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mercoledì 7 luglio 2021
GUIDO GUINIZELLI E LA NASCITA DELLA SISTEMATICA CACCIA ALLE STREGHE
di DANILO CARUSO
La critica letteraria che ha visto nel fenomeno
stilnovistico guinizelliano un esperimento di mediazione fra topoi erotici
trasgressivi occitani e morale rigoristica cattolica medievale non ha colto a
mio modestissimo sentire la sottigliezza dell’elaborazione di Guido Guinizelli,
ghibellino bolognese vissuto nel XIII secolo. La letteratura provenzale cortese
che riabilitava la figura femminile in maniera positiva, ponendola come meta
ideale in una dialettica di sensualità, si era fermata al livello libidico
freudiano. Ciò ovviamente urtava la sensibilità religiosa misogina del
Cattolicesimo, il quale ebbe molto da temere dal Sud francese che cercò in vari
ambiti di ottenere autonomia culturale dal controllo cristiano. Da un lato i
femministi catari, dall’altro la letteratura occitana ribaltante la concezione
patristica della donna, costrinsero il Papato a fare un salto di qualità nella
repressione del dissenso e del progresso. L’Inquisizione nata al termine del
XII sec. allo scopo di contenere con efficacia concreta il dilagare eretico
raggiungerà in seguito il popolo femminile in quanto tale. Il passaggio alla
violenza materiale cattolica generalizzata quale strumento pubblico giuridico
possiede da un canto quale causa remota un sistema ideologico viziato da crepe
patologiche1, d’altro canto quale causa prossima l’esigenza di
impedire l’esistenza e il radicarsi di un’alternativa rispetto a un
totalitarismo socioreligioso. Ci si chiede talvolta perché la Chiesa abbia a un
certo punto della sua storia ingigantito lo spauracchio immaginario delle
streghe proseguendo la feroce misoginia patristica con un’opera sistematica di
disumane tortura e uccisione. La mia risposta è che il pretesto criminale
esteriore sia derivato dopo mutamenti socioculturali volti a conquistare
indipendenza da un ethos politico e spirituale totalitario e illiberale. Da ciò
vengono fuori il catarismo e la letteratura cortese, ad esempio. Il mondo
europeo avrebbe già goduto di una pluralità espressiva se non fosse stato a
causa del Cristianesimo. L’Impero romano pagano aveva i propri limiti
naturalmente, ma non perseguitava né streghe né omosessuali, né tanto meno
imponeva una religione. La misoginia grecoromana rimaneva su piani non così
letali se paragonata all’evoluzione di quella cattolica, la quale è giunta a
prendere con metodo calcolato le donne con l’obiettivo di sottoporle a sadiche
torture ed esecuzioni. Ritengo che una simile prassi sviluppatasi dalla fine
dell’Alto Medioevo (accanto a tutte le parallele persecuzioni) non abbia una
collocazione genetica temporale accidentale: la società europea si avviava a
uscire dall’oscurantismo assolutistico mediante l’azione di ceti
imprenditoriali desiderosi di affermazione economica, di libertà, di edonismo,
di minore nevrosi misogina (la quale non alberga per Natura in menti sane2).
