integralista intollerante, un illiberale, vorrebbe una società retrocessa a un regime patristico e distopico. Il teologo danese contesta in parole povere alla moderna società post-illuministica e positivistica di essersi emancipata dal Cristianesimo medievale e da quell’oscurantismo. Chiama a raccolta i reazionari radicali e fanatici. Gli do però ragione quando sostiene che il Cristianesimo da lui prediletto e celebrato è stato ormai dolcificato dal progresso sociale (e aggiungo: meno male, nonostante ritardi e deficit nel migliorare il mondo occidentale in senso liberale). Il Cristianesimo di Kierkegaard è impastato di quella violenza fanatica in grado di produrre la distopia in terra. Di fronte a un mondo più maturo non c’è da stupirsi che egli nelle sue parole definisca questo essere cristiani annacquati “scandaloso” e “paradossale”: è l’unica cosa sensata forse che ha detto, se si ignora che lui lo ha fatto con intento promozionale e propagandistico, mentre noi possiamo con calma cogliere tali accezioni in direzione del tutto negativa. Si rivela davvero “scandaloso” e “paradossale” nell’Ottocento pretendere di riportare la società indietro nel tempo di secoli e nella qualità a un periodo carente di sviluppo scientifico e socialmente non riproponibile. Nel suo diario privato il Danese, tra le varie cose, mostra di non aver affatto simpatia per le ragazze romantiche. Nella sua annotazione su Regine permane un conflitto: ella resta sospesa fra paradisiaco e infernale. Innamorato di lei la respinge per ossequio a Dio. Di fronte a lei si sentì incompreso: la di lui nevrotica rigoristica mentalità religiosa gli impedì di coltivare al meglio e di mantenere il legame (alla fine giudicato pericoloso da lui in relazione alla personale salvezza eterna: agli occhi di Kierkegaard il matrimonio rappresenta il luogo di ipocrisie di facciata ed è in primis un centro di concupiscenza). Il ricordo di lei (complemento di specificazione oggettiva) lo perseguitò sempre, il dramma esistenziale di quel mancato amore costituisce la chiave di volta del sistema teologico kierkegaardiano. Da quel punto nevralgico trae origine il teorizzare da parte del teologo danese le ragioni della sua scelta di vita. Kierkegaard si offrì in toto al suo Dio-nevrosi, a guisa di un Isacco o un Giobbe, aspettando un aiuto, il quale non gli venne mai perché la moderna psicanalisi non era ancora sorta. Alla fine il Danese appare piuttosto simile al Werther goethiano, con la differenza che ciascuno di loro ha scelto diverse accidentali vie per stare male e autodistruggersi. Se leggiamo Kierkegaard in chiave romantica, i suoi deliri assumono un valore più nitido allo sguardo clinico. Tutto quello che scrive di teologico rischia di assumere la connotazione di una serie di opere distopiche, di esclusiva valenza personalistica. Il vero Kierkegaard chiedeva una mano che nessuno gli seppe dare. Non ci riuscì Regine, disposta a donarsi a lui (e dunque a perdere Dio nella visione kierkegaardiana), e allora non ci sarebbe riuscito nessuno. A conclusione della mia analisi reputo appropriato fornire un secondo chiarimento sulla mia impostazione di approccio psicanalitico generale. In principio ho parlato dei due tipi psicologici (freudiani e junghiani), spiegando come Kierkegaard appartenga a uno. Ho inoltre detto di una spiegazione “parziale” della misoginia cristiana. Adesso è giunto il momento di accennare alla spiegazione “totale” avente matrice junghiana. In passato ho più volte ricordato la teoria dei caratteri di Jung e la loro quadripartizione (mettendo da parte la questione sull’introversione e sull’estroversione). La facoltà cosciente razionale (la ragione in senso stretto) e il sentimento, visti rispettivamente quali caratteristiche di un “maschile” e di un “femminile” astratti (giacché albergano in ognuno e in misura variabile a prescindere dalla connotazione fisiologica), nel fenomeno della “nevrosi cristiana” (e naturalmente nel contesto del mio pensiero) vengono in maniera anomala e patologica spezzate nella loro contiguità d’asse razionale in senso lato. Si contrapporrebbe in un modo del tutto indebito a un presunto maschile biologico razionale un femminile sentimentale irrazionale: l’opposizione razionale/irrazionale condurrebbe in una forma illecita, malata, alla dicotomia poco sopra evocata. Pertanto il maschile sarebbe l’abito naturale positivo, il femminile l’opposto. Se l’uomo rappresenta il Bene e Dio, la donna è ianua Diaboli. Questo è lo pseudoragionamento sottostante nell’antifemminismo cristiano. Si tratta di un quadro interpretativo da applicare a soggetti misogini cristiani che hanno teorizzato la superiorità del maschio sulla donna attraverso argomentazioni, sempre figlie di nevrosi e pseudorazionalità, in una maniera dove non ha operato quel livello di libido intesa in senso freudiano. Tipi junghiani in tal accezione sono ad esempio Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino, soggetti affetti da “nevrosi intellettuali” e non mossi ormai da una pulsione sessuale ingabbiata e distrutta da tempo. Perciò la spiegazione freudiana della misoginia cristiana risulta corollario di quella generale junghiana. Chi non riesce a rompere per bene l’asse delle funzioni razionali coscienti rimane nevrotico misogino di grado freudiano con bisogno di patologica soddisfazione pulsionale libidica. Tra questi includerei gli autori del “Malleus maleficarum”. La profondità psicanalitica ante litteram freudiana da parte di Kierkegaard si nota in particolar maniera nel “Diario del seduttore”, una sezione di “Aut-aut” dedicata alla trattazione dello stadio estetico dove l’autore affronta il tema della subdola seduzione a scapito del gentil sesso. Il predatore kierkegaardiano, raffinato e senza scrupoli, orbita integralmente in un sistema libidico freudiano. La sua raffinatezza si rivela un mezzo volto a raggiungere propri scopi e appagamenti anche sublimati, in mancanza di una soddisfazione immediata. Essa è un escamotage ludico interiore. Infatti in tale modello il seduttore crea per sé uno spazio virtuale dell’anima dove portare le sue vittime e servirsene. In simile realtà virtuale creata allo scopo di perseguire il divertissement amoroso e per sfuggire alla noia egli fa entrare solo donne scarsamente connotate dalla sovrastruttura intellettualistica del Super Ego. Per lui le ragazze sono destinate all’incontro sessuale col maschile che ne realizza l’essenziale potenzialità di genere. Le donne predilette sarebbero quelle caratterizzate da una libido non mediata da esperienze di adeguazione conformistica (le quali sarebbero le meno mature e le più suscettibili all’adescamento amoroso). Irretire tale tipologia femminile, composta da ingenue, è l’obiettivo gratificante di simile predatore descritto da Kierkegaard, un seduttore il quale sfrutta la situazione davanti a sé a proprio vantaggio come se stesse giocando una disonesta partita a scacchi: qua l’obiettivo è mangiare la regina. Il “Diario del seduttore” costituisce de facto un bel romanzo decadente di stampo dannunziano, si rivela il ribaltamento ideologico de “I dolori del giovane Werther” nell’ottica “estetica” kierkegaardiana. Circa la distinzione che ho presentato di due gradi di libido, freudiana e junghiana, mi pare opportuno puntualizzare che la teoria sui caratteri proposta da Jung vedrebbe nei soggetti del livello più basso qui dei “percettivi-sentimentali”. Infatti il raffinato donnaiolo disegnato dal teologo danese, quale suo “infernale” alter ego, rappresenta un tipo percettivo-sentimentale junghiano dalle cui parole esce un machiavellico manuale del gaudente ipocrita. Kierkegaard, che non è stato comunque un intellettuale superficiale, in questo testo ha presentato fra le varie cose rilevanti allo sguardo analitico un paio di aspetti che voglio adesso ricordare. Ha teorizzato in maniera coerente e obiettiva in sé il “poliamore”: il seduttore apprezzerebbe con analoga intensità erotica la “differente” qualità precipua e specifica di ogni donna della sua pluralità affettiva attuale. Poi, dettaglio a quanto pare caratteristico in persone depresse, sottolinea il leopardiano “piacere della rimembranza” (un’inclinazione mentale la quale ho notato anche in Mary Shelley). Pure il seduttore kierkegaardiano, il quale sembra provenuto dallo huxleyano Mondo Nuovo (non mantiene neanche lui relazioni lunghe con le partner), si compiace del suo album di figurine e delle amorose imprese compiute: il redigerne una cronaca come il diario che altro rappresenterebbe ai suoi occhi se non piacere della ricordanza? Egli va a “caccia” di donne nella prospettiva di un articolato soddisfacimento erotico. Questa formale prassi di ricerca e soddisfazione, in modo patologico, culminante con l’abbandono completo della malcapitata, è lo stesso iter, ma qua con sostanza molto più clinicamente aggravata, della caccia alle streghe. L’inquisitore consuma un sadico rapporto in guisa estrema e ne fa rimembranza negli atti processuali. È da rilevare che il seduttore kierkegaardiano faccia altresì uso della tecnica del bastone e della carota al fine di spingere la sua vittima a offrirglisi tutta volentieri e spontaneamente: se volessimo inquadrare un simile predisporsi femminile in un piano religioso, definiremmo simbolicamente lei “sposa di Cristo”. Sia il donnaiolo descritto dall’intellettuale danese che l’inquisitore fanno “usa e getta” della donna: “bruciata” la loro illecita e patologica passione, tutto finisce e ricomincia dentro una sindrome compulsiva movente ex novo alla caccia. Il sentimento nutrito da Kierkegaard nei confronti di Regine Olsen mi appare molto morboso. Il “Diario del seduttore” rappresenta l’allegorico olocausto della ragazza al Dio d’Abramo? Cordelia, la protagonista femminile, rivela tratti in comune con l’Isacco del sacrificio: accetta qualsiasi cosa dall’inizio alla fine, si adegua a una “volontà superiore”.
 
 

Una vignetta satirica, pubblicata su un giornale danese, raffigurante Kierkegaard in groppa a Regine Olsen. Risale al periodo di comparsa de “Il concetto dell’angoscia”. C’era una didascalia la quale spiegava che il teologo danese teneva in allenamento l’ex fidanzata. Il tutto è molto indicativo dell’impressione che lui destava sopra i suoi contemporanei prossimi.
 
 
«Successe dentro a un teatro che le quinte andassero in fiamme. Il buffone venne fuori allo scopo di avvertire la gente. Ritennero si trattasse di una burla e applaudirono; costui replicò l’avvertimento: il pubblico tripudiò di nuovo maggiormente. In tal modo immagino che il mondo si estinguerà in mezzo al tripudio collettivo degli spiritosi, i quali giudicheranno trattarsi di una buffonata.»

Sören Kierkegaard, “Aut-aut”
 
 

NOTE

Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Filosofie sadiche”
https://www.academia.edu/45301442/Filosofie_sadiche

Per approfondimenti generali sulla tematica:

https://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/la-nascita-della-filosofia.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/05/aristotele-e-il-pericoloso-regno-di-dio_18.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/nevrosi-e-irrazionalismo-in-agostino.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/06/lirrazionale-misoginia-tomista.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2018/08/il-machiavellico-disegno-della-follia_29.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/07/cristianesimo-razionale-e-nazional.html

http://danilocaruso.blogspot.com/2020/08/la-misoginia-del-macbeth-shakespeariano_18.html

https://danilocaruso.blogspot.com/2019/02/pascal-e-le-ragioni-del-cuore.html

https://www.academia.edu/33666516/L_apologia_dell_irragionevole_di_Robert_Hugh_Benson