Lo scontro fra (proto-)liberalcapitalismo (filofemminista) e Chiesa
totalitaristica misogina produsse un’irrazionalistica e ampia reazione del
Cattolicesimo al cospetto di eresie e cultura non antifemminista. Da questa
premessa acquisiamo il metro di lettura della produzione di Guido Guinizelli. Egli
(morto sui quarant’anni; sposato, con un figlio) si forma e agisce, sino
all’esilio dei ghibellini, in un Comune difficile per la fazione guelfa. La
Bologna di metà ’200 aveva infatti abolito schiavitù e servitù legata
all’agricoltura (norma detta del “Paradisum voluptatis”): in parole povere
avevano anticipato di sei secoli gli Stati Uniti nelle motivazioni. La poetica
guinizelliana non deve esprimere allora contenuti guelfi di vicinanza papale. Infatti
a leggere con cura adeguata gli scritti del Bolognese possiamo concludere che
agli occhi del clero romano quelle cose sapevano di bestemmia, e non di
accomodante mediazione pro morale cristiana. Tale è il caso di Guinizelli, caso
che ora chiarirò meglio. Per iniziare basta dire che un cattolico integralista
come il Dante della maturità colloca il poeta ghibellino tra i lussuriosi del
purgatorio: è evidente il fatto che questo Guinizelli non guardava le donne
come si guarda una statua della Madonna. Perciò i suoi testi devono esprimere
qualcosa che sia non il prodotto di una retorica conciliante. Ripeto che,
secondo me, lo Stilnovismo guinizelliano doveva suonare a guisa di bestemmia
presso l’orecchio cattolico osservante e conoscitore della teologia. Tant’è
vero ciò che un principio cardine risuona sulla bocca di Francesca da Rimini
nell’“Inferno” dantesco: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», calco del
guinizelliano «Al cor gentil rempaira sempre amore». Se un’anima dannata
pronunzia simile cosa vuol dire che essa è sbagliata e deviante (Francesca sta
spiegando il motivo per cui si trova all’inferno). Dante e la Chiesa condannano
la sessualità in sé, il padre dello Stil Novo no. Le analogie non terminano qui
poiché il citato verso dantesco prosegue così: «prese costui de la bella
persona / che mi fu tolta». La controparte guinizelliana è: «Foco d’amore in
gentil cor s’aprende». L’aspetto esteriore femminile costituisce il movente (il
che non rappresenta una novità, la maggioranza degli approcci parte dall’aver
visto). Una dimensione che mi pare trascurata nell’esame critico dello
Stilnovismo di Guinizelli, al di là della rilevazione delle radici provenzali e
siciliane, è quella platonizzante del Bolognese. Non so se possa essere
scaturita in lui da una meditazione sul “Simposio” o essersi maturata da sé:
fatto sta che lo scrittore mi appare filoplatonico3. Egli possiede
senza dubbio un’idea grecizzante: la bellezza è virtù, la “donna angelicata”
stilnovistica esprime siffatto ideale. Chi vede aristotelismo nel Bolognese non
coglie che questo serve all’artificio poetico, alla forma; mentre la sostanza è
platonica il corpo della donna non è più ianua Diaboli bensì ianua Dei: questo
configura un sovvertimento della Patristica, rappresenta eresia, costituisce
bestemmia. Guido Guinizelli non può piacere ai cattolici tradizionalisti di
ogni tempo, la sua “donna angelicata” non è la bambola teologica dantesca della
“Commedia”4. Lo scrittore bolognese sostiene che la donna sia un
polo di interrelazione physei positivo, la dottrina cristiano-patristica sino a
Tommaso d’Aquino5 (e oltre) ha insegnato il contrario. Non bisogna
comunque pensare che tutta la faccenda sia in Guinizelli generalizzata, giacché
tutto orbita all’interno del perimetro della “gentilezza”. Cos’è tale qualità
indispensabile? È un grado di libido junghiana conducente a raffinatezza
intellettuale, una nobiltà la quale si acquisisce grazie all’intelligenza.
L’Amore nella poetica guinizelliana è quello dell’Afrodite urania, non quello
parecchio ctonio dei cortesi occitani che col congresso carnale consuma la sua
parabola senza ulteriore prosecuzione ideale. Se, in entrambi gli ambiti
letterari malvagi e non virtuosi vengono esclusi da un’esperienza libidica
qualificata, soltanto la donna platonizzata del poeta bolognese offre
l’innalzamento al «gran mare del Bello». Simile (rivoluzionaria per quel
contesto medievale) impostazione concettuale rispecchia il “processo di
individuazione” fatto emergere da Jung nella psicologia analitica. È possibile
affermare che la “donna angelicata” sia simbolo dell’“anima” junghiana (parte
interiore psichica personale sessualmente opposta), ma non voglio togliere alla
donna concreta e reale la propria funzione. Quindi concludo che il simbolo
abbia suddetti due estremi tra i quali oscillare. La proposta individuante ante
litteram del Guinizelli è stata poi rigettata dal secondo Dante, e, con tutto
il resto di posizioni filofemministe, respinta, nel modo già chiarito, dalla
Chiesa. Sant’Oddone di Cluny (vissuto tra IX e X sec.) definì la donna “un
sacco di merda”: cosa c’è da pensare allorché il Bolognese paragona la prima a
una causa finale motrice qual è Dio? Lampante la portata contestatrice, di cui
lui stesso era il primo a essere consapevole se conclude il suo noto
componimento programmatico così:
[…] Deo mi dirà: «Che
presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza.»
Guinizelli aveva chiara la reazione ideologica al suo
pensiero, non si aspettava forse la plurisecolare stagione della grande caccia
alle streghe in risposta a tutti i progressisti. In un sonetto egli arriva a
dire della «donna» (termine opposto allo spregiativo “femmina”, usato ad
esempio da Dante con la «femmina balba») che intende «laudare»: «null’om pò mal
pensar fin che la vede». Agli occhi della Chiesa appare tutto il contrario,
perciò il corpo femminile dev’essere coperto e sfumato: costituisce suggestione
e istigazione verso il peccato. Guinizelli ci vede il tempio della libido junghiana.
È molto moderno, capisce che la compressione libidica crea disagio: «[la mia
donna] Passa per via adorna, e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona
salute». Non mi pare esagerato accostare il “lussurioso” – a detta di Dante –
Guido Guinizelli attraverso alcuni dettagli al Marcuse di “Eros e civiltà”
(1955). Uno spirito contestatore degno degli anni ’60 del ’900 muove il
Bolognese, diverse le analogie. In aggiunta alla generica evidenziazione di una
ricerca di maggiore libertà da vincoli nevrotici (dal rigetto della
maschilistica misoginia da parte del Guinizelli il ’900 italiano culminerà con
leggi pro aborto e divorzio) posso far notare come a) altri versi di lui
abbiano una tangenza sostanziale dentro b) una canzone cantata nel dopoguerra
da Little Tony al Festival della canzone italiana di Sanremo nel 1970 (“La
spada nel cuore”, testo letterale di Mogol).
a1)
Lo vostro bel saluto e
’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor […] per mezzo lo cor me lanciò un dardo
ched oltre ’n parte lo taglia e divide […].
b1)
Era uno sguardo
d'amore.
La spada è nel cuore e
ci resterà.
Sei bella, in questo
momento più bella.
a2)
Lo vostro bel saluto e
’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide […].
b2)
Era uno sguardo
d’amore la spada è nel cuore.
Mi sento morire morire per te.
Chi sa ben analizzare la storia può indicare in entrambi i
contesti cronologici testé evocati nell’accostamento una forma che si ripete
spesso nella storia, ossia la dicotomia “conservatori (reazionari) / progressisti
(liberaldemocratici). Un ultimo aspetto che voglio toccare nella trattazione
inerisce alla misteriosa setta dei cosiddetti Fedeli d’Amore, una non
certificata associazione segreta di intellettuali medievali i quali sarebbero
stati malvisti dalla Chiesa per via delle loro ampie vedute interculturali.
Quanto ho sostenuto sopra dà l’opportunità di allargare l’orbita della mia
analisi. Se suddetti Fedeli d’Amore sono esistiti nella realtà mi sembra con
alta probabilità possibile il fatto che Guido Guinizelli ne facesse parte. Il
mio rilevamento in lui di contenuti platonizzanti e grecizzanti troverebbe una
ratio più sostanziosa poiché sarebbe stato inserito in un circuito di idee che
si poteva alimentare di simili materie (ovviamente ci sarebbe stato per
simpatia ideologica). Questa affiliazione protomassonica (degli stilnovisti
anche posteriori) in relazione a lui e al suo rinvenuto taglio junghiano mi
permette di porlo in quel campo “alchemico” studiato da Jung. L’alchimia
poetica d’Amore rappresenterebbe dunque a maggior ragione nella poetica
guinizelliana l’orizzonte psicanalitico mediante una vocazione intellettuale la
quale si esprimeva – non si sa con quanta coscienza di ciò – in simboli e in
allegorie. Esiste un verso del Guinizelli che potrebbe alludere ai Fedeli
d’Amore nel quale riferendosi alla “donna angelicata” dice: «fa ’l de nostra fé
se non la crede». La “nostra fede”, a mio avviso, potrebbe essere l’adesione
ideologica alla setta; ho dubbi che qui il Bolognese stia parlando del Cattolicesimo